La televisione al pronto soccorso

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Entrare in un pronto soccorso la mattina è un problema per molti motivi. Il primo è ovvio: è un problema perché se entri in un pronto soccorso stai male, o sta male una persona a te vicina.

 

Il secondo forse è meno ovvio, ma discende dalla banale osservazione: il pronto soccorso è il luogo dove ti rendi conto per eccellenza della fragilità del sistema sanitario nazionale, insieme al momento in cui devi prenotare una visita. Dove ti rendi conto della fragilità del triage, cioè di quella valutazione rapida che deve fare il personale infermieristico per decidere se sei bianco – preparati a mettere le tende in pronto soccorso –, verde o azzurro – in questo caso forse basta un buon libro e qualche vettovaglia –, arancione o rosso.

Nel mio caso la fragilità del triage l’abbiamo superata di slancio: la persona che accompagnavo è svenuta appena sulla soglia dell’edificio e così la burocrazia l’ho gestita solamente dopo che era già stata soccorsa e sottoposta a esami di rito mentre le facce dei bianchi, verdi, azzurri in attesa da minuti o forse ore era un misto di preoccupazione e invidia e sospetto che qualcuno abbia pensato di svenire a sua volta per superare il triage.

Il terzo problema

Ma qui(*) parliamo di media e infatti il terzo problema è che c’è la televisione. Non so se ci sia in tutti i pronto soccorso d’Italia, di sicuro c’era lì. Accesa per distrarre, intrattenere, probabilmente non farti capire che il tempo passa.

L’elettrodomestico che molte persone tengono lì a far loro compagnia, acceso, perennemente, e sempre su Canale5. Non ho idea di chi gestisca il telecomando e di chi decida debba essere su Canale5: forse è da queste piccole decisioni inconsapevoli di persone che sono lì per fare altro che passa l’uniformazione culturale?

 

Fatto sta che mi sorbisco prima il Tg5 e poi, credo, Mattino Cinque.

Retorica e scivoloni

Ho la sensazione che ci sia una certa retorica di guerra gonfiata, pompata e quindi anche normalizzata. Non solo da questo Tg5 ma dall’ecosistema dei media italiani in generale. Ormai il mio filtro personale mi impedisce di vedere e ascoltare servizi di tre minuti o poco più sull’avanzata o ritirata russa, sulle armi e munizioni che bisogna continuare a produrre, sugli equilibrismi per non dire che a Gaza è in atto un genocidio.

Ma poi parte un servizio sulle elezioni presidenziali americane, su Trump e Biden, o meglio, sulle scarpe di Trump e Biden.

Quelle di Biden sono anti-caduta. Mentre scorre il servizio, le immagini di copertura mostrano Biden che cade a una conferenza; Biden che cade sulla scaletta di un aereo, ricade, cerca di fare il vago e andar veloce, cade ancora; Biden che saltella per far vedere che non cade e fa i pollici all’insù. Mi dico che mancano solo i suonini messi in post-produzione per sottolineare gli scivoloni, come farebbe Striscia la Notizia.

 

Poi c’è Trump che presenta le sue scarpe dorate che vanno a ruba e si vendono a prezzi impossibili – sarà vero? vorrei verificare – e sento nettamente dire dalla voice over che «non si può tenere il piede in due scarpe» poco dopo aver detto che Biden ha raccolto più soldi di Trump e poco prima di dire qualcosa che suona come «anche se sono scarpe di due candidati presidenti, entrambi in bilico per ragioni diverse».

I giovani d'oggi, in generale

Sicuramente scorrono altri servizi – uno sull’Italia di Spalletti che vince ma non convince, me lo ricordo, anche se sto ancora pensando a come raccontiamo le presidenziali americane alle persone che hanno appena passato un triage.

 

Poi parte Mattino Cinque.

 

Prima di tutto vedo un servizio su Rivoli, che racconta di due minorenni che hanno seviziato per giorni un signore che stava in una cascina: la telecamera indugia sul disagio della cascina, non un posto dove vivremmo. La voce fuori campo sottolinea l’efferatezza.

Poi c’è il collegamento in diretta, da fuori la cascina «degli orrori», credo di averla sentita chiamare così. L’operatore viene invitato a zoomare: non si può entrare, essendo il luogo di un crimine e dunque a disposizione delle sole forze dell’ordine. Ma si può zoomare.

 

In studio si parla dei giovani che non hanno empatia. Non si parla, se capisco bene, proprio di quei due giovani – e di sicuro non se ne parla avendo una reale conoscenza di quei due giovani – ma dei giovani in generale, che è una di quelle cose che non dovremmo fare.

Carcasse

E comunque, anche se si parlasse di quei due giovani, essi diventano il simulacro di tutti i giovani. Persone non più giovani, imbambolate che guardano lo schermo e commentano – cosa dovrebbero fare – signora mia i giovani d’oggi non sanno più, non rispettano più, non vivono più come vivevamo noi che vivevamo bene una volta.

 

Poi è il momento di Chiara Ferragni, o forse di quel brand che ora sembra non essere più un brand e che si chiama Ferragnez, e la notizia – ripresa, a quanto apprendo, da molti giornali – è che i Ferragnez non mostrano più i volti dei figli.

C’è qualcuno che dice che finalmente quei bambini sono protetti.

 

Tutto questo viene proiettato, viene proiettato anche adesso mentre scrivo, di fronte a persone bianco, azzurro, verde, arancione, rosso, che stanno poco male, male, molto male, malissimo, moribonde o in fin di vita o a rischio.

 

E a me rimane questa immagine terribile di quel che facciamo quando produciamo contenuti, quando parliamo delle cose del mondo che decidiamo essere importanti: l’immagine di avvoltoi che si cibano di carcasse. A volte quelle carcasse sono morti veri. A volte sono moribondi o morti che camminano. A volte sono persone-brand che si sbrandizzano e vengono fatti a brandelli. Le loro storie scorrono davanti a persone che non hanno storie altrettanto interessanti, o forse le hanno ma in questo momento nessuno le racconta.

Non posso fare a meno di pensare che quest’ultimo particolare sia, tutto sommato, una fortuna per loro.

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