Ep. 02

Contro la dittatura delle idee. Un’intervista a Olivier Roy

“Il terrorismo attuale è un prodotto di una crisi culturale che non tocca soltanto la religione islamica. Il secolarismo non è portatore di spiritualità, è un fatto, possiamo rimpiangere pure il passato, quando anche la formazione laica prevedeva la dimensione spirituale, ma ora non è più così, non c’è più uno spiritualismo laico”.

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Olivier Roy è un sociologo francese, ha una sessantina d’anni, una voce simpatica e incalzante e la tendenza a parlare molto. Sono venuto in contatto per la prima volta che alcune delle sue intuizioni grazie a Internazionale, che nel novembre del 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, pubblicò un suo articolo. Parlava di rivolta generazionale, nichilista e per la prima volta mi dava l’occasione di leggere una interpretazione che mi convincesse di quello che stava succedendo. Mentre tutti accusavano l’islam di radicalizzarsi, il professor Roy, studiando le caratteristiche dei terroristi, fu il primo a dire che il fenomeno era diverso, forse ancor più pericoloso: si stava islamizzando il nichilismo.

Passati un paio di anni da quell’articolo ho avuto la fortuna di incontrare il professor Roy a Mantova. Fu durante l’ultima edizione del Festivaletteratura e l’intervista — di cui una prima parte è già stata pubblicata su Linkiesta a settembre — si svolse in modo decisamente rocambolesco: sotto un diluvio rombante, in una macchina praticamente ferma sulla statale che portava alla stazione dell’alta velocità di Reggio Emilia. Rispose alle mie domande per più di un’ora.

Questo è quello che ci siamo detti:

Quali sono le origini del terrorismo di matrice islamica che stiamo vivendo in ultimi questi anni?
Il terrorismo attuale è un prodotto di una crisi culturale che non tocca soltanto la religione islamica. Il secolarismo non è portatore di spiritualità, è un fatto, possiamo rimpiangere pure il passato, quando anche la formazione laica prevedeva la dimensione spirituale, ma ora non è più così, non c’è più uno spiritualismo laico: il comunismo è morto, il nazionalismo non prende veramente piede — abbiamo il populismo, ma non è un nazionalismo — quindi viviamo un momento vuoto dal punto di vista ideologico.

Perché non riusciamo a ribattere alle armi di questa nuova ideologia?
Il problema è che la società occidentale, in particolare la Francia, risponde a questo nichilismo cercando di cacciare ancora più profondamente la religione dallo spazio pubblico. La maggior parte delle leggi che sono state promulgate in Francia a riguardo dei simboli religiosi negli spazi pubblici, per esempio, sono state promosse in seguito ad attentati. Pensa al divieto di indossare il burkini, attuato subito dopo gli attentati del ’15, come se ci fosse un legame diretto tra il segno religioso e il radicalismo.

Cosa provoca questa dinamica?
Accentuando l’emarginazione della religione dallo spazio pubblico lasciamo la vita religiosa ai radicali. Questa per esempio per me è una delle chiavi di lettura per capire perché in Italia non ci sono mai stati attentati, per esempio, perché qui in Italia è maggior l’accettazione della spiritualità nello spazio pubblico.

Se analizziamo le misure anti radicalizzazione è evidente che vadano nella direzione sbagliata. Oggi raccontiamo la cosiddetta deradicalizzazione come una sorta di rieducazione, un misto tra il modello della rivoluzione culturale cinese e quello dell’inquisizione spagnola: c’è un colpevole che deve riconoscere di avere sbagliato e che ritorna sul giusto cammino e alla verità. Una verità secolare, che però che non ha più niente di religioso, né di spirituale. Non si può sconfiggere il radicalismo religioso con un aumento della secolarizzazione, su questo dobbiamo essere chiari.

