La difesa dell’informazione non si fa senza soldi
C’è uno specifico frammento del lavoro giornalistico che è particolarmente costoso: la responsabilità di ciò di cui si scrive.
Slow News, il posto dove stai leggendo questo pezzo, fondato a Milano nel 2014, è il primo progetto italiano di slow journalism.
Cosa vuol dire, esattamente, slow journalism?
Secondo la definizione offerta da Wikipedia nella versione inglese, lo slow journalism, il giornalismo lento, è una sottocultura delle news nata dalla frustrazione per la scarsa qualità del giornalismo cosiddetto mainstream.
In realtà, per noi è qualcosa di molto di più di una sottocultura: è una risposta alla crisi del giornalismo tradizionale. È un recupero del giornalismo come servizio alle persone. È un riconoscimento del prodotto giornalistico come contenuto relazionale, secondo un principio che riteniamo molto importante “vendiamo relazioni”, non contenuti.
Questo significa che fare slow journalism è, prima di tutto, un modo per recuperare le buone pratiche del giornalismo. Poi un modo per adattarle al mondo digitale. Infine, un modo per innovare il giornalismo.
Nel libro che Daniele Nalbone e Alberto Puliafito (il direttore di Slow News) hanno scritto insieme si offre una visione molto più ampia del concetto di Slow Journalism.
In un certo senso, è vero che il giornalismo lento è prima di tutto una sorta di reazione (esattamente come il movimento dello slow food reagisce come reazione al fast food e al junk food).
Ma questo non basta: non si può definire un movimento o un modo di lavorare solamente per negazione. Bisogna definirlo anche in positivo
Cerchiamo allora di trovare caratteristiche generali che possano definire progetti di slow journalism (in alcuni casi sarà necessario, per forza di cose, operare anche per esclusione):
Non è necessario che un pezzo, per essere di slow journalism, sia anche longform: il formato, insomma, non è affatto indicativo di un approccio lento.
I contenuti sono un vero e proprio asset, un valore, di una testata che si occupa di slow journalism. Questo significa che, nei limiti del possibile, si lavora a piani editoriali che “non scadono”, cercando di raccontare storie e dinamiche che, nel limite del possibile, non invecchiano.
Ci saranno contenuti più prettamente immediati, legati a un preciso momento storico, e altri, invece, che potranno essere fruiti anche dopo molto tempo. In generale, anche i contenuti immediati sono pensati per costituire un elemento di valore aggiunto e per essere riutilizzati.
Il punto di partenza del nostro progetto è il libro scritto da Peter Laufer, nostro partner nel progetto documentario omonimo, intitolato Slow News, edito nel 2014.
In Italia, come abbiamo detto, Slow News è il primo progetto di slow journalism strutturato. Per il momento produce la newsletter omonima, Slow News. Una newsletter dedicata ai professionisti della comunicazione e dell’informazione che si chiama Wolf.
Fra le pubblicazioni che fanno (o hanno fatto) slow journalism a livello internazionale vi segnaliamo:
Delayed Gratification (Regno Unito, la prima pubblicazione al mondo di slow journalism). È un magazine trimestrale cartaceo, diretto da Rob Orchard e Marcus Webb e disegnato da Christian Tate.
Slow News (Italia, cioè quello che stai leggendo: per quel che ne sappiamo, la seconda);
Disegno (Regno Unito);
De Correspondent (Paesi Bassi);
L’Ora del Pellice (Italia);
Pro Publica (USA);
XXI (Francia),
Zetland (Danimarca):
America (Francia), ha finito le pubblicazioni nel 2020, come promesso, dopo i 4 anni del mandato Trump;
La Revue Dessinée (Francia);
La Revue Dessinée Italia (Italia).
Fra i precursori dello slow journalism, anche se non hanno usato questa etichetta, possiamo sicuramente individuare:
Courrier International (Francia);
Internazionale (Italia).
Uno dei libri più interessanti usciti finora sull’argomento è Slow Media, pubblicato nel 2018 da Jennifer Rauch.
Il libro di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito si intitola Slow Journalism – Chi ha ucciso il giornalismo. È uscito a marzo del 2019 per Fandango Libri.
[Questa lista è da considerarsi in evoluzione e aggiornamento. Se vuoi segnalarci altre realtà di slow journalism, scrivici.]
C’è uno specifico frammento del lavoro giornalistico che è particolarmente costoso: la responsabilità di ciò di cui si scrive.
Quelli di chi non ha voce, di chi ha meno, della cittadinanza tutta, delle persone.