Nell’era dell’informazione – in cui posso verificare su YouTube un pezzo del 2006. In cui chiunque può produrre e trasmettere in tutto il mondo a costi irrisori un qualsiasi contenuto – sono questioni cruciali.
Ne va di tutto il lavoro giornalistico, della sua credibilità, della tenuta dell’intero ecosistema informativo.
La cosa affascinante è che si tratta di un problema quasi insormontabile, irrisolvibile, soprattutto se si continua a fare giornalismo come al solito. Esattamente come non risolveremo i problemi dell’umanità e del pianeta se continueremo con il business as usual.
Se la storia di Cooke e quella di Wallace ti hanno fatto venire dubbi sul nostro mestiere, cosa fanno allora sulle persone che non sono addette ai lavori il terrore o la minimizzazione, le semplificazioni, questo virologo intervistato oggi, l’altro domani che dice il contrario di quello precedente, il tifo, la polarizzazione, la sciatteria non solo formale ma addirittura di metodo (ammesso che ci sia ancora, un metodo)?
Non è materia troppo tecnica: chi informa (e chi comunica) nell’era dell’informazione produce contenuti esposti, verificabili, confutabili. E ha anche grandi responsabilità, maggiore è la sua visibilità, perché quegli stessi contenuti verranno riutilizzati nelle conversazioni, formeranno opinioni, avranno impatti sulla società peggiori di quelli di un Jimmy o di uno scambio nel tennis. Moltiplica tutto questo per ogni singolo pezzetto di contenuto non accurato, non verificato, non sottoposto a perizia prodotto da una testata giornalistica e vedrai bene perché porsi il problema è importante. Forse cruciale.