Che si può fare?
Dobbiamo, al contrario, riaprire degli spazi di spiritualità, essere più tolleranti verso la vita religiosa, in tutte le sue forme. Un esempio può essere, almeno in Francia, le carceri, luoghi tra l’altro di origine di molti casi di radicalizzazione. All’inizio la Francia si opponeva all’ingresso in carcere di personalità religiose musulmane, poi ha ceduto, ma ha imposto delle regole che non funzionano. Il laicismo francese ha imposto che gli imam non possano andare a trovare di loro spontanea volontà i carcerati, ma sono questi ultimi che devono richiedere la visita, al contrario dell’Italia, dove i preti possono andare a bussare alle porte delle celle. Quindi in Francia è il carcerato che deve voler incontrare il prete, cosa che però, nel caso di un individuo radicalizzato, non succede mai. Ed è evidente, visto che il radicale lo vede come un traditore. Quindi abbiamo le carceri piene di religiosi moderati che aspettano nei loro uffici dei clienti che non arriveranno mai. È assurdo. Quello che serve è autorizzare l’esistenza di uno spazio religioso all’interno delle prigioni. In Italia la gente capisce più facilmente, perché non si fida dell’islam, ma non ha nulla contro la spiritualità.

Questo lo può fare lo Stato, la cosiddetta “società civile” cosa deve fare?
Ci aspettiamo che faccia tutto lo Stato. E lo Stato il suo lavoro lo fa: controlla le frontiere e pensa alla sicurezza dei cittadini, è normale, almeno nei limiti dello Stato di diritto, ovviamente. Quello che non prendiamo in considerazione per niente è proprio il lavoro che deve fare la società civile. In Francia quando c’è una iniziativa di anti radicalizzazione se ne occupa un’associazione che chiede soldi allo Stato, che chiede degli uffici allo Stato, che deve operare sotto il controllo dei prefetti. Anche questo è assurdo.

Di cosa c’è bisogno?
Di nuovo, bisogna facilitare gli spazi di spiritualità nella vita pubblica. In Italia qualche esempio di questo tipo può essere il Focolare, Azione Cattolica, Comunione e Liberazione e tutto il volontariato sia laico che cattolico, per esempio, anche se con non poche contraddizioni al loro interno.

È un problema culturale?
Il problema culturale gigantesco è capire quali siano i valori culturali su cui si basa l’Europa e la nostra società. Su questo punto si sentono cose completamente contraddittorie. C’è chi dice che sia l’identità cristiana, altri che dicono che siano invece i diritti umani, dal femminismo ai diritti LGBT. Ma le due identità in questo momento non si riconoscono, perché il papa, per esempio, a molte delle idee del secondo gruppo dice no.

Un po’ come il dissidio dell’Europa medievale tra Impero e Chiesa?
Sì, più o meno, ma almeno loro erano d’accordo su quali fossero i valori fondativi della società, la famiglia, l’onore, e via dicendo. Quello era un conflitto politico, non culturale. La lotta tra Repubblica e Chiesa è stata sempre una lotta politica, non culturale. I patrioti italiani del diciannovesimo secolo andavano in chiesa. All’epoca anche loro avevano una dimensione religiosa…

Non è un caso che si dica che gli anarchici siano i migliori conoscitori della Bibbia del mondo quindi?
Eh eh eh… sì, esatto.

Il mondo laico e quello religioso quindi hanno sempre condiviso i valori di base?
Direi di sì, almeno fino agli anni Sessanta infatti i laici e i religiosi in Occidente condividevano sostanzialmente gli stessi valori. Le leggi che vietavano l’aborto prima della legalizzazione erano fatte dallo Stato, mica dalla Chiesa. Esattamente come era lo Stato laico che negli anni Cinquanta metteva gli omosessuali in prigione. La definizione della famiglia, l’ineguaglianza delle donne, erano tutte cose condivise tra laici e religiosi. E tutto ciò era molto ben visto da Paolo VI, che quando ha scritto l’enciclica Umanae Vitae aveva già capito. La Chiesa aveva fatto il suo aggiornamento teologico, adatto al mondo moderno, ma poi ha capito che il problema non era teologico, ma di valori. Non giudico il contenuto dell’enciclica, che dipende dalle convinzioni personali, ma Paolo Vi aveva ragione quando diceva che la società non condivideva più le norme della Chiesa, cosa che tra l’altro hanno ripetuto anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e anche da Francesco. Francesco lo fa in maniera meno dogmatica, ma lo ribadisce anche lui: la nostra società non è più una società cristiana.

