I Semi

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Lo scopo delle piante selvatiche non è nutrirci, ma diffondere i propri semi. Ma come fanno a farlo liberamente in un regime di oligopolio?

La Biblioteca del grano ospita 120 varietà di grano tradizionale e moderno provenienti da tutto il mondo. Quest’anno ha la forma di un labirinto perché, come spiega Antonio Pellegrino, “in questa contemporaneità priva di senso dobbiamo perderci per ritrovarci uniti”.

 

Caselle in Pittari (Sa), aprile 2023.

La storia celebra i campi di battaglia dove incontriamo la nostra morte,
ma non parla dei campi arati in cui prosperiamo;
conosce i nomi dei bastardi dei re, ma non sa dirci l'origine del grano.
Questa è la strada della follia umana.
Henri Fabre, entomologo e naturalista

Tutto inizia in Mesopotamia: semi liberi

Se c’è un luogo dove questa storia di grano e di umanità ha il suo inizio, quello è senza dubbio la Mesopotamia, la terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate. In questa regione, conosciuta come mezzaluna fertile e oggi compresa tra Iraq e Siria, ha inizio quel legame speciale tra Homo sapiens e specie vegetali fatto di convivenza, dipendenza e dominio.

 

Tra i 10 e i 12mila anni fa, in questa regione dove abbondavano cereali selvatici, l’uomo inizia il cosiddetto processo di domesticazione, ovvero la trasformazione di piante selvatiche in piante addomesticate: sceglie in campo le spighe più belle, seleziona le varietà e i semi con le caratteristiche che predilige per le sue esigenze e li conserva per riseminarli l’anno successivo.

 

Nei precedenti milioni di anni, le specie selvatiche si erano evolute e riprodotte in modo completamente autonomo e con tutt’altro scopo: le piante selvatiche, difatti, non hanno come obiettivo il nutrire noi, ma il vedere i loro semi diffondersi.

 

Aattraverso il processo di domesticazione l’uomo si inserisce nella storia du queste piante, acquisendo una “responsabilità evolutiva”,  per usare una espressione utilizzata da Sir Otto Frankel, genetista vegetale che già dagli anni Sessanta aveva avvertito della perdita di biodiversità in agricoltura, a causa proprio dell’opera umana.

 

In modo intuitivo o inconsapevole, l’uomo inizia così a contribuire al miglioramento delle caratteristiche delle piante alimentari che ritiene a lui utile. Effettua, di fatto, un miglioramento genetico. Da allora, l’evoluzione dei cereali e dell’agricoltura si è legata a quella dell’uomo.

 

Dalla domesticazione del farro selvatico si è passati al farro monococco (Triticum monococcum), e da quel piccolo farro si sono originati quelli che, ancora oggi, sono i frumenti più conosciuti e usati nelle diete quotidiane: il frumento duro, usato principalmente per la pasta e la pizza, e quello tenero, per i dolci.

 

Grazie alla domesticazione e alla coltivazione dei cereali, l’uomo da nomade diventa stanziale. Costruisce granai per stipare i cereali e con essi le cinte murarie, per proteggere il raccolto, che danno origine ai primi antichi insediamenti urbani.

 

Le prime città come Ur, Eridu o Uruk nascono in questo modo e con esse si sviluppano anche le classi proprietarie del grano: la nobiltà e i sacerdoti. Il granaio diventa la base del potere e chi possiede il grano, possiede il potere. Ma con il grano si ha anche bisogno di una unità di misura, di numeri e di scrittura. «Noi siamo fatti dai cereali e i cereali sono fatti da noi», scrive Åsmund Bjørnstad nel libro Our daily bread. A history of cereals. E in effetti è proprio così.

 

Le grandi civiltà umane – come quelle dei Sumeri, degli Assiri, dell’Egitto o della valle dell’Indo – sono sorte sulle basi di un’agricoltura in espansione fatta principalmente di cereali. La rivoluzione agricola del Neolitico segna una svolta senza precedenti in termini di miglioramento della vita dell’uomo, ma anche di alterazione dei rapporti con l’ambiente circostante, che viene inevitabilmente modificato dall’agricoltura e dagli esseri umani.

 

Mentre l’ambiente si modifica, i semi dei cereali si muovono e si diffondono liberamente migrando in tutti i continenti, insieme all’uomo, ed evolvendosi con quel tipo di selezione portata avanti dagli stessi agricoltori.

