Fortezza Europa
Sull’isola dei Conigli, a Lampedusa, non ci sono conigli.

L’isola dei Conigli si trova appena 9 metri a sud-ovest dell’isola di Lampedusa. Divenne famosa il 3 ottobre 2013, quando un’imbarcazione di circa 20 metri salpata due giorni prima da da Misurata, Libia, e avente a bordo centinaia di migranti di origine eritrea si rovesciò portandosi negli abissi 368 persone e 20 dispersi.
La prima carta nautica su cui compare l’isola dei Conigli è del 1824 e fu redatta da un capitano di vascello inglese, tale Smith, che denominò l’isolotto «Rabit Island», da cui il nome italiano. In realtà i conigli c’entrano ben poco e il nome è frutto di un errore di presunzione del traduttore: non esistono infatti tracce di conigli, né biologiche né bibliografiche, su quell’isolotto. Smith usò il termine «rabit» non commettendo un errore di ortografia come molti credono (coniglio in inglese sarebbe «rabbit») ma traslitterando la parola araba rabith (أربط) che significa «collegamento» o «connessione», in riferimento all’istmo che collega i Conigli a Lampedusa, quasi sempre sommerso.
La storia del nome dell’isola dei Conigli racchiude molto di più di un aneddoto. È la storia di un isola siciliana che si trova in latitudine africana, che porta un nome arabo traslitterato in inglese e poi tradotto, male, in italiano. È una storia tipicamente europea, una storia che esemplifica in modo perfetto la forma della cultura europea e delle sue contaminazioni.
Il maestro Ezio Bosso aveva occhi vispi e curiosi che tradivano una certa tensione. Sedeva su una sedia a rotelle nera e con il suo look in total-black, capelli corvini compresi, somigliava vagamente a Ian Curtis dei Joy Division. Si era tolto i guanti di pelle marrone da pilota d’auto d’epoca che utilizza per spingersi in giro per il mondo e ora giocava con uno splendido anello d’argento con una pietra nera al centro. Aveva appena concluso un discorso davanti all’emiciclo del Parlamento Europeo di Bruxelles in occasione della Conferenza di Alto Livello sul Patrimonio Culturale Europeo, organizzata dalla Presidenza dell’Europarlamento per l’anno europeo della cultura.
Che cosa è la cultura?
Me lo chiedevo sul volo che quella mattina mi stava portando da Roma a Bruxelles: sarebbe facile rispondere con un’immagine, ad esempio un libro o una biblioteca ma anche uno spartito o un pianoforte, un pennello o un quadro e persino con un ortaggio cucinato in un modo specifico. Sarebbe facile.
Ezio Bosso
«Io faccio il musicista e il musicista è, per natura, un ascoltatore. […] Smettiamo con le tifoserie e cominciamo ad ascoltare, ed ascoltaci, le differenti ragioni: la musica, diceva Goethe, può insegnare a farci sollevare e non schiacciare e per questo l’educazione alla musica crea nuove generazioni che sanno ascoltare forse meglio di noi, visto che un po’ tutti tendiamo a voler avere ragione». La musica, in Europa, accomuna tutti quanti.
La musica come ha direzionato la sua vita?
«Sin da bambino ho dovuto imparare il tedesco, l’inglese e il francese e allo stesso modo i miei piccoli colleghi dovevano imparare l’italiano, perché le indicazioni sulle partiture sono in italiano. Dico sempre che la visione di un uomo tedesco dolce, tal Beethoven, è “schuß dentro di se”, che è il più profondamente dolce. […]
“Noi” andiamo oltre il limite, inteso non come limite fisico ma proprio come limite principale, quello del pregiudizio. Quello che succede con la musica è che non si studiano solo le note ma la storia e la vita di una persona, si diventa in un certo senso quella persona, si partecipa. Il valore della partecipazione è uno dei valori fondamentali anche di una comunità allargata come quella europea e la musica cosiddetta classica è quella che ha definito di più il territorio europeo, esattamente come invece le arti visive o letterarie definiscono quelle singolarità che poi si riuniscono nella musica. […]
L’idea di Beethoven nella Quinta sinfonia del “destino che bussa alla porta” è di quattro note che vengono rigirate fino a diventare un lieto fine in un momento drammatico. Ecco, proprio lui parlava di “liberare la musica” e di “liberare la musica per i popoli”».