Ma quindi qual è la direzione che stiamo prendendo?
Ci sentiamo perduti. Continuiamo a difendere un’Europa cristiana quando l’Europa non è più cristiana da un pezzo. Che cosa mettiamo di fronte alla cultura musulmana? I valori cristiani della famiglia tradizionale o quelli laici dei diritti umani e delle libertà sessuali? Entrambe. E chiaramente non funziona. Anche se poi il vero problema è anche che ormai non proponiamo più né l’uno né l’altro, ma una koinè di valori capitalisti del commercio, del consumo, dell’individualismo.

È questo terreno contraddittorio che favorisce l’avanzare del nichilismo?
Sì, ed è evidente, malgrado facciamo finta di essercelo dimenticato, che questo nichilismo non ha niente di religioso, quanto meno in partenza. Pensa ai fenomeni tipo la strage di Columbine, che hanno la stessa dinamica di quelli islamisti: uccidere i propri simili, pubblicare i video su internet e ammazzarsi, o farsi uccidere dalla polizia. È la stessa identica cosa.

È la radicalizzazione di un’altra cosa, dunque?
Sì, mettono la radicalizzazione in un altro contesto narrativo. Satanismo, nichilismo, suprematismo bianco, hanno dinamiche simili, spesso generazionali — sono giovani gli attentatori, sempre — esattamente come il terrorismo islamico. E c’è un’altra cosa che tutte queste radicalizzazioni condividono: l’estetica della violenza.

A guardare da vicino l’immaginario dell’Isis sembra più ereditato da film e videogiochi più che da altro...
Esatto, quello che ha capito l’Isis è proprio questo, e infatti hanno cercato di fare dei videogame dall’inizio, pensa all’estetica dei video che diffondevano qualche mese fa. Sono estremamente professionali nel farlo, è una cosa che hanno riconosciuto tutti. Esternalizzare il problema significa non rendersi conto che tutto quello che sta accadendo è l’effetto di una dinamica interna alla nostra società, non esterna.

È strano, fin dal caso Dreyfuss in Francia, ma non solo, si è sempre cercato di trovare il cosiddetto “nemico interiore”, oggi però si tende a volerlo identificare all’esterno. Come mai?
E perché facciamo del multiculturalismo. E sia che siamo a favore o contro, che siamo tolleranti o meno, il problema è continuiamo a dividere il mondo in Noi e Voi. La realtà è che viviamo in una società che è già integrata, solo che tendiamo a guardare solo i lati positivi dell’integrazione — che parlino la nostra lingua e che rispettino le nostre leggi — ma non ci stiamo rendendo conto che oltre alla nostra lingua il mondo sta assorbendo il nostro immaginario, quindi anche quello della violenza e del nichilismo. Come diceva Benedetto XVI, la Chiesa ha le risposte sbagliate, ma sa bene che ci sono le domande. È il loro lavoro da due millenni, e lo sanno fare.

E quindi ora che facciamo?
Certamente non si risolve una crisi culturale così, su due piedi, che è quello che poi vorrebbe l’opinione pubblica: una serie di 10 provvedimenti e nel giro di qualche mese, puf, via il problema della radicalizzazione.

Come quando chiamiamo il disinfestatore per gli scarafaggi?
Esatto. Ma non funziona così.

C’è il rischio che il razionalismo laico diventi esso soggetto a radicalizzazione?
Sì, in Francia di sicuro il rischio c’è e si sta già realizzando. Pensa che c’è qualcuno che vorrebbe imporre a scuola la carne di maiale a tutti. Obbligare un bambino musulmano o ebreo a mangiare carne è un atto di violenza. Oppure, una cosa che è successa il giorno delle elezioni, quando un elettore si è presentato con la kippah in testa per votare e la rappresentante di seggio gli ha intimato di togliersela per poter accedere alle cabine. Non ha senso. Non è laicità, è radicalizzazione del laicismo. Tutto questo nasconde un problema gigantesco: viviamo in una società fatta di individui che non rispettano più le opinioni differenti dalle proprie.

