Ep. 03

Andata e ritorno

I giovani stranieri che risiedono in Italia superano il milione e costituiscono circa il 40% di tutti i residenti stranieri entrati nel Paese nel 2018.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Neet. Senza una meta.

Quello dei NEET è un fenomeno complesso: dietro a un acronimo ci sono implicazioni da comprendere e affrontare.

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I giovani stranieri che risiedono in Italia superano il milione e costituiscono circa il 40% di tutti i residenti stranieri entrati nel Paese nel 2018. Si tratta per la maggior parte di uomini (62,5%) provenienti da Paesi al di fuori dell’Unione Europea (75,8%) e con un basso livello di istruzione (il 59,8% dei giovani stranieri ha concluso l’istruzione di base). Sono percentuali raccolte da Eurostat e sintetizzate in un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani, in particolare quelli del lavoro. In un documento pubblicato nel 2020, intitolato La transizione dei giovani stranieri nel mercato del lavoro italiano, l’OIL sottolinea che i giovani rappresentano una fetta rilevante dei flussi migratori: in Italia, nel 2019, quasi il 20% degli stranieri residenti aveva un’età compresa tra i 15 e i 29 anni. Il nostro è anche il terzo Paese dell’UE con il maggior numero di giovani stranieri (più di un milione), preceduto dal Regno Unito (1,5 milioni) e la Germania (2,5 milioni) e seguito dalla Spagna (988 milioni). In sintesi, come mostra anche una rilevazione ISTAT sulle forze lavoro (anni 2010 e 2019), nell’età dell’adolescenza aumenta la propensione all’emigrazione, mentre superati i 34 anni diminuisce in maniera significativa.

Per quanto riguarda la nazionalità, sempre secondo i dati di Eurostat riportati dal rapporto dell’OIL, i giovani provenienti da Romania, Albania e Marocco rappresentano il 41,6% di tutti i ragazzi stranieri residenti in Italia nel 2019. Nello stesso periodo, si sono invece registrati incrementi significativi per i giovani senegalesi (circa 150%), cinesi (di oltre il 50%), ucraini ed ecuadoregni.

Ma cosa cercano i ragazzi che arrivano in Italia?

Nel 2010 per la maggior parte di migranti il motivo di ingresso nel nostro Paese era il lavoro. Una percentuale scesa drasticamente al 6% nel 2018. In quell’anno, la percentuale più alta di stranieri è arrivata in Italia per protezione internazionale e umanitari (47,1%), ricongiungimento familiare (29,9%), istruzione e formazione (17,4%). Ma è difficile delineare con precisione quali sono i motivi che spingono i giovani a lasciare i loro Paesi di origine: il più delle volte si tratta di un insieme di ragioni che si sintetizzano nell’impossibilità di avere un futuro in termini di diritti, salute, economia, e lavoro.

Come si legge sempre nel rapporto dell’OIL, nel 2019 “la proporzione di giovani stranieri nella forza lavoro era superiore di oltre 11 punti percentuali a quella dei giovani italiani”. A fornire lavoro sono soprattutto il settore manifatturiero e quello dei servizi di alloggio e ristorazione: insieme forniscono lavoro a quasi la metà (42,6%) dei lavoratori extra-UE.

Per quanto riguarda la tipologia contrattuale, la maggior parte di giovani stranieri ha un lavoro dipendente (91%). Oltre il 70% dei giovani stranieri lavora a tempo pieno e 4 su 10 hanno un contratto a tempo determinato (che nei 3/4 dei casi ha una durata non superiore a 12 mesi). Tuttavia, “oltre 9 giovani lavoratori su 10 di provenienza da paesi extra-UE sono concentrati in lavori a bassa qualifica e a bassa retribuzione” (il 91,9% del totale dei giovani stranieri svolge una professione a bassa remunerazione), e “il tasso di irregolarità dei lavoratori stranieri è più alto tra i più giovani e tra coloro che provengono dagli altri paesi UE”.

I dati sulle caratteristiche dei lavoratori irregolari sono quindi pochi o non disponibili in maniera sistematica.

Se i giovani italiani faticano a trovare un loro posto nel sistema di formazione e lavoro del Paese, le difficoltà aumentano per chi arriva da una nazione straniera, non conosce la lingua, e non ha la possibilità economica di finanziarsi un percorso di studi. È per questo che, in termini proporzionali, secondo i dati del 2019 la percentuale dei Neet in Italia è più elevata tra i giovani dei paesi extra-UE (34,8%), seguiti da quelli di altri paesi UE (26,2%) e dagli italiani (22,1%).