In che senso lei parla di «orchestra» e di «singoli elementi»?
«Schumann mi ha insegnato che una delle cose belle dell’orchestra è che, è vero!, tutti vorremmo essere il primo violino ma la verità è che è l’apporto fondamentale degli ultimi violini a far esistere un’orchestra, dopodiché il lavoro del direttore o del primo violino è un lavoro di responsabilità. Lavorare di più per mantenere insieme e andare insieme verso quel progetto comune, che è il migliorarsi».
Bosso dice che è bene imparare dai propri padri. E ancora una volta tira la giacca a Ludwig: «Beethoven mette a nudo la sua sordità. Per la prima volta nella Quinta lui fa suonare il silenzio, la prima nota della sinfonia è un silenzio: è la parte umana che esiste dentro la musica naturalmente e va oltre l’essere umano. […] Scrivere è un atto d’amore, lasciare una partitura è un atto d’amore composto da rispetto, la parte fondamentale, e responsabilità dell’altro».

Sono parole quasi pornografiche nell’Europa di oggi. Lo scrivo senza alcun intento polemico: la musica classica è sepolta, nell’immaginario collettivo, sotto un cumulo di polvere e i suoi autori, da Bach a Vivaldi, restano lì ingrugniti in un Pantheon del sapere che quasi nessuno conosce più. Proprio in quei giorni Bruxelles non era solo teatro della splendida Conferenza sul Patrimonio Culturale Europeo ma anche la scena principale dell’attualità politica, quella politica che con le sue scelte – e sopratutto con le non-scelte – produce cultura.
Se devo cominciare a definire cosa sia il patrimonio culturale europeo devo partire da due elementi: i valori, perché su di questi si erge la dignità dell’essere umano, e la coltivazione degli stessi. Non a caso colere [coltivare in latino] è la radice della parola cultura: «La musica non basta farla, bisogna crederci» mi ha detto Bosso «e la musica classica fa trascendere dal sé perché elimina l’ego, fa si che anche il contrasto umano si superi nel momento in cui siamo insieme. Ci obbliga alla disciplina, ci impone di migliorarci e di non fermarci».
Inevitabilmente la testa fugge molto più a sud, fino al cuore del Mediterraneo, dove oggi si difende un pezzo di cultura europea: la capacità di essere speranza, di essere all’altezza e quindi forza determinante per le vite di altri. Una qualità che oggi la Fortezza Europa sembra non volersi attribuire: i cittadini della Fortezza Europa si illudono di vivere liberi e felici quando la realtà è che sono come pesci dentro una palla di vetro la cui acqua si sta insozzando perché nessuno si occupa più di pulirla.
Tra i pesci è scattata una gara a chi la spara più grossa. Anche i problemi sono patrimonio culturale, anche i problemi producono cultura: la qualità di questa sta al come questi problemi si affrontano.
Sono nato nel 1985 in Brianza da genitori meridionali e sono figlio dell’età di passaggio, un età di baby-boomers diventati, con Internet, degli old-bloopers. Avevo 5 anni, era il 1990, quando veniva stipulata l’oramai famosa Convenzione di Dublino: all’epoca non si contavano i migranti provenienti dai Paesi dell’est-Europa, dall’ex-blocco sovietico che era appena crollato.
Per noi erano tutti zingari ma si trattava di polacchi e romeni, slavi e bosniaci, cecoslovacchi, lituani, estoni, romeni, ungheresi e chi più ne ha più ne metta. Sette mesi dopo, nel febbraio 1991, si teneva la prima riunione del Gruppo di Visegrad tra Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia allo scopo di promuovere l’integrazione unitaria del gruppo nell’UE. Due settimane dopo, marzo 1991, 27.000 cittadini albanesi sbarcarono al porto di Brindisi a bordo di navi mercantili e imbarcazioni di fortuna.