E se la grossa questione fosse che la modernità e la spiritualità non possono convivere?
Il problema maggiore è quella che chiamo la deculturazione delle religioni, ovvero, le religioni si sono separate, o sono state separate, dalle culture dominanti. E questo scarto ha fatto sì che la violenza attecchisse alla religione. Perché? Perché non c’è più la zona grigia.

Che cos’è la zona grigia?
Prendiamo un esempio italiano. Alla maggior parte degli italiani, se chiedi loro se sono cattolici dicono di sì, ma se gli chiedi se vanno a messa rispondono che no, che insomma, alla fine non gliene frega niente. O quelli che se gli dici che c’è un crocefisso a scuola ti dicono sorpresi che non l’hanno mai notato. Questa zona della società fa da ponte tra i credenti praticanti e i non credenti e oggi questa zona si sta assottigliando: i credenti, ormai devono scegliere, o dentro o fuori. In Italia magari molto meno, ma in Francia succedono cose fino a qualche anno fa incredibili: qui da voi se una coppia vuole sposarsi in chiesa, anche se non è praticante il prete della parrocchia accetta di sposarli. In Francia è già successo che, visto che la coppia in questione non frequentava la chiesa ma era solo iscritta al registro parrocchiale, il prete dicesse loro di no.

Perché in Francia sì e in Italia no?
Questo perché in Francia ormai la parola comunità prevale sulla parola parrocchia. Ed è una dinamica molto interessante, perché la comunità è un insieme di persone che condividono delle idee, la parrocchia indica semplicemente una condivisione di uno spazio geografico. Qualcosa è cambiato nella comunità religiosa, un po’ come quello che è cambiato in quella sociale: si è rotto il tessuto, ci stiamo atomizzando

In un contesto del genere il messaggio radicale, di qualsiasi matrice sia, ha solo che da guadagnarci no?
Sì, esatto, è qui che entra in gioco l’Isis. E vince facile, perché non deve nemmeno andarli a prendere, sono i ragazzi che li vanno a cercare. Succede perché sono atomizzati. E infatti non è un caso che la maggior parte dei terroristi islamici si sono radicalizzati proprio in carcere, il luogo dell’isolamento e dell’emarginazione per eccellenza, non nelle moschee, luoghi al contrario di comunità. E nel carcere questi individui si riaggregano, riformano una comunità, si proteggono dagli altri e dallo Stato. Pensa poi anche all’altro grande luogo della radicalizzazione: internet. Anche li, giovani emarginati e solitari si ritrovano e riformano una specie di comunità, formano i gruppi per compiere azioni. Come il ragazzo che sgozzò il prete in Francia insieme a un altro. Si erano conosciuti su internet e si erano visti di persona soltanto la sera prima.

C’è una cifra molto post moderna nell’Isis?
Sì, assolutamente. Perché accettano e cavalcano la modernità e sanno benissimo in che mondo vivono, lo sfruttano. Si trovano nel bel mezzo di un cambiamento epocale, sia sociale che tecnologico, e lo sanno cavalcare alla grande. Hanno capito prima di tutti che più che i testi e i discorsi funzionano i video, per esempio. Accettano, a differenza nostra, la globalizzazione. E tutti coloro che gli si avvicinano sono sì degli emarginati, ma sono anche dei globalizzati.

Questa sfida della globalizzazione invece noi la stiamo perdendo?
Certamente, sia la destra che la sinistra occidentali si pongono contro la globalizzazione, come se fosse una cosa evitabile, mentre i ragazzi che aderiscono all’Isis sono globalizzati, nelle loro camerette solitarie, nei quartieri emarginati delle città europee, lo accettano.

