Dalla fabbrica alle piazze, fino ai media: la convergenza come pratica politica

Mutualità, ricomposizione, intersezionalità: modi diversi di definire l’elemento decisivo che va recuperato per rendere efficace qualsiasi rivendicazione politica. Solo uniti si ottengono risultati. Una conversazione con Dario Salvetti.

convergenza in tangenziale, manifestazione per la palestina del 3 ottobre a milano

Nel pieno delle mobilitazioni per la Palestina, Dario Salvetti – portavoce del Collettivo di Fabbrica GKN – riflette insieme a noi sulla possibilità di una nuova ricomposizione delle lotte sociali e di comunicazione intersezionale: dal lavoro al clima, dalle periferie alla pace, contro un sistema che produce guerra, disuguaglianza e rassegnazione.

In questi mesi le piazze contro il genocidio di Gaza hanno riportato in strada moltissime persone, spesso diverse tra loro. C’è chi parla di un “tappo saltato” dopo anni di immobilità sociale. Tu come la leggi? È davvero un punto di svolta o solo una tappa di un percorso più lungo?

 

Credo che il tappo sia saltato, sì — con il rischio, però, che venga rimesso. Il potere sa riorganizzarsi, e non abbiamo la sfera di cristallo per capire quanto durerà questa fase. Ma alcune cose le possiamo dire.

 

Prima di tutto, questo processo nasce dentro degli orrori: il genocidio, ma anche il riarmo e l’abbrutimento della società. Questi fenomeni non sono episodi passeggeri: sono strutturali. E finché restano strutturali, è inevitabile che ci siano mobilitazioni sempre più consapevoli della natura antisistemica dei problemi che affrontano.

 

Ogni volta che si muove qualcosa, il potere reagisce, si ristruttura, prova a deviare il senso delle lotte. Oggi il passaggio decisivo, secondo me, è quello dalle lotte per la Palestina alle lotte con la Palestina, cioè la capacità di mantenere quelle forme di mobilitazione anche su altri terreni collegati, ancora da costruire.

 

In Italia, la cosa più interessante è che abbiamo visto una mobilitazione “alla francese”: non tanto per i blocchi o le occupazioni, ma per la capacità di riconvocarsi più volte, senza accontentarsi della grande manifestazione di rito. È un movimento che non si è appagato di aver “fatto il corteo”: è tornato in piazza finché ne sentiva il bisogno. È un segno che qualcosa si sta muovendo, che forse manca da decenni.

GKN è diventata un simbolo di convergenza tra mondi diversi: il lavoro, l’ambiente, il sociale. Come nasce questa connessione? È una scelta o una conseguenza naturale di come si è sviluppata la vostra lotta?


In realtà noi non abbiamo scelto la convergenza: è la convergenza che ha scelto noi. Non è un gesto “generoso” o un atto politico illuminato. Quando una lotta sta davvero sui propri obiettivi, e cerca concretamente di vincere, viene portata naturalmente verso la ricomposizione.


Noi abbiamo difeso la produzione per com’era, ci siamo opposti ai licenziamenti e volevamo tornare a lavorare. Ma il capitale ha svuotato la fabbrica: speculazione finanziaria, immobiliare, disimpegno di Stellantis, tutto mascherato da “transizione di prodotto”. Ci siamo ritrovati di fronte a un vuoto, e quel vuoto lo abbiamo riempito insieme al movimento climatico, dicendo: “bene, se voi volete andarvene con le vostre produzioni inquinanti, noi rispondiamo con la riconversione ecologica”.


Quel bivio è diventato poi il bivio di un intero movimento, anche a livello globale. Perché la stessa logica di deindustrializzazione e guerra ha colpito ovunque. La guerra in Ucraina, per esempio, ha stravolto le catene energetiche e produttive: e la risposta dei governi è stata reindustrializzare con la guerra.


La convergenza tra movimento operaio e movimento climatico serve proprio a rispondere: no, non solo la vostra riconversione bellica è disumana, ma è anche una truffa economica. Noi abbiamo un piano alternativo, e questo piano regge solo se c’è intersezionalità.