Scoprivo, con mio sommo sbigottimento, che vivevo nella Terra Promessa ed ero orgoglioso di come gli abitanti di questa terra promessa aprissero le proprie case a questi sconosciuti ciabattanti che parlavano una lingua incomprensibile. All’epoca non lo sapevo, non avevo ancora compiuto nemmeno 6 anni, ma la Convenzione di Dublino era già da riformare: non prevedeva, infatti, arrivi in Europa via mare.

La riforma della Convenzione di Dublino
La Convenzione di Dublino entrò in vigore solo il 1 settembre 1997. Il regolamento di Dublino II, la prima riforma, sostituì la Convenzione nel 2003 e nel 2013 fu adottato Dublino III. Il principio alla base è sempre stato lo stesso, impedire che un richiedente asilo presenti domanda in più Stati membri, e la soluzione è sempre stata la stessa, il primo Stato di registrazione è responsabile della richiesta di asilo. Questa è la pietra angolare del regolamento.
Elly Schlein è più giovane di me di appena 3 giorni ed è nata pochi chilometri più a nord. È deputata europea con Possibile, eletta nel Partito Democratico da cui è fuoriuscita, siede nel gruppo dei Socialisti e Democratici ed è stata relatrice nella Commissione che si è occupata di redigere il testo di riforma del regolamento di Dublino.
Nelle ultime settimane la sua notorietà è esplosa quando alcuni video che la mostrano intervenire all’Europarlamento sono diventati virali, in particolare nel taglio in cui Schlein punta il dito contro M5s e Lega accusandoli di avere fatto poco o nulla durante i lavori per riformare Dublino.
In particolare l’eurodeputata di Possibile tiene il punto su un fatto incontrovertibile: la Lega si è astenuta al voto sulla riforma di Dublino ed ha completamente ignorato il tema durante i lavori della Commissione che doveva modificare quella Convenzione, non partecipando ad una delle 22 riunioni di negoziato fatte nel corso degli ultimi due anni.
Due giorni prima di incontrarla, nel suo ufficio al 15esimo piano del palazzo Altiero Spinelli in Rue Wiertz a Bruxelles, in una giornata soleggiata e bellissima, avevo chiesto al Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani che cosa ne pensasse delle modifiche al testo riformante Dublino approvato dai due terzi dell’emiciclo.
La sua risposta era stata interessante: «Mi auguro che le faccia proprie tutto il Consiglio Europeo perché è l’unica proposta legislativa – che ha già concluso la prima parte del suo iter – che coniuga fermezza e solidarietà. Il Parlamento Europeo è stato il primo ad intervenire e a decidere sulla proposta della Commissione Europea, sono gli Stati membri che sono in ritardo. […] Sarebbe un errore grave da parte del Consiglio non esaminare una proposta così di buon senso che è stata approvata a così larga maggioranza. […] La soluzione o è europea o non è».
Nel dossier preparato per discutere alla Commissione Europea di immigrazione e risposte comuni il 28 e 29 giugno 2018 il governo italiano ha inserito un dato specifico: il 7% dei richiedenti ottiene lo status di asilo. Un numero che non racconta praticamente niente: secondo i dati resi alla Camera dei Deputati dal prefetto Angelo Trovato, Presidente della Commissione nazionale per il diritto d’asilo in Italia, il 7% dei richiedenti ottiene lo status di rifugiato (permesso di soggiorno di 5 anni). A questi va sommato un 4% di richiedenti che ottiene protezione sussidiaria (permesso di 5 anni) e un ulteriore 28% che ottiene la protezione umanitaria (permesso di 2 anni).
Il 61% delle domande riceve un diniego in prima istanza, presenta ricorso alle Commissioni territoriali e nel 54% dei casi questo viene accolto, cosa che fa alzare il tasso di protezione al 70% dei richiedenti. Che, per effetto di Dublino, devono presentare domanda in Italia e aspettare risposta in Italia. Ho voluto partire da questi dati per ragionare con Schlein sulla riforma di Dublino.
Molti temono che con la riforma di Dublino approvata in Commissione il numero di migranti richiedenti asilo ai quali verrebbe riconosciuta la protezione aumenterebbe.