 

Per migliaia di anni il miglioramento genetico delle colture e la loro evoluzione è avvenuta così: scegliendo le piante “migliori” tra le moltissime che crescevano nei campi, senza brevetti, né royalties. Fino alla fine dell’Ottocento e all’inizio Novecento quando, con la scoperta della genetica e delle leggi dell’ereditarietà formulate dal biologo e abate agostiniano Gregor Mendel nel 1866, tutto cambia.

 

Le tradizionali tecniche di selezione massale (che consistevano nell’ammassare i semi delle piante ritenute migliori, senza separarle ma mescolandole) ereditate fino ad allora vengono in parte sostituite dalla selezione con una tecnica di miglioramento genetico artificiale (linea pura o selezione genealogica), soprattutto attraverso l’incrocio tra varietà diverse per ottenere nuove cultivar.

CULTIVAR

Termine con il quale in agronomia si indica una varietà di pianta coltivata ottenuta tramite miglioramento genetico, che riassume un insieme di specifici caratteri morfologici, fisiologici, agronomici e merceologici di particolare interesse e trasmissibili con la propagazione, sia per seme, sia per parti di pianta.

A inizio Novecento, in Italia, due dei più importanti pionieri del miglioramento genetico delle piante cerealicole e “rivali” scientifici, Francesco Todaro e Nazareno Strampelli, agronomi, ricercatori presso università e centri di ricerca pubblici, sono entrambi impegnati a migliorare la critica situazione economica dell’Italia attraverso l’agricoltura. In quegli anni, infatti, gran parte della popolazione italiana vive di agricoltura arretrata e di sussistenza, senza adeguati mezzi e tecnologie agricole.

 

Questo dipendeva anche dai cosiddetti “residui feudali” –  prendendo in prestito le parole dello storico dell’economia Emilio Sereni – ancora ben radicati nel regime della proprietà terriera italiana: la stragrande parte della terra era proprietà di pochi proprietari, il più delle volte nobili, clero, latifondisti e potentati locali che puntavano sulla rendita agraria e non avevano alcun interesse a investire e migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei milioni di mezzadri, braccianti e jurnatari che lavoravano nelle campagne italiane.

 

In quegli anni, però, lo squilibrio fra il consumo e la produzione agraria e l’aumento della popolazione portano ad un aumento delle importazioni di grano dall’estero, che grava notevolmente sulla bilancia commerciale. La situazione peggiora con la Prima guerra mondiale e il conseguente reclutamento di braccia da inviare al fronte che abbandonano in massa le terre.

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Il Labirinto del Grano. Caselle in Pittari (Sa), Aprile 2023. Frame da video di Giuseppe Pellegrino.

Grano e guerra

Alla Stazione sperimentale di granicoltura di Rieti, grazie all’impianto di una vera e propria filiera che dalla ricerca conduce fino alla commercializzazione delle sementi, Strampelli avvia un programma di miglioramento genetico del grano che lo porterà a costituire alcune decine di varietà di frumento tenero e duro destinate a rivoluzionare la granicoltura italiana della prima metà del Novecento e quella mondiale nei decenni successivi.

 

Nel 1914 presenta il frumento “Carlotta Strampelli” (battezzato con il nome della moglie e collaboratrice Carlotta Parisani), ottenuto per ibridazione e in grado di resistere contemporaneamente alla ruggine e all’allettamento. L’anno successivo, a Foggia, ottiene il grano duro “Senatore Cappelli”, tornato “di moda” in Italia da qualche anno e legato ad alcune controversie sulla concessione in esclusiva alla società sementiera SIS (su questo ci torneremo più avanti).

 

Strampelli si afferma soprattutto nel miglioramento genetico del grano tenero grazie alla costituzione delle prime varietà precoci, come le celebri “Ardito” e “Mentana”, ottenute mediante un “incrocio a tre vie” tra i frumenti “Wilhelmina”, “Rieti” e il giapponese “Akakomugi”. Semplificando: l’agronomo marchigiano incrocia la varietà “Rieti originario”, resistente alle ruggini con il Wilhelmina Tarwe, varietà olandese ad alta resa e successivamente incrocia il risultato con “Akakomugi”, un frumento giapponese di scarsa importanza agronomica ma caratterizzato dalla taglia bassa e dalla maturazione precoce.

 

Attraverso l’incrocio ottiene così nuove varietà con caratteristiche innovative tali da consentire un aumento delle rese di frumento a fronte di un modesto aumento della superficie coltivata. Il lavoro di Strampelli culmina agli inizi degli anni ’20, con il rilascio dei famosi “Grani della vittoria” o “Razze elette” che diventano vera e propria arma di propaganda del regime fascista durante la “Battaglia del grano” del 1925.

