Milano, via Oxilia, sono passate le nove di una sera di fine settembre e ancora in sala non è entrato nessuno. Di fronte al cinema Beltrade non è frequente vedere una fila così lunga. In cartellone c’è Antropocene, un documentario sull’impatto ambientale umano sugli ecosistemi che va ben oltre il mero cambiamento climatico. L’ordine dei problemi si sta allargando. L’interesse della gente sta crescendo, ma forse non abbastanza.
Ci vuole almeno mezz’ora prima che tutta quella gente riesca a trovare un posto sulle poltrone di legno del Beltrade. C’è talmente tanta gente, che dagli altoparlanti del piccolo cinema indipendente a un certo punto si sente gracchiare una richiesta abbastanza inedita: spostatevi verso i posti più interni, riempite ogni posto libero. Fuori la fila è lunga, ma se collaboriamo c’è posto per tutti.
Nel pubblico c’è anche Marco Bertaglia, 49 anni, ricercatore specializzato in agroecologia, il primo italiano ad avere aderito al gruppo di attivisti ambientalisti di Extinction Rebellion. Formatosi nel Regno Unito alla fine del 2018 e raccogliendo l’eredità di altri gruppi radicali di protesta come Rising Up, Extinction Rebellion è un movimento più maturo e lucido rispetto a quello dei liceali creatosi in seguito agli scioperi di Greta Thunberg, che vista l’età media è naturalmente più istintivo e ingenuo, anche se parecchio più mediatizzato.
Quando alla fine della proiezione Marco prende la parola, la sala è ancora piuttosto piena. Anche qui, non è così evidente: sono le undici passate, è giovedì, e in sala c’è gente che a un dibattito del genere non ha mai assistito a una roba del genere.
«La strategia di Extinction Rebellion non nasce dal niente», dice Marco Bertaglia al microfono dopo essersi presentato al pubblico e spiegato gli obiettivi della lotta: azzeramento delle emissioni entro il 2025, verità sulla situazione e coinvolgimento dei cittadini nella gestione della crisi. «Se abbiamo scelto la non violenza e la disobbedienza civile è per un motivo ben preciso. Abbiamo studiato e analizzato la situazione. La storia dei movimenti, violenti o non violenti, ci insegna come dal 1900 al 2006 su 353 conflitti, analizzati molto in dettaglio, la non violenza abbia avuto successo nel 53 per cento dei casi. La violenza nel 26 per cento. Abbiamo il mito della violenza, ma a guardar bene funziona molto meglio. Quando si tratta di ribaltare una dittatura, la probabilità che un paese resti democratico dopo cinque anni dalla rivoluzione è del 40 per cento per un movimento non violento, del 5 per cento se era armato».
Mentre Marco parla, qualcuno si alza spazientito e, mentre supera goffamente le persone sedute al suo fianco per guadagnarsi l’uscita, si lascia andare a un timido «Mavaffanculo». Probabilmente non è semplice ascoltare quando ti spiegano che il mondo sta andando a rotoli e l’unico modo di fare qualcosa è evitare di cercare i colpevoli da punire.
La comunicazione non violenta
Cambiare il modo di ragionare e quindi di agire della gente è un lavoro difficile, lungo, complicato e non tutti sono capaci o disposti ad accettarlo subito. E superare la dic…