La prima difficoltà che incontrano i giovani stranieri che arrivano in Italia è quella linguistica. Gianni Fulvi, che da anni si occupa di integrazione su tutto il territorio italiano, ha collaborato con la ‘Città dei ragazzi’ e la ‘Repubblica dei ragazzi’ a Civitavecchia, in provincia di Roma: una realtà che dal 1945 ha come obiettivo l’assistenza, la formazione e l’educazione della gioventù attraverso il metodo educativo dell’autogoverno. «La prima differenza dei giovani stranieri rispetto a quelli italiani è che non possono né vogliono perdere tempo, perché devono subito ripagare il loro viaggio e mandare soldi a casa» spiega Fulvi a Slow News. «Noi educatori cerchiamo di fargli comprendere che possono rimandare il pagamento del risarcimento e impiegare i primi mesi qui per formarsi. Ma è un concetto difficile da trasmettergli, perché in Paesi come l’Egitto, ad esempio, a 10 anni già si lavora. Noi cerchiamo di fargli capire che qui non è così, che possono investire del tempo per imparare la lingua e un mestiere. Per questa ragione, anche gli ospiti delle comunità spesso rischiano di cadere nello sfruttamento, lavorando fino a 12 ore al giorno. Ma le strutture che offrono assistenza si impegnano perché questo accada il meno possibile, e perché venga rispettato un percorso formativo che porti i giovani ad un diploma di terza media e che li faccia poi approdare in tirocini formativi».

Ma, anche se il tirocinio va a buon fine, è difficile che un ragazzo o una ragazza stranieri, senza una rete sociale e familiare alle proprie spalle, siano in grado di guadagnare abbastanza per poter pagare le spese di un affitto e di una vita dignitosa. E a quel punto in tanti, dopo anni di formazione, lavoro e integrazione, lasciano l’Italia per il nord Europa, in cerca di stipendi più consistenti. «Sono trent’anni che il fenomeno migratorio è all’ordine del giorno, e si parla ancora di emergenza» continua ancora Fulvi. «Come può essere un’emergenza? Conosciamo i numeri, conosciamo le rotte. Dovremmo oramai avere un piano strutturale, non possiamo continuare ad agire tamponando l’emergenza».

Per Fulvi, quindi, sarebbe necessario avere un piano strutturato di accoglienza, soprattutto per i minori non accompagnati. Negli ultimi anni la legge Zampa ha introdotto alcune novità come il divieto di respingimento dei minori stranieri non accompagnati alla frontiera, un sistema organico di prima e seconda accoglienza in Italia, l’armonizzazione delle procedure di accertamento dell’età, e il rafforzamento degli istituti della tutela e dell’affido familiare e maggiori tutele per il diritto all’istruzione e alla salute, nonché per i diritti del minore durante i procedimenti amministrativi e giudiziari.

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C’è ancora da fare, secondo Fulvi, e si potrebbe partire dall’analisi dei percorsi dei giovani che passano attraverso i centri o le comunità. «Avremmo bisogno di uno studio approfondito sul nostro lavoro» spiega, «altrimenti non possiamo avere un riscontro dei risultati. Non sappiamo che fine fanno i ragazzi che lasciano le nostre comunità. Dovremmo capire qual è la percentuale di tirocini formativi che si trasforma in contratto, e poi capire qual è il ritorno del nostro sforzo anche in termini economici: formare un giovane e poi lasciarlo partire per l’Europa o farlo rientrare al suo Paese non ha senso. Dobbiamo trovare gli strumenti che permettano a questi ragazzi un domani di essere autonomi, pagare le tasse, svolgere lavori che siano utili alla nostra comunità, e perché no, anche farli andare avanti negli studi. Dovremmo governare, saper interpretare, leggere e gestire il fenomeno, invece di rincorrerlo».

Anche il Sofel (Spazio di Orientamento alla Formazione e al Lavoro), attivo a Roma presso il Centro Giovani e Scuola d’Arte MaTeMù, è impegnato nell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro o della formazione, attraverso la creazione di percorsi individuali che partono dalla storia personale e dalle esperienze di ogni ragazzo o ragazza. Fa parte del Cies, onlus che si occupa di immigrazione, mediazione interculturale, educazione alla cittadinanza mondiale, formazione, comunicazione e sensibilizzazione al dialogo interculturale. L’obiettivo del Cies, in Italia, è “diffondere la conoscenza dei paesi d’origine degli immigrati e favorire la loro integrazione con laboratori nelle scuole; organizzazione di mostre, dibattiti e rassegne; realizzazione di corsi di formazione per giovani e adulti; attività ludicodidattiche, di orientamento e di sostegno psicologico per giovani italiani e stranieri”, si legge sul loro sito.

