
Un articolo del 1972 uscito in Olanda che parla di qualcosa che a distanza di più di 50 anni, qui in Italia, è ancora la normalità.
Le nuove tecnologie nel mercato capitalistico richiedono una fase di ricerca e sviluppo in cui si lavora in perdita, anche per anni, prima che si generino profitti. È il caso di OpenAI, la società che ha lanciato esattamente un anno fa ChatGPT. Il costo stimato per far funzionare ChatGPT è di 700mila $ al giorno. Ma nel frattempo c’è un mondo attorno che, oltre a investire fa soldi, e i profitti prima o poi arriveranno – o, se non dovesse accadere, si proverà a vendere o a chiudere (per esempio, una delle aziende del giro delle intelligenze artificiali generative, la Stability AI, pare sia in vendita, anche se l’amministratore delegato nega). Al di là di queste dinamiche, c’è un altro elemento da considerare. Ci sono persone che vorrebbero essere pagate perché i loro contenuti (testo, video, audio, fotografie, illustrazioni) sono state usate per addestrare le macchine generative. È una richiesta comprensibile – anche se da queste parti pensiamo che il problema sia a monte, e sia l’idea stessa di mercato culturale. Però, se alziamo il livello delle considerazioni, ogni interazione che ciascuna persona ha con le macchine generative contribuisce a migliorarle, almeno indirettamente. Bisognerebbe, allora, chiedersi come si possono ridistribure profitti e benefici delle intelligenze artificiali. Non solo fra gruppi ristretti, ma per tutta l’umanità. In fondo, significa chiedersi come ridistribuire la ricchezza.
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L’immagine è realizzata con Midjourney.


Un articolo del 1972 uscito in Olanda che parla di qualcosa che a distanza di più di 50 anni, qui in Italia, è ancora la normalità.

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