 

Mussolini ne fa un’operazione propagandistica del regime fascista saldandola con il mito dell’autarchia ma è grazie al lavoro di innovazione della ricerca pubblica e dei suoi scienziati – come quello fatto da Strampelli – che si è riusciti a raddoppiare la produzione di grano, passando dai 44 milioni di quintali di grano prodotti nel 1922 agli 80 milioni di quintali ottenuti nel 1933, assicurando così a Mussolini il sostegno popolare. Un lavoro di ricerca pubblica e di innovazione che non aveva un’identità “nazionale” ma si basava sull’incrocio di varietà tradizionali di frumento con altre piante provenienti da tutto il mondo, come il Giappone, la Tunisia o l’Olanda.

«Si tratta, a tutti gli effetti, di un vero oligopolio»
Phil Howard, professore all’Università del Michigan, membro del gruppo di ricerca IPES

Se a seguito della battaglia del grano la dipendenza dall’estero per il frumento cala, quella legata ai fertilizzanti sintetici ed ai macchinari inizia a crescere. Gli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale coincidono, infatti, con la commercializzazione dei fertilizzanti a base di nitrato di ammonio. La sintesi dell’ammoniaca è brevettata dal chimico tedesco Fritz Haber, che nel 1909 realizza insieme a Carl Bosch, ricercatore dell’azienda chimica BASF – ricordate anche questo nome perché ritornerà –  il processo industriale che andò in marcia nel 1913.  Per questa scoperta Haber prese il premio Nobel per la Chimica nel 1918, mentre Bosch, insieme a Friederick Bergius, lo prese nel 1931 per le scoperte sulle sintesi chimiche sotto pressione (iniziate con la sintesi di ammoniaca).

 

La scoperta della sintesi dell’ammoniaca è considerata una delle più importanti scoperte dell’umanità, perché ha permesso di produrre esplosivi e al tempo stesso fertilizzanti azotati di sintesi a basso costo ed in grandi quantità. Non è un caso che proprio la varietà di Strampelli “Ardito”, chiamata così in omaggio alle truppe d’assalto della Prima guerra mondiale, abbia avuto così successo anche grazie all’utilizzo del nitrato d’ammonio, usato dai tedeschi come componente di ordigni esplosivi.

 

Durante la guerra, si accorsero che il nitrato d’ammonio liberava azoto nei terreni, rendendo le piante più vigorose. La varietà Ardito, così come le altre varietà moderne sviluppate in seguito, erano in grado di tollerare un maggior apporto nutritivo fornito dai terreni. In altre parole, potevano essere coltivate su terreni ben concimati, poiché resistendo all’allettamento, cioè al collasso dello stelo, potevano sopportare l’aumento di peso delle spighe dovuto al maggior accumulo di nutrienti che dal terreno finivano nei chicchi.

 

Le industrie belliche – tra cui BASF, Bayer, utilizzate sia durante la Prima che durante la Seconda guerra mondiale nella produzione di materiali bellici, tra cui esplosivi e armi chimiche – furono riconvertite nel dopoguerra per produrre fertilizzanti utili all’agricoltura industriale. Ancora oggi il nitrato d’ammonio è uno dei componenti principali dei fertilizzanti di sintesi usati nei terreni, proprio quello che la Russia ha smesso di esportare a febbraio 2022 prima di invadere l’Ucraina. Insomma grano e guerra sono sempre stati vicini nel corso della storia. E lo sono ancora oggi.

I temi fondamentali

Col termine ruggini s’indicano affezioni dovute a funghi patogeni del genere Puccinia, con formazione di lesioni (pustole) di color ruggine che, a seconda della specie del fungo, possono interessare vari organi della pianta (fusto, foglie, spiga).

 

L’allettamento è la tendenza al piegamento (fino a terra) caratteristica delle specie erbacee a fusto lungo, spesso favorita da eventi meteorologici intensi (pioggia, vento) ma anche – nel caso del frumento – dall’eccessiva fertilità della spiga.

 

Senatore Cappelli è la prima varietà di frumento duro ottenuta da Strampelli dalla selezione dentro una popolazione tunisina chiamata Jean Retifiah. Varietà a ciclo medio-precoce, di taglia alta, con spiga bianca grande e ariste nere lunghe, cariosside grande, vitrea, di buon peso ettolitrico e buon contenuto in proteine. La varietà è dedicato al politico Raffaele Cappelli che gli aveva concesso l’uso di un fondo agricolo per condurre sperimentazioni volte a costituire varietà di frumento adatte ai climi caldo-aridi del Meridione.