«Il problema principale è quello di agganciare il giovane: è difficile che un ragazzo Neet decida di entrare in uno sportello del lavoro: gli manca la motivazione. Di fatto, il lavoro non lo cerca» dice a Slow News Federica Fioretti, referente di Sofel. «Noi aiutiamo i giovani che riusciamo a intercettare a conoscere le opportunità che offre il territorio. L’obiettivo è inserirli in percorsi formativi che sfocino in un tirocinio. Ma i tempi devono essere brevi, perché i ripensamenti sono tanti. Noi proviamo a dare subito delle risposte».

In questo contesto, i giovani rifugiati, gli stranieri e gli ospiti di case-famiglia sono «doppiamente svantaggiati, perché non hanno una rete sociale o familiare alle loro spalle. Solo soli, e spesso non conoscono neanche i loro diritti. Per questo cerchiamo di spiegargli anche cos’è lo sfruttamento lavorativo, e facciamo una selezione tra le nostre aziende partner. Lavoriamo per fargli capire che esiste il diritto alla malattia» spiega ancora Federica Fioretti «e quando arriva la prima busta paga, o il primo attestato, un certificato tangibile del loro valore, già questo gli dà molto stimolo».

Negli ultimi due anni, a causa del Covid-19, questo processo è diventato ancora più complicato perché i settori in cui vengono inseriti i giovani sono quelli che più hanno sofferto durante la pandemia: turismo e ristorazione. Secondo gli ultimi dati (inizio dicembre 2021) analizzati da Sofel per il triennio 2019-2021, i giovani che hanno avuto accesso allo sportello di orientamento di formazione e lavoro e hanno avuto almeno un primo colloquio sono stati 645, con una media di 215 all’anno per circa 20 percorsi di tirocinio attivati all’anno. Negli ultimi mesi, però, le attività stanno aumentando, e diverse aziende o ristoranti si stanno rivolgendo al Sofel per chiedere la disponibilità di giovani lavoratori.

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«Ora i tirocini stanno ripartendo, ma noi abbiamo anche il compito di orientare i ragazzi e frenare la loro voglia di lavorare» spiega Fioretti. «Ad esempio è importante che abbiano almeno una conoscenza di base della lingua italiana che trovino la loro strada». Grazie ai Corsi di alfabetizzazione e avviamento alla formazione e al lavoro, finanziati con fondi dell’8×1000, i giovani hanno anche la possibilità di seguire lezioni per l’apprendimento della lingua italiana e percorsi di formazione professionalizzanti, come quelli per conseguire la patente di guida per carrelli elevatori (per lavorare nella logistica) o corsi di meccanica, elettrica, o autoimpresa.

Ma anche chi non riesce a trovare una sua dimensione, resta nel database del centro, e ha sempre la possibilità di essere ricontattato nel corso del tempo.

«I rifugiati che hanno bisogni specifici, vengono inseriti in un percorso più approfondito di bilanci delle competenze, con l’obiettivo di capire che tipo di lavoro avevano nel Paese di nascita e orientarli per capire se è possibile riadattare le loro competenze alle nostre esigenze. In quel caso si ricostruisce un percorso già avviato» dice Federica Fioretti. «Alcuni di loro hanno 18 anni, ma hanno alle spalle un’esperienza migratoria che li rende più adulti della loro età. Anche il viaggio migratorio può essere visto come un accrescimento della persona».

Il centro attivo presso il Matemù non è il solo canale attraverso il quale i giovani stranieri accedono alle opportunità del Sofel: lo spazio di orientamento alla formazione  e al lavoro, infatti, collabora con una rete di enti sul territorio, centri di accoglienza e case-famiglia che segnalano giovani stranieri o italiani in cerca di un’opportunità lavorativa. «Con gli stranieri è più difficile. Hanno bisogni più importanti, più urgenti» continua Fioretti. «Il bilancio di competenze richiede molte ore, ma a loro questo processo conoscitivo sembra una perdita di tempo, perché devono lavorare, mandare i soldi a casa. Sono sotto pressione, e vogliono subito delle risposte. Noi proviamo a fargli capire che questo tempo è un investimento che li porterà poi ad avere un percorso più qualificato, che non li faccia ricadere nel lavoro nero, nel lavoro meno specializzato».