Non credo esistano temi più adatti di altri alla convergenza. Ci sono movimenti che l’hanno interiorizzata di più – come quello climatico o quello transfemminista – perché costruiscono naturalmente ecosistemi comuni. Ma in fondo, ogni lotta che dura nel tempo e resta fedele ai propri obiettivi finisce per incontrare le altre. È l’unico modo per sopravvivere e per andare oltre la propria parzialità.

Negli ultimi mesi si è vista un’energia fortissima nelle piazze, ma anche una certa difficoltà a mantenerla. Dopo i picchi di mobilitazione arriva spesso un calo, una fatica. Per mantenere viva l’energia, la comunicazione è decisiva. I social network sono uno strumento sempre molto potente, ma sono posseduti da miliardari reazionari, proni al trumpismo. Come si risolve questa contraddizione? Ce ne “freghiamo” e badiamo solo al risultato?


Non credo che si possa dire “chi se ne frega”. Mai. Né nella storia, né nella vita.
Il rapporto con i social network è pieno di contraddizioni, come lo è sempre stato quello con i media tradizionali. È un terreno che non controlliamo, ma che dobbiamo saper gestire.


I social hanno un vantaggio: almeno all’inizio, permettono di parlare senza passare solo dai comunicati stampa o dalle redazioni. Ma anche lì, non controlliamo nulla.


Il punto vero è che manca una “flottiglia dell’informazione” del movimento. Oggi ci sono singole navi – realtà, collettivi, esperienze nobili e generose – che navigano da sole. Ma manca una flotta, una struttura comune che permetta di agire di sponda, in modo organizzato.


Non si tratta di abbandonare i canali esistenti, ma di affiancarli con una nostra comunicazione collettiva.
Ogni volta che il movimento si spinge avanti, rivela le proprie inadeguatezze. E ci costringe a scegliere: affrontarle o far finta di niente.


Da questo ciclo di mobilitazioni dovremmo uscire con alcune certezze: che lo sciopero generale funziona, se è davvero generalizzato; che il mutualismo conflittuale – quello che parte dalle necessità concrete, come “ti porto da mangiare” – può generare contraddizioni antisistemiche; e che non si tratta di sostituirsi allo Stato, ma di svelarne l’impotenza costruendo risposte dirette dal basso.


Vale per chi fa soccorso in mare, per le flottiglie, per i circoli, per le associazioni, per i sindacati. E dovrebbe valere anche per l’informazione.

C’è una parte del Paese che ancora non si vede in piazza, ma qualcuno ci scriveva con grande sorpresa per aver visto in corteo “le partite iva”. Nessuno chiede il codice Ateco ai manifestanti, ma la composizione eterogenea della protesta è stata evidente. Quali categorie, persone o mondi sociali vorresti vedere nelle prossime mobilitazioni?


La risposta più semplice è: voglio vedere un blocco sociale vero. Ho visto anche piccoli imprenditori chiudere le loro aziende nei giorni di sciopero. Non è quello il nostro riferimento di classe, ma è il segno che un movimento determinato può coinvolgere mondi diversi.


La chiave, però, sono le periferie. Lo dico come lo dice la destra: la chiave sono i “maranza”. Ragazze e ragazzi delle periferie, che dal 2008 conoscono solo crisi. Proletari e sottoproletari, direbbe qualcuno, che lavorano in piccole aziende o nei servizi, e vivono in quella spirale di povertà, consumismo e disillusione.


Abbiamo visto qualcosa muoversi anche lì, ma non tutto. Gli scioperi hanno creato piazze importanti, ma nei settori privati, nei servizi, nelle piccole fabbriche, c’è ancora tanto da fare.


Quando riusciremo a coinvolgere quel mondo – e lo dico nel senso più nobile, classico del termine “plebe” – allora potremo parlare di qualcosa di davvero grande e trasformativo. Credo che la destra lo abbia intuito. Lo si vede dal livello di aggressività online, dal moltiplicarsi dei troll: è il segno che percepiscono il polso del paese sfuggirgli di mano. E questo, forse, è uno dei segnali più incoraggianti.

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Altri articoli Politica
Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

No Kings is coming

Da Brandon Johnson e dalle piazze di Chicago a Zohran Mamdani e alla sua vittoria a New York: il grido di chi rifiuta i padroni e i bulli sta cercando di riprendersi l’America partendo dalla città.