 

Tra gli slogan del regime fascista ricordiamo: «è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende» oppure «più profondo il solco, più alto il destino».

Chi controlla i semi?

A partire dal Secondo dopoguerra, i frumenti di Strampelli si diffondono ampiamente a livello internazionale nei programmi di miglioramento genetico attuati dai principali paesi produttori del cereale: Cina, Argentina, Messico, Paesi dell’area Mediterranea e dell’Est Europeo, Unione Sovietica, ma anche Australia e Canada. In Messico, in particolare, la varietà “Mentana” sarà alla base del programma di miglioramento genetico che consentirà all’agronomo statunitense Norman Borlaug, oggi ricordato come il padre della Rivoluzione verde, di ricevere nel 1970, più di quarant’anni dopo il lavoro fatto da Strampelli, il premio Nobel per la Pace.

 

I geni introdotti dall’agronomo italiano nelle sue varietà di frumento, responsabili della bassa statura del fusto, della precocità di maturazione e della resistenza alle ruggini, sono ancora oggi alla base dell’architettura genetica delle varietà “moderne” del cereale, coltivate in tutto il mondo. Ma il colpo di fortuna o di genio di Strampelli è stato quello di aver puntato, già un secolo fa, sul concetto di biodiversità, avvalendosi, ai fini sperimentali, di varietà di frumento provenienti da ogni angolo del globo.

 

Come racconta Sergio Salvi, biologo, cultore di storia agroalimentare e biografo di Nazareno Strampelli, «in un’epoca in cui il concetto di diversità genetica non era ancora nato, egli allestì una collezione di 250 varietà di frumenti, provenienti da tutto il mondo, per poter disporre della massima diversità possibile in termini di caratteristiche utili da riunire con gli incroci, generando nuove varietà più idonee ai suoi scopi. Pensare oggi di puntare sulla monocultura a tutti i costi oppure su un pugno di specie o di varietà agrarie per produrre di più e in modo sostenibile è un’utopia: la diversità genetica in agricoltura è fondamentale per poter progredire nelle rese come nel superamento dei problemi climatici e ambientali«.

 

Nel frattempo, con l’avvento del miglioramento genetico “moderno” avvengono cambiamenti fondamentali attorno ai semi: il miglioramento è portato dai campi agricoli alle stazioni di ricerca, passando dalle mani degli agricoltori a quelle dei ricercatori e riducendo così la varietà di climi, suoli e culture in cui avviene la selezione. Le stazioni di ricerca con il tempo sono diventate sempre più simili tra di loro e sempre meno ai campi degli agricoltori. La selezione che prima mirava ad un adattamento specifico a ciascun contesto, luogo di coltivazione e cultura alimentare di un determinato territorio è sostituita dalla selezione per un adattamento più ampio possibile ad ambienti “aggiustati” tramite input chimici esterni e resi pertanto più simili, omologando così anche le culture alimentari.

 

Questo processo ha prodotto varietà di frumento – ma non solo – ad alta resa che hanno in parte permesso di soddisfare una domanda sempre maggiore di cibo. Ma al tempo stesso questa trasformazione ha causato, quello che Riccardo Bocci, agronomo e direttore tecnico di Rete Semi Rurali, una rete di associazioni attive nella tutela, valorizzazione e promozione della biodiversità agricola, chiama il deskilling degli agricoltori. «Questo tipo di agricoltura ha tolto competenze e capacità agli agricoltori di capire l’ambiente. Si offre un pacchetto tecnologico pronto all’uso dove i semi sono un pezzo importante di questo pacchetto tecnologico. […] Questo tipo di agricoltura si è diffuso in tutto il pianeta, riducendo la biodiversità, distruggendo habitat, ecosistemi e culture alimentari», spiega Bocci.

«Abbiamo assistito a una concentrazione del mercato delle sementi dominato da quattro, cinque multinazionali e, al tempo stesso, a una riduzione delle varietà perché sono stati creati ambienti sempre più omogenei dove quelle varietà possono funzionare.

Quindi, insieme ai semi, si sviluppa un modello agricolo industriale, convenzionale, basato sull’utilizzo di alti quantitativi di input chimici, protetto dai diritti di proprietà, che tende ad uniformare gli ambienti e che è adatto ad ambienti più facili come le pianure».
Riccardo Bocci

Se per migliaia di anni il miglioramento genetico vegetale è stato nelle mani degli agricoltori, negli ultimi quaranta è passato sempre più nelle mani di aziende private che finanziano la loro attività attraverso licenze per la vendita dei semi. Ciò è stato possibile anche grazie all’adozione dei semi ibridi che ha reso gli agricoltori dipendenti da poche grosse aziende sementiere a cui devono riacquistare semi e input chimici ogni anno.