«È falso. Il regolamento di Dublino è la madre di tutte le ipocrisie, è il cuore del sistema europeo comune di asilo ed è quella che ha prodotto le storture maggiori di questo sistema. Non le uniche purtroppo. Da un lato obbliga le persone, salvo alcuni casi, a fare la richiesta di asilo nel primo paese di arrivo e a vederla esaminata nel primo paese di arrivo, quasi sempre di confine. Dall’altro è anche il regolamento in base a cui gli altri paesi hanno potuto rimandare in Italia migliaia di persone per il solo fatto di essere entrate in Europa da lì.
Chi afferma questo semplicemente non conosce la normativa, il che è normale se parliamo di un qualsiasi cittadino europeo ma che lo faccia una relatrice in Parlamento è piuttosto grave: Dublino si applica a tutti coloro i quali chiedono asilo in Europa e fino alla fine dell’esame della richiesta tu non hai modo di sapere se una persona è “migrante economico”, come lo chiamano, o titolare di protezione internazionale umanitaria. La nostra vittoria principale in Parlamento è stata stabilire il principio per cui questo esame non spetta più solo ai paesi di primo arrivo ma va equamente ripartito tra tutti i paesi secondo uno schema di quote basato sul Pil e sulla popolazione».
Anche perché non sono le regole che ci diamo noi in Europa a fare da push-factor, cioè far decidere alle persone se partire o meno: questi sono i cambiamenti climatici, i conflitti, le disuguaglianze globali e, molto banalmente, la «ricerca della felicità». Perché provare ad accedere in Europa illegalmente senza tentare di farlo legalmente?
«Perché manca qualsiasi tipo di via legale sicura di accesso. Ci sono regimi iper-restrittivi che non dipendono dal diritto europeo ma dal diritto nazionale, come la Bossi-Fini che è una legge criminogena, nel senso che crea irregolarità che magari fanno comodo a qualcuno, come a chi impiega questa forza lavoro nelle nostre aziende creando dumping sociale e salariale che fa comodo non agli immigrati irregolari ma ai datori di lavoro italianissimi contro cui la Lega non alza mai la voce».
Schlein racconta dell’incontro, sull’isola greca di Lesbo, con una ragazza quindicenne fuggita da Aleppo bloccata lì da dieci mesi in attesa del via libera per il ricongiungimento familiare in Germania, si chiede quale sia il senso di accettare il rischio delle morti in mare alimentando così il traffico di esseri umani e pericolose reti criminali, sottolinea l’importanza di aprire al più presto vie d’accesso legali all’Europa e di istituire corridoi umanitari per i casi più disgraziati.
La difficoltà di accesso ai canali legali per raggiungere la Fortezza Europa sono una notizia che non viene data mai: sabato 30 giugno alla Triennale di Milano si sarebbe dovuto tenere uno spettacolo di balletto ad opera del Corpo di Ballo della Costa d’Avorio, che sarebbe dovuto arrivare (15 elementi più lo staff) da Abidjan qualche giorno prima. Lo spettacolo è stato annullato perché l’Ambasciata italiana in Costa d’Avorio aveva negato il visto al corpo di ballo. Questo è solo un semplice esempio di come sia complicato entrare nella Fortezza Europa.
In che cosa consiste la riforma del regolamento di Dublino votata dal Parlamento Europeo?
«Riguarda tutti i richiedenti asilo. Siccome non hai modo di sapere chi ha diritto e chi no prima di esaminare la sua richiesta devi preoccuparti di condividere lo sforzo organizzativo di esaminare quelle domande. Il Parlamento ha votato una riforma che accelera le procedure, creandone di più certe, veloci e più rispettose dei diritti fondamentali. Si cancella il criterio del primo paese di accesso, la vittoria più difficile […]: se siamo Unione Europea chi arriva in Italia chiede sostanzialmente asilo in Europa e quindi l’Europa deve condividere queste responsabilità.