La sinistra però di base sarebbe internazionalista, mondialista…
Sì, è vero. L’estrema sinistra è mondialista, ma il pattern con cui si muove è il tentativo di federare lotte iperlocali — la Tav, per esempio — o le piazze e i movimenti. E poi è composta da militanti che sono bianchi, europei e provenienti dalla classe media. Sono gli immigrati che sono veramente globalizzati. Quindi non ci sono alternative, la sola rivolta globale e radicale in questo momento è rappresentata dall’Isis. Per ora c’è questo.

Dopo l’islamizzazione della radicalismo potremmo assistere a quella del precariato, o dell’anarchismo, o del nichilismo assoluto?
Certo. In questo momento funziona l’islam perché prima di tutto è la cosa che più terrorizza i borghesi. Un terrore che vediamo benissimo in alcuni atteggiamenti grotteschi. Per esempio, appena veniamo a sapere che qualcuno ha ucciso qualcun altro con un coltello la prima cosa che chiediamo è se ha detto Allah Akbar. Non ci interessa l’atto efferato e violento. Ci interessa in nome di cosa l’hanno fatto. E se non hanno detto Allah Akbar chi se ne frega. Pensa al pilota della Germanwings, ha ucciso più di cento persone e, fintanto che poteva essere un terrorista islamico eravamo tutti terrorizzati, appena si è saputo che era solo una persona instabile di mente ce ne siamo dimenticati.

Quanto conta la narrazione che noi giornalisti facciamo di questi fatti?
Tantissimo. Ed è pazzesco come sia impossibile ragionare con i giornalisti, che tra l’altro non sono normalmente islamofobi, sono quasi tutti liberali o di sinistra. Guarda, il caso perfetto per capire questa dinamica sono gli attentati accaduti a Londra e a Parigi i giorni precedenti il referendum e le elezioni. La teoria francese è stata “vogliono fare eleggere Le Pen”, la teoria inglese è stata “vogliono far vincere Farage”. Non è successo in nessuno dei due casi, perché in UK ha vinto Corbyn, un socialista, mondialista. Mentre in Francia ha vinto Macron, solo perché era più cool.

Eppure la narrazione giornalistica negli ultimi mesi ha toppato molte interpretazione, da Trump alla Brexit, per fare due esempi…
Sì, la gente ha votato esattamente il contrario di quel che avevano predetto i giornalisti. La gente è molto meno isterica dei giornalisti. Questi ultimi scrivono che l’Isis vuole portare l’opinione pubblica occidentale in una guerra civile contro i musulmani. E che cosa è successo in realtà? Giusto un paio di molotov su due moschee ed è tutto.

Ordinario razzismo, quindi…
Ma sì, cose tutto sommato normale e isolate. Non abbiamo certo assistito ad attacchi e linciaggi contro i quartieri musulmani. A Barcellona addirittura c’è stato un riavvicinamento delle comunità, con tanto di abbraccio tra un imam e il padre di una vittima.

In effetti quell’episodio, a parte la foto e un paio di titoli pietisti ad effetto poi non è stata contestualizzata per niente, come mai?
Ma no, ed è folle, non riesco a capire perché. Ho un sacco di amici giornalisti, eppure non capisco cosa gli passi per la testa. Nel paese dove abito in Francia hanno fatto un’inchiesta sull’Islam. Sono andati a cercare un po’ di persone da intervistare, una specie di casting. Avevano a disposizione un po’ di gente del quartiere difficile a maggioranza islamica, ma anche un po’ di esponenti della borghesia islamica. Sono andati a parlare con entrambe, ma nell’articolo c’era solo il primo mondo.

Forse perché è difficile affrontare la complessità…
Sì, può essere. Anche in televisione, non so se hai notato, ma quando invitano i radicali questi parlano sempre un perfetto francese. Quando invece invitano l’imam gentile e moderato, questo non riesce a dire due frasi in croce. E scommetto che se un giorno gli portassimo un imam moderato e gentile che parla perfettamente francese lo rifiuterebbero, direbbero che non è abbastanza “tipico”.

