Su queste premesse si collocano le cosiddette Carte della diversità, nate su iniziativa autonoma e volontaria di un gruppo ristretto di aziende e corpi istituzionali di alcuni paesi europei, che hanno deciso di creare insieme e firmare un accordo di intenti al fine di garantire l’uguaglianza di trattamento degli individui e promuovere l’inclusione dei soggetti sociali e lavorativi.
In queste Diversity Charters sono elencate proposizioni con le quali si impegnano a sensibilizzare contro le discriminazioni, rispettare le minoranze sociali attraverso lo scambio di buone pratiche, e a creare momenti di confronto e dibattito su tematiche inerenti, la cui partecipazione è aperta e consigliata a tutti i membri di qualsiasi livello.
Il primo paese a lanciare la Carta è stata la Francia nel 2004, seguita da Bruxelles, Germania e Spagna. Su questa scia, nel 2009 la Fondazione Sodalitas in collaborazione con Impresa Etica e UCID ha presentato il 5 ottobre la versione italiana: la Carta per le Pari Opportunità e l’Uguaglianza sul Lavoro. Oltre ai principi enunciati, simili alle Carte degli altri paesi, troviamo in questo documento anche una definizione di azioni concrete e step da seguire per l’attuazione delle politiche raccomandate nella parte iniziale. Per leggere il documento completo:
In tutti questi esempi di buone pratiche nel contesto italiano, però, si possono riscontrare tre criticità. Alcune filiali delle multinazionali, dovendo sempre fare riferimento alle direttive provenienti dall’alto, i cui vertici spesso si trovano in USA, si ritrovano a implementare le politiche di D&I in blocco, senza passare per un necessario filtro di contesto. In questo modo, si crea non solo una diffidenza sulla eventuale efficacia riguardo l’attuazione di tali politiche, ma si lasciano anche scoperte e non tutelate alcune specificità che si verificano solamente nel contesto italiano.
Esiste poi una seconda criticità, tipica del panorama italiano: la mancanza di una visione globale della diversity culturale.
Infatti, quando si parla di diversity culturale si fa quasi esclusivamente riferimento alle conseguenze dirette dei fenomeni migratori. Si suggeriscono dunque politiche di inserimento e integrazione degli stranieri, insegnamento della lingua, ricongiungimento familiare.
Ma esiste un’altra componente di questa categoria: gli italiani o europei con background culturale estero, che per via di quest’ultimo possono comunque subire una differenza di trattamento in ambito lavorativo, e che non può essere superata con le stesse politiche adottate per gli stranieri.
Infine, quando si parla di diversity o pari opportunità nel contesto italiano si intende implicitamente o esplicitamente solo la parità di genere, e all’interno di essa si fa quasi esclusivamente riferimento a donne occidentali di etnia caucasica. Per esempio il terzo principio della Carta Italiana enuncia chiaramente “superare gli stereotipi di genere”, dando una definizione precisa, indicando una priorità precisa e mettendo inevitabilmente in secondo piano tutti gli altri stereotipi di diversa natura. È ragionevole, seppur non dimostrato, ipotizzare che l’esistenza di donne di origine straniera e/o appartenenti alla comunità LGBTQ+ non sia equamente ritenuta prioritaria. L’approccio che si vuole suggerire di adottare in questo caso è quello intersezionale: gli stereotipi non si possono dividere in compartimenti stagni, come fossero binari paralleli, bensì è necessario adottare una visione che tenga conto di tutte le intersezioni che avvengono per effetto della combinazione di varie complessità su piani diversi.