Con il nostro lavoro di 145 emendamenti in Commissione abbiamo fatto valere questo criterio creando un sistema per cui le persone che arrivano chiedono comunque asilo nel paese in cui si registrano, con gli attuali check di sicurezza [come le impronte digitali per tutti i migranti sbarcati nei porti, ndr], e durante il colloquio si verifica se il richiedente ha legami significativi con altri paesi UE, specialmente legami di tipo familiare, per cui vengono previste procedure accelerate.
Attualmente il ricongiungimento familiare può prendere fino a due anni, uno dei motivi per cui migliaia di minori scappano e cercano di attraversare le frontiere in clandestinità. Il ricollocamento, secondo la riforma che abbiamo approvato, avviene immediatamente nel paese in cui si verifica il legame, che a questo punto dovrà esaminare la richiesta di asilo».
Da un lato, spiega, questo garantisce che si valorizzino i legami delle persone e che si evitino fughe verso l’interno, cosa che ossessiona le cancellerie europee, dall’altro questo sistema dovrebbe assicurare che ognuno faccia la propria parte.

E se il richiedente non ha legami con paesi europei, cosa prevedono le modifiche a Dublino?
«In quel caso il richiedente non resterebbe in Italia, paese di probabile primo accesso, ma sarebbe comunque ricollocato all’interno di un meccanismo di ricollocamento automatico e permanente, che lascia tra l’altro un minimo margine di scelta, quattro paesi, per coinvolgere le persone in una decisione così fondamentale per la loro vita. Il ricollocamento avverrebbe in un paese che sia, al momento della richiesta, il più lontano dal raggiungimento della giusta quota che ogni stato membro deve affrontare e che viene stabilita in sede europea».
È un sistema apparentemente più attento alle persone e meno ai numeri.
«Evita che le persone debbano nascondersi perché se sai che la tua richiesta non sarà esaminata necessariamente nel paese in cui arrivi non avrai motivo di nasconderti quanto ti prendono le impronte, saresti in un sistema che per quanto possibile ti permetterebbe di far valere i tuoi legami».
Come si lega la riforma di Dublino al regime di Schengen, alle conquiste europee?
«Cos’è l’Unione Europea? Una casa in cui ognuno può prendere quello che vuole e rifiutare quello che non vuole? U menù a-la-carte? Da un lato ci sono trattati che chiedono solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità tra tutti gli stati membri e dall’altro paesi che si rifiutano di fare 1294 ricollocamenti già stabiliti per diritto europeo nel 2015, paesi di 10 milioni di abitanti come l’Ungheria: non è un interesse legittimo, è propaganda. È volere i benefici di far parte dell’Unione ma rifiutare le responsabilità. […]
Rinunciare a Schengen ha un costo molto ma molto maggiore, è stimato in 50-80 miliardi all’anno, rispetto al mettere in campo soluzioni comuni a una sfida che è comune».
Da «interna» secondo lei come mai forze politiche che hanno una narrazione forte sul tema migratorio non si sono volute sedere al tavolo per riformare il regolamento di Dublino?
«L’INF, il gruppo di Le Pen e Salvini, ha proprio rinunciato a nominare un negoziatore. Fontana era membro titolare della Lega nella Commissione competente, ha presentato alcuni emendamenti ma né lui né nessun altro del suo gruppo si è mai presentato a difenderli nel negoziato. Totale disinteresse su un tema cruciale. Quindi per loro è solo materiale da propaganda.
Oggi l’Italia deve decidere da che parte stare: con Orban, che non vuole alcuna forma di solidarietà interna e quindi non vuole aiutare nemmeno te, ti illudi di pattuire nuove forme di esternalizzazione delle frontiere [come con la Turchia, ndr] che si risolveranno di nuovo in nuove rotte marittime pericolose verso il tuo paese, o con i paesi mediterranei cercando un asse con Merkel e Macron per fare invece un sistema davvero solidale e rispettoso dei trattati? Per il M5s si tratta di ragioni tattiche e politiche: a sei mesi dalle elezioni in Italia evidentemente hanno ritenuto di non potere dare un segnale che l’Europa in qualche modo funziona.