Farebbe ridere se non fosse allucinante…
Allucinante, hai detto bene. Il rapporto tra le generazioni è molto teso in questo periodo. Lo vedo nei miei figli. La vostra generazione è risentita verso la mia, ci accusate di avervi rubato il futuro. La prima conseguenza è che vi siete allontanati dalla politica, non militate più, non parlate nemmeno più di politica ormai. Al limite c’è chi gioca al fascismo e chi all’antifascismo, ma della politica di adesso, nessuno ne parla.

E un rapporto contraddittorio però, vi accusiamo di averci rubato il futuro, ma alla fine la casa ce l’avete comprata voi…
Sì, è molto complesso. Un’altra cosa molto interessante è la fine del femminismo: la generazione militante, quelle della mia generazione, non capiscono le nuove generazioni per niente. Non riescono a capire come le giovani possano essere, per esempio, molto più tolleranti verso il velo, che invece per loro è il simbolo stesso dell’alienazione della donna. Non capiscono come possano delle ragazze nate e cresciute qui andare in Siria a fare le mogli e le madri dei jihadisti. Potrebbero capire se andassero a combattere, ma assolutamente no che vadano a stare in casa, a badare alla famiglia e, sostanzialmente, a produrre la prossima generazione di combattenti. E così non poche delle mie compagne dell’epoca ora vogliono che il femminismo diventi una norma da imporre, che però è la negazione stessa della libertà sulla cui base è nato il femminismo.

È un po’ come lo stato laico che, radicalizzandosi, diventa sostanzialmente una dittatura delle idee…
Ti racconto una storia. Quando andavo al liceo le scuole in Francia erano ancora divise, quindi le mie cugine andavano nella scuola di fronte. Quando entravano, la direttrice le aspettava con un metro in mano per misurare la lunghezza delle gonne e, se erano troppo corte, non le facevano entrare. Ora, giusto qualche mese fa, in un liceo francese hanno tirato fuori di nuovo il metro e si sono messi di nuovo a misurare le gonne. Solo che questa volta la gonna doveva essere corta, se era troppo lunga le ragazze venivano mandate via. La consideravano una tunica.

È incredibile. Abbiamo fatto il giro…
È sempre la stessa cosa. Il corpo della donna è portatore della norma. A un certo momento, quando hanno vietato il velo, hanno pensato di vietare la barba. Per fortuna era la moda degli hipster.

È grottesco, come possiamo uscirne?
Il problema è che i valori di liberazione vengono promossi come norma obbligatoria. Per esempio, in Belgio, Olanda, Germania e altri paesi dell’Unione Europea fanno un test per l’integrazione. Bisogna rispondere a un questionario in cui si deve rispondere se si è d’accordo o meno con delle frasi. In Olanda obbligano il candidato a guardare la foto di una donna in topless, foto il cui sottotesto é: se volete abitare qui dovete accettare che le donne possano andare in giro anche così. Bene. Ma qui c’è un problema. Qualcuno l’ha fatta al Papa questa domanda? E al capo della Chiesa dei mormoni l’hanno chiesto? C’è evidentemente tanto che non va. In un’altra domanda, questa volta a risposta multipla, chiedono se la nudità è un valore tedesco. Ehm, sì, ok, a Monaco in effetti c’è un posto apposta nel parco dove possono andare i nudisti, ma non mi azzarderei a dire una cosa come “la nudità è un valore del popolo tedesco”, non ha molto senso. E poi non credo che Ratzinger sia d’accordo, per esempio. Che facciamo? Lo deportiamo?

Sulla questione dei diritti omossessuali?
È la stessa cosa, io personalmente sono d’accordo, ma se diciamo che i diritti degli omosessuali sono un valore condiviso dell’Europa, be’, purtroppo la risposta è no. E non soltanto per l’opposizione della Chiesa, ci sono anche tutti i partiti conservatori. La Chiesa accetta ovviamente la dignità dei singoli ed è arrivata ad ammorbidirsi un po’, ma non accetta minimamente alcun diritto di matrimonio o di riconoscimento.

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