All’interno di un magazzino di un’azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L’azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals, insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell’azienda agricola contiene sementi certificate e prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023. Video di Sara Manisera.

Il lavoro delle ditte sementiere pubbliche e private è ed è stato tuttavia di fondamentale importanza per innovare l’agricoltura; già agli inizi del Novecento sono nate alcune delle più importanti in Italia, sotto l’impulso di ricercatori e scienziati delle università pubbliche.

 

Basti pensare alla “Società Anonima Cooperativa Bolognese”, l’odierna Società Produttori Sementi (SIS), nata nel 1911 sotto la spinta di Francesco Todaro, professore di agricoltura e Direttore della Scuola superiore agraria di Bologna e della Cassa di risparmio bolognese. Oppure l’Istituto nazionale di genetica per la cerealicoltura fondato da Nazareno Strampelli o l’Istituto di Agronomia dell’Università di Agraria di Firenze guidata da Marino Gasparini che ha sviluppato la varietà Verna, adatta per l’Appennino e le aree più marginali di montagna.

 

O ancora il Crea, il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura ed Economia Agraria, l’ente italiano pubblico di ricerca più importante che affonda le sue radici ben prima, nel Risorgimento, a partire dall’istituzione nel 1850 del Ministero dell’agricoltura e commercio del Regno di Sardegna e il suo affidamento a Camillo Benso conte di Cavour, prima che uomo politico, imprenditore agricolo e fondatore della prima industria dei fertilizzanti in Italia.

Camillo Benso Conte di Cavour - Rielaborazione da ritratto di Antonio Ciseri (1821-1891) - Pubblico dominio
Camillo Benso Conte di Cavour - Rielaborazione da ritratto di Antonio Ciseri (1821-1891) - Pubblico dominio

Il personaggio

Camillo Benso conte di Cavour. Negli anni 1850-52, in qualità di Ministro dell’ Agricoltura e del Commercio, viaggiò tra Francia, Belgio e Inghilterra, ed entrò in contatto con diverse pratiche agricole, tra cui l’utilizzo del guano come fertilizzante. Il guano, costituito dagli escrementi degli uccelli marini,  si trova in grande quantità su alcune isole e coste sudamericane. Era noto per essere un potente concime organico, composto da ossalato e urato d’ammonio, fosfati, e alcuni sali minerali e impurità. Cavour ne constatò l’efficacia e ne promosse l’importazione. Il guano però a fronte di una richiesta sempre maggiore saliva di prezzo. Il Conte decise di coinvolgere i chimici Domenico Schiapparelli e Bernardo Alessio Rossi per creare una fabbrica di guano artificiale.

Ma ciò che è successo negli ultimi quarant’anni a livello globale – e anche nazionale – è, da una parte, una preoccupante concentrazione del mercato delle sementi e delle tecnologie agricole in mano a poche aziende e, dall’altra, un progressivo smantellamento e definanziamento del miglioramento genetico pubblico.

 

In pratica sono i privati a decidere che semi migliorare, sviluppare e con quale obiettivo. E chi controlla i semi, controlla i sistemi agricoli ed alimentari, ovvero ciò che coltiviamo e mangiamo.

 

Nel momento in cui scriviamo, la vendita delle sementi è controllata da un esiguo numero di società. Bayer-Monsanto (tedesca), Dow-Dupont-Corteva (statunitense) Sino-ChemChina-Syngenta (cinese) e BASF (tedesca), dominano il 60% del mercato mondiale delle sementi e il 75% del mercato globale dei pesticidi. Tra il 2018 e il 2022, le “quattro grandi” aziende agrochimiche, Bayer, BASF, Corteva e Sinochem, hanno accresciuto ulteriormente il loro potere attraverso acquisizioni e fusioni tattiche. La mega-fusione di Sinochem e ChemChina nel 2021 ha segnato un notevole cambiamento nel sistema agroalimentare: la fusione di due aziende giganti di proprietà del governo cinese ha portato alla formazione del più grande conglomerato chimico del mondo e della terza azienda di sementi, che opera sotto il nome del gigante svizzero Syngenta acquisito nel 2017.