L’impressione che ho avuto io è che i Cinque stelle stessero contendendo il voto leghista: la Lega ha votato contro in Commissione e si è astenuta in Aula, cambiando la sua posizione perché secondo me non sarebbero mai riuscita a spiegarla. I Cinque stelle hanno confermato il voto contrario in Aula attaccando la Lega, accusandola di non essersi opposta alla “riforma della Merkel”. Un gioco tattico».
Alla luce di ciò come si giustifica l’opposizione alla riforma di Dublino secondo lei?
«Ci si attacca ad una norma del tutto marginale per l’economia del testo, l’articolo 9, che fa un caso di esclusione dal ricollocamento. Un caso assolutamente marginale: è escluso dal regolamento il richiedente che all’atto della presentazione della richiesta di asilo avesse sollevato unicamente questioni irrilevanti ai fini dell’asilo.
C’è anche chi lamenta che ci siano check di sicurezza e inammissibilità ma noi durante i lavori li avevamo tolti [il principio per cui se il richiedente proviene o fa domanda da un paese sicuro viene rispedito lì, ndr] ma nel testo erano stati reintrodotti dal Movimento 5 Stelle, prima che li facessimo saltare in Commissione».
La questione riguarda sempre il come fare le cose. L’Europa ha staccato due assegni corposi, 3 miliardi più 3 miliardi, al governo turco di Erdogan affinché la Turchia chiuda le frontiere e impedisca ai migranti, perlopiù centinaia di migliaia di profughi siriani, di proseguire il viaggio verso ovest.
L’accordo è stato criticato duramente, e non solo da organizzazioni non-governative e dalle cosiddette «anime belle» ma anche da diverse agenzie delle Nazioni Unite: a ben vedere cosa è successo dopo, con la restrizione pesante dello stato di diritto turco in seguito al presunto golpe e alle purghe del Sultano, forse non erano critiche campate per aria.
«Il primo problema da affrontare è quello di fermare l’immigrazione esterna e quindi rinforzare e bloccare le frontiere esterne dell’Unione Europea per poi, in seconda fase, dar vita a uno stato libico che possa essere interlocutore e protagonista di un accordo simile a quello che abbiamo con la Turchia, da qui la mia proposta di investire 6 miliardi di euro nella regione per bloccare quel corridoio migratorio. Poi bisogna investire con un Piano Marshall per l’Africa» mi ha detto Antonio Tajani durante il press-point fuori dall’emiciclo. Una posizione personale, visto che l’istituzione che rappresenta si è spesso espressa all’opposto.
Il tema dell’esternalizzazione delle frontiere europee silenziosamente si fa strada.
«La Libia è un non-stato con un governo che non controlla l’intero territorio, un paese che non ha nemmeno firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Penso che sia sbagliato, quando tutti i media internazionali, il segretario generale dell’ONU e il commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno segnalato gravissime violazioni, episodi quotidiani di torture, continuare a raccontare la storia che il modo giusto è lasciare le persone in Libia.
Noi stiamo foraggiando una Guardia Costiera [quella libica, ndr] che ha delle modalità operative criminali in mezzo al mare con i soldi dei cittadini europei, questo è inaccettabile. Soluzione che, tra l’altro, non funziona perché ti rende ricattabile rispetto a dei partner completamente inaffidabili. […]
Se continuano a prendere i soldi della cooperazione che devono andare per trattato allo sradicamento della povertà e alla creazione di opportunità in Africa e li spostano sulla Guardia Costiera libica e sul border management causano, con questo approccio cieco, più problemi che soluzioni e non mi stupirei se tutto questo causasse maggiore emigrazione forzata».

Non sono passate nemmeno 24 dal mio ritorno in Italia che l’UNHCR rende noto del naufragio di un gommone, notizia confermata dal portavoce della Marina libica Ayob Amr Ghasem, inabissatosi a 6 chilometri dalla città libica di Tajoura con 120 persone a bordo. Solo in 16 sono riusciti a salvarsi, nuotando per ore in attesa dei soccorsi. Sulla stessa pagina il quotidiano riporta il non-accordo notturno seguito alla riunione fiume della Commissione Europea con tutti i capi di governo presenti: la riforma di Dublino resta lì, sulla carta, in attesa di essere presa in considerazione.