Un’altra attività creato dal Sofel per offrire opportunità ai giovani stranieri è il Kick Off Day, un progetto realizzato con i fondi dell’8×1000. Vengono organizzate delle partite di calcio a cui assistono sportivi e allenatori, che selezionano i giovani più talentuosi e li inseriscono in percorsi di allenamento più strutturati. «Non tutti ce la fanno, ma è un altro modo per agganciarli, per avviarli in un percorso di responsabilizzazione».

Oltre ai giovani migranti, un’altra categoria ancora più esposta al rischio di disoccupazione, è quella delle donne. «Per le ragazze la situazione è ancora peggiore, in quel caso bisogna lottare contro una concezione che le vuole relegare in casa, ad occuparsi della cura della famiglia» spiega Fioretti.

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Umba è arrivata in Italia nel 2002, con i suoi genitori, quando aveva 13 anni. In Congo, il suo Paese d’origine, la lingua ufficiale è il francese, e all’inizio non è stato facile per lei entrare nella grammatica di una nuova lingua e una nuova cultura. La sua famiglia è andata a vivere ad Orte, vicino Roma, e a scuola non era facile interagire con i compagni: «Soffrivo molto il fatto di non riuscire a interagire con gli altri. Ero timida, le persone chiuse. Mi tenevano a distanza» racconta a Slow News. «Poi crescendo ho imparato ad accettare questa solitudine, a guardare oltre, a non aspettare che la gente mi accetti. Non mi concentro più su questi aspetti».

Appena adolescente, Umba si iscrive a ragioneria, ma poi è costretta a interrompere gli studi per trasferirsi in Polonia con la famiglia, dove il padre aveva trovato un’opportunità lavorativa migliore. «Lì ho rivissuto quello che avevo già passato qui, con la differenza che i polacchi sono ancora più chiusi degli italiani. L’integrazione è stata molto più difficile, e io non vedevo il mio futuro in quel Paese, così ho deciso di lasciare la mia famiglia e tornarmene in Italia, ad Orte».

A 18 anni, da sola, Umba comincia a cercare lavoro. Fa la babysitter, per qualche anno passa da un impiego all’altro, poi scopre di essere incinta e il suo percorso formativo e lavorativo si interrompono. Continua a dedicarsi a sua figlia fin quando la bambina ha 4 anni, poi si rimette a cercare lavoro. «Sono andata su Google e ho cercato dei centri che potessero aiutarmi a integrarmi nel mondo del lavoro. E ho scoperto il Cies Onlus» ci dice. «Mi hanno aiutata a scrivere un curriculum, a presentarmi ad un colloquio, e mi hanno dato la possibilità di fare stage e tirocini».

Umba ha lavorato come receptionist per qualche mese, poi è arrivato il Covid. Si ferma di nuovo, torna a lavorare come cassiera in un negozio. Da questa estate Umba lavora in una gelateria di Roma: «Mi trovo bene, finalmente grazie al lavoro mi sto integrando. E non ho bisogno dell’aiuto degli altri. Ora so come muovermi e a chi rivolgermi. Il Cies Onlus mi ha aperto gli occhi sulle opportunità. Ho vissuto tanti anni in Italia e non sapevo che il tirocinio potesse essere pagato».

Se per uno straniero trovare lavoro è più difficile di un giovane italiano, lo è ancora di più per una donna, mamma, separata. Per Umba la difficoltà è trovare lavori part-time, che le permettano di occuparsi anche di sua figlia: «Le donne con figli hanno molta difficoltà a inserirsi, soprattutto se sole» racconta ancora Umba «ma sceglierei sempre e comunque il lavoro rispetto all’idea di stare a casa con i figli. Avere la libertà economica è la cosa più importante, mi fa sentire utile nella società. Anche se poco, so che quello che porto a casa è frutto del mio lavoro. Quando vivevo con il padre di mia figlia lui voleva che non lavorassi, ma così ero costretta a dipendere da lui. Non ero libera, adesso lo so».

Oggi Umba ha 34 anni, e oltre al lavoro in gelateria, sta studiando per conseguire il diploma e sta facendo un corso per diventare operatorice socio-sanitaria: «Il mio sogno è quello di finire gli studi, continuare dove mi ero fermata e lavorare in ospedale. Avere un posto fisso e un contratto: a quel punto potrò essere sicura del fatto che ho un lavoro, un lavoro che mi fa sentire utile per me, per mia figlia e per la società in cui vivo».

La legge 47/2017, conosciuta come “Legge Zampa”, ha previsto la possibilità di diventare tutori volontari di minori stranieri non accompagnati per tutti coloro che siano interessati, e la partecipazione a corsi di formazione.
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