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La mappa della concentrazione dei semi realizzata da Phil Howard, della Michigan State University, e Amos Strömberg, della Lund University. Clicca qui per navigare la mappa

Come scrive Phil Howard, professore all’Università del Michigan, membro del gruppo di ricerca indipendente IPES – International Panel of Experts on Sustainable Food Systems – che si occupa di ricerca e sostenibilità dei sistemi alimentari, «Negli anni 2000 le sementi e i prodotti agrochimici erano controllati da sei aziende. Oggi il numero si è ridotto a quattro. Questa tendenza ha reso meno netti i confini tra sementi, prodotti agrochimici, tecnologie e agricoltura digitale, controllate sempre dalle stesse grandi aziende».

 

Secondo Pasquale De Vita del Crea – il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura ed Economia Agraria – della sede di Foggia, invece: «Per gran parte del secolo scorso, l’attività di ricerca era quasi esclusivamente appannaggio del pubblico. Oggi, invece, le tecnologie, anche quelle più discusse come gli organismi geneticamente modificati (OGM) o altre, sono in mano ad aziende private. Invece noi crediamo che dovrebbero essere governate anche dal pubblico. L’innovazione tecnologica è fondamentale nel settore pubblico perché può aiutare l’azienda agricola ad essere più libera da certe strategie commerciali che creano dipendenza. Se chiudi l’offerta al pubblico di utilizzare anche le tecnologie più moderne, chiaramente ci sarà qualcun altro che lo farà al tuo posto».

 

Il 14 marzo 2023 il Crea, l’ente di ricerca agricolo del governo italiano, ha presentato un documento insieme ad Assobiotec, la branca di Federchimica che riunisce un centinaio di industrie attive nel campo della biotecnologia, relativo al contributo della genetica avanzata, concludendo che bisogna «promuovere un sistema pubblico-privato di miglioramento genetico basato sulle tecnologie genomiche più avanzate», reputandolo «strategico per adeguare l’agricoltura nazionale al futuro e mantenere la sostenibilità e la competitività del comparto agricolo nazionale». Durante la presentazione erano assenti i rappresentanti dei consumatori, dei contadini e della società civile.

 

Una parte della società civile reputa prematuro e molto dannoso questo passaggio. La Coalizione Italia Libera da OGM, formata da 32 associazioni contadine, ambientaliste, consumatori del biologico ha risposto con preoccupazione all’annuncio sull’approvazione entro l’autunno 2023 di due proposte di legge che consentiranno la sperimentazione in campo dei TEA, “Tecniche di Evoluzione Assistita”, senza aspettare le eventuali disposizioni europee in materia. Nel comunicato la Coalizione scrive che «ritiene grave che l’istituzione pubblica che dovrebbe fornire indicazioni agli agricoltori sulla base di una seria ed approfondita base documentale, si faccia portavoce di interessi industriali, in un evidente conflitto d’interesse».

 

Per le associazioni della Coalizione “Italia Libera da OGM”, la posizione del Crea e dall’industria si basa una «visione politica antiecologica e antisociale, schiacciata sugli interessi delle imprese sementiere e agroindustriali” e chiede alla politica “di scegliere la strada sicura per tutti: la ricerca pubblica deve essere finanziata e portata avanti, ma deve essere trasparente, adoperandosi a dimostrare i rischi delle innovazioni tecnologiche».

 

Il dibattito pubblico in Italia su queste tecnologie è stato spesso polarizzato in questi anni e non ha lasciato spazio alla riflessione e a un confronto di qualità. Quel che è certo è che mais e soia OGM coltivati in Brasile, Argentina, Canada o Stati Uniti entrano già dentro la filiera agroalimentare italiana ed europea da diversi anni sotto forma di mangimi per bovini, suini, pollami e pesci perché la produzione italiana non è sufficiente a coprire il fabbisogno alimentare di questi animali e di questa industria. L’altra certezza è che al momento quattro mega aziende controllano più del 50% di un mercato importantissimo: quello fatto di semi, chimica, farmaceutica, pesticidi, tecnologie e cibo.

 

Nel report “Food Barons”, pubblicato nel 2022 dall’ETC Group, un gruppo di ricerca indipendente che si occupa di controllo democratico delle tecnologie, si legge che «I baroni dell’alimentazione stanno introducendo una serie di nuove tecnologie e “tecno-fissazioni” che sono concepite e progettate per rafforzare ulteriormente il controllo corporativo sul cibo, sull’alimentazione e sull’agricoltura. Hanno già il controllo della ricerca e dello sviluppo agricolo per soddisfare i propri interessi e continuano a concentrare il potere e a influenzare il commercio, gli aiuti e le politiche agricole per alimentare la loro crescita e i loro profitti».

