
Una delle cose che restano più dure e necessarie che abbiamo scelto in questa rubrica: non solo vale la pena di essere visto, ma ha bisogno di ognuno di noi per diffondersi
Quando ho visto le prime due parti dell’inchiesta Shalom – La comunità degli orrori (il 28 aprile 2023 è uscita la terza) condotta da Backstair, la redazione di Fanpage specializzata in giornalismo d’inchiesta, mi sono chiesto: «Perché non è un caso di cui parlano tutti?».
Gli ingredienti ci sono tutti: c’è una comunità di recupero dove Backstair, dopo un lavoro di interviste preliminari, ha infiltrato una giornalista che si è finta volontaria e che ha filmato quel che ha potuto di ciò che accade all’interno; ci sono testimonianze raccolte e mostrate; ci sono metodi “educativi” e di recupero che appaiono quantomeno discutibili, immagini e audio che mostrano insulti, violenze; c’è la cosiddetta “cristoterapia” per curare le persone, ci sono somministrazioni di psicofarmaci con modalità da chiarire; c’è un vecchio processo concluso con assoluzione di massa e ora c’è un nuovo fascicolo aperto dalla Procura di Brescia dopo la presentazione di un esposto. C’è anche la reazione dei vertici della comunità, che si difendono.
Insomma: quel che ho pensato è che avremmo visto grossi giornali “tradizionali” interessarsi al caso, magari produrre qualcosa di proprio, di originale sul tema.
Magari cercando di capire se esista un problema sistematico per tutto ciò che riguarda il tema delle comunità di recupero.Invece, quasi nulla, a parte alcuni brevi articoli di stampa locale (che perlopiù danno conto delle reazioni, delle difese e delle testimonianze positive) e un pezzo di Avvenire che problematizza – evviva! – tutto il mondo delle comunità, rilevando come ci sia, in tema di recupero dalle tossicodipendenza, ma anche di assistenza alle persone con problemi psichiatrici, l’assenza dello stato.
Intendiamoci: parlarne giornalisticamente non significa prendere una posizione pro o contro. Quello è tifo.
Parlarne giornalisticamente significa analizzare il lavoro fatto, riconoscerne la rilevanza, darne atto, cercare di aggiungere qualcosa di proprio e originale, cercare di capire se c’è qualcosa di sistemico che possiamo dire.
Invece nulla.
Ne ho parlato anche con il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, che mi ha risposto così:
«Se Meloni non avesse fatto dimettere Fidanza non avrebbero ripreso nemmeno “Lobby nera” [il riferimento è a un’altra inchiesta di Backstair, questa]. Siamo abbastanza abituati all’idea che la stampa mainstream si occupi delle nostre inchieste solo se obbligata a farlo. I motivi però dovresti chiederli a loro, non a me.
Detto questo, non ci interessa più di tanto: è un inchiesta che è stata vista e letta da centinaia di migliaia di persone anche senza l’eco dei giornali tradizionali, che ha avuto ascolti ottimi in televisione, che ha attirato interesse anche all’estero (ne hanno scritto in catalogna e in croazia).
Diciamo che la necessità di farci legittimare dalla carta l’abbiamo superata da un bel po’. E che al contrario, non abbiamo problemi a dare risalto a un buon lavoro giornalistico, quando lo vediamo pubblicato altrove. Perché fa bene a tutti sapere che la stampa italiana non è così a terra come la si racconta».
Se vuoi approfonire il lavoro e i metodi di Backstair, abbiamo intervistato Sacha Biazzo.


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