 

Quindi il problema non è la tecnologia in sé ma chi controlla e ha il potere su quella tecnologia. Non ha dubbi Phil Howard: «Si tratta a tutti gli effetti di un vero oligopolio perché quando 4 aziende controllano più del 40% del mercato e hanno il controllo della tecnologia, esso non è più competitivo e non è orientato all’interesse pubblico», spiega il professore. E allora, forse, non sarebbe meglio governare a livello pubblico queste tecnologie, fare una corretta informazione che includa tutti gli attori ed evitare che anche le nuove innovazioni siano gestite da pochi privati?

Che succede in Italia?

Se a livello globale quattro multinazionali controllano il mercato delle sementi, dei pesticidi e delle tecnologie, anche in Italia si sta assistendo – seppur con misure e dimensioni diverse – a una crescente integrazione verticale della filiera che va dal seme fino alla pasta e ai prodotti dei supermercati. Lo ha raccontato in maniera approfondita l’inchiesta di Altreconomia “BF. Il vero sovrano dell’agricoltura in Italia”.

 

In poche parole, la filiera agroindustriale italiana si è trasformata attorno a BF Spa, il più importante gruppo agro-industriale italiano – quotato alla Borsa di Milano, Holding di Bonifiche Ferraresi e amministrato da Federico Vecchioni, ex presidente di Confindustria – che ha inglobato tutti i settori chiave: i semi con la SIS, la Società Produttori Sementi; la proprietà dei terreni con Bonifiche Ferraresi, primo proprietario terriero con circa 11.000 ettari; la commercializzazione di input e servizi agricoli con Consorzi agrari d’Italia Spa fino ad arrivare alla Grande distribuzione organizzata con il marchio Stagioni d’Italia. Ma non solo, BF ha anche firmato un accordo di collaborazione con Eni e con il sostegno di Coldiretti per sviluppare colture per uso energetico in Italia.

Sulla carta, queste operazioni servirebbero a fortificare l’agricoltura italiana contro le multinazionali, renderla competitiva e difendere il brand “Made in Italy”. Come spiega Stefano Ravaglia, responsabile ricerca e sperimentazione di SIS, la costruzione di una filiera verticale integrata “permette di stare al tavolo della globalizzazione: in questo modo si riesce a trattare meglio con questi interlocutori che hanno un’enorme capacità di investimento anche nella ricerca”. Per Riccardo Bocci di Rete Semi Rurali, invece, questa integrazione verticale della filiera che parte dal seme e arriva fino al prodotto nel supermercato, “toglie potere agli agricoltori che scompaiono dietro i marchi dei supermercati e obbliga gli stessi ad aderire a una sorta di club esclusivo con regole. Se non aderisci e non rispetti quelle regole non puoi usare le sementi. Lo abbiamo visto con la varietà di grano Senatore Cappelli affidata alla SIS in regime di monopolio dal Crea e poi sanzionata dall’Antitrust per le pratiche illegittime adottate nei confronti degli agricoltori che volevano seminare la varietà di grano duro Cappelli”.

 

La vicenda del Senatore Cappelli è emblematica. Nel 2016, il Crea affida con regolare contratto di licenza alla Società Italiana Sementi (SIS) l’esclusiva sulla commercializzazione del seme certificato Senatore Cappelli. La  società, però, mette in atto una serie di pratiche commerciali scorrette nei confronti degli agricoltori: aumento ingiustificato dei prezzi, forniture ritardate o rifiutate fino alla riconsegna obbligatoria da parte dei coltivatori del grano prodotto. È per questo che l’Antitrust decide di sanzionare la SIS con una multa di 150mila euro: per aver creato dei rapporti di squilibrio tra imprese nella filiera agroalimentare.

 

Ma c’è un altra riflessione che andrebbe fatta in un momento storico in cui si parla tanto di agricoltura italiana, sovranità alimentare e Made in Italy. Lo spiega Duccio Facchini, direttore di Altreconomia: «Dal 2010 al 2020 abbiamo perso 400mila aziende agricole, il 30% è prevalentemente gestito da anziani, manca innovazione e continuiamo a importare materie prime per fare i prodotti esportati con il marchio “Made in Italy”. Siamo convinti di fare il vino, il parmigiano, gli insaccati e la pasta ma importiamo gran parte dei prodotti per realizzarli. Questa retorica del “Made in Italy” e della sovranità alimentare, in realtà, difende un blocco di potere e un modello di agricoltura basato su petrolio, pesticidi e importazioni».

 

Un blocco di potere che si oppone a tutte le nuove tecnologie – basti vedere l’opposizione alla carne coltivata fatta da Coldiretti, da Federico Vecchioni, presidente di BF e dallo stesso Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida che ha presentato una legge per vietarne la produzione ma non l’importazione – e si oppone soprattutto al reale controllo pubblico su di esse. Un gruppo di potere che, appropriandosi del termine “sovranità alimentare” – definizione coniata nel 1996 da La Via Campesina – non tutela e rafforza le piccole e medie imprese che garantiscono qualità, biodiversità in contesti montani e collinari – la vera spina dorsale dell’Italia – ma punta a difendere l’attuale modello industriale di agricoltura, vecchio e inquinante che è fra i principali responsabili delle crisi climatica in corso.

Semi liberi, bene comune ed epigenetica

Se da una parte sementi e cibo sono stati trasformati sempre più in un bullone, prodotti standardizzati e omologati, controllati e sviluppati da pochi, c’è chi continua a proteggere e diffondere la biodiversità colturale e alimentare, e costruire sistemi agricoli diversificati dove i semi non sono solo una componente tecnica ma sono legami sociali, antropologici e simbolici. È ciò che accade a Caselle in Pittari, nel Parco Nazionale del Cilento, Alburni e Vallo di Diano dove la cooperativa sociale Monte Frumentario ha messo in piedi una filiera locale che dai semi arriva fino alla farina, la pasta e il pane e una biblioteca del grano, un campo che quest’anno ha la forma di un labirinto e che contiene 120 varietà di grani e miscugli, tradizionali e moderni, provenienti da tutto il mondo.

Il Labirinto del Grano. Caselle in Pittari (Sa), aprile 2023. Video di Giuseppe Pellegrino.

Oppure è ciò che accade in Sicilia con Simenza, Cumpagnìa siciliana sementi contadine, un’associazione culturale nata nel 2016 per tutelare e valorizzare l’agrobiodiversità attraverso la creazione di filiere corte e sistemi di distribuzione sostenibili. O in Toscana con l’azienda agricola Florriddia oppure nell’Oltrepò Pavese. E ancora nelle Marche, in Abruzzo, in Veneto. Veri e propri guardiani dei semi tutti associati a Rete Semi Rurali che praticano la biodiversità e innovano negli ambienti in cui si coltivano i semi. Un approccio totalmente diverso che abbraccia le comunità locali, l’ambiente, e rivoluziona il modo in cui si coltiva e si distribuisce il cibo.

 

«Le scoperte che vediamo con l’epigenetica, ovvero come l’ambiente e il genoma si influenzano a vicenda, rappresentano un cambiamento del dogma della genetica perché se l’ambiente influenza il DNA dei semi e questi caratteri sono poi trasferibili ai figli, allora il lavoro che facciamo ha un valore ancora più importante perché questo vorrebbe dire che l’ambiente in cui coltivo i semi ha un’influenza sulla loro evoluzione e sul miglioramento genetico», spiega Riccardo Bocci di Rete Semi Rurali. Per lui e per le persone che fanno parte di questa rete,  la tecnologia non può essere l’unica risposta alla crisi climatica, sociale, economica e di senso che si sta vivendo come società.

 

E i semi stessi non possono rispondere solo ai bisogni e agli interessi economici. «Il seme per noi è una scusa per parlare di altro; ad esempio come aumentiamo le capacità degli agricoltori, come distribuiamo il cibo, come gestiamo la terra, i suoli e i beni comuni in modo decentrato e comunitario per poter rispondere ai bisogni economici ma anche ecologici e di cura di una comunità. Dietro a un seme c’è molto più di un semplice componente tecnico. C’è una storia, un immaginario, dei legami con l’ambiente, con le persone e con i territori. Per dirla in grande c’è una visione politica di costruzione di un’altra economia».

La parola chiave

L’epigenetica è una branca della genetica che si occupa di studiare come fattori quali l’età, l’esposizione ambientale, la dieta, l’attività fisica possono modificare l’espressione dei geni senza alterare la sequenza del DNA, a volte anche in modo irreversibile.

Se vuoi saperne di più leggi qui e qui.

Crediti

Questo lavoro è stato ideato e realizzato da Sara Manisera, Bertha Foundation Fellow 2023, con il sostegno di Bertha Foundation e prodotto da Slow News.

Operatore video: Giuseppe Pellegrino

Illustrazioni di: Vito Manolo Roma

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Note

L’immagine di Camillo Benso, conte di Cavour, è una rielaborazione di Slow News a partire dal ritratto di Antonio Ciseri (1821-1891) – Pubblico dominio

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