Ep. 02

Il sesso è un diritto

Non tutti sono d’accordo nel riconoscere i diritti sessuali e riproduttivi alle persone disabili.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Ed è subito sera

In tempi di crisi la discriminazione e l’esclusione delle persone con disabilità sono ancora più acutizzate. 

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Essere disabili non significa essere asessuati. ​​​​​​​​​​​​​​

Con Armanda Salvucci e Simona Lancioni proviamo a raccontare come il pieno riconoscimento dei diritti della sfera sessuale delle persone con disabilità può avvenire solo grazie ad una sensibilizzazione dell’opinione pubblica e al tempo stesso un impegno delle istituzioni; e in Italia la strada è ancora lunga.

Armanda Salvucci ha 55 anni, due cani e l’acondroplasia.

Da sempre «aspira alla libertà» e da sei anni porta avanti il progetto Sensuability, che prende forma, innanzitutto, in una mostra-concorso, ormai appuntamento fisso nei calendari dei più importanti contest nazionali. Artisti emergenti e non si sfidano intorno al binomio sessualità/disabilità.

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Armanda Salvucci

L’obiettivo della mostra è ridisegnare un nuovo immaginario erotico, fatto di corpi non perfetti ma estremamente sensuali. Ad esempio, il terzo posto di quest’anno è andato a Diletta Indiveri con Godo lo stesso. Vi ricordate lo storico slogan dello snack “Se non ti lecchi le dita godi solo a metà”? Ecco, in quest’opera, viene preso alla lettera e respinto al mittente grazie ad una sexy Venere di Milo dei giorni nostri.

«Vogliamo far vedere corpi differenti e vogliamo che le stesse persone con disabilità si vedano rappresentate. La nostra non è solo una semplice testimonianza», sottolinea Armanda Salvucci, che quest’anno ha aperto il concorso anche agli studenti delle scuole di fumetto e a quelli del liceo e degli istituti grafici.

L’arte che diventa lo strumento giusto per portare avanti la sua battaglia.

«I linguaggi artistici, siano essi cinema, fotografia, fumetto, pittura, sono un mezzo importante e, soprattutto, senza intermediari. Un’illustrazione è immediata, vale più di mille spiegazioni.

Quest’anno, per alcuni è stato un po’ difficile rimanere fedeli alle richieste del regolamento: è mancata l’ironia e, secondo me, non è stato un caso. Dipende dall’idea personale che si ha della disabilità. Come l’idea della sensualità femminile è ancora legata alle misure 90-60-90, anche la rappresentazione delle amputazioni, come disabilità più diffusa, limita molto la creatività. È molto più facile disegnare un’amputazione piuttosto che rielaborare la diversità di un intero corpo».

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DIletta Indiveri, Godo lo stesso

Armanda racconta che il progetto Sensuability, che unisce i due termini per molti inaccostabili, “sessualità” e “disabilità”, nasce dopo una notte insonne e tormentata per via di un annuncio di lavoro letto per caso: un regista stava cercando per il suo film «un nano che faceva tenerezza».

Ma i primi stereotipi da abbattere sono quelli che crescono intorno a te, quelli che respiri nella tua famiglia o nella tua cerchia di amici. «A casa mia era normale pensare che mio fratello si sarebbe sposato, mia sorella si sarebbe sposata e io avrei fatto compagnia ai miei genitori», racconta.

Nella sfera sessuale, ti sei mai sentita discriminata in quanto donna con disabilità?

«Sì certo, sin dall’adolescenza, quando iniziano le prime cotte e io ero praticamente invisibile, o all’università, quando le persone dicevano di me che non avrei mai fatto sesso. Tante discriminazioni e stereotipi che, giorno dopo giorno, ledono la tua femminilità».

Per una persona con disabilità il sesso è un diritto, sempre?

«Sarò impopolare, ma per me, per noi di Sensuability il sesso non è un diritto, è un’esigenza vitale. Un’esigenza vitale lo è sempre. Io non ho diritto a fare sesso, ho diritto però ad avere le stesse opportunità che hanno gli altri, senza barriere architettoniche». E Armanda chiude il cerchio dicendo: «Se non riconosci alla persona con disabilità la possibilità di fare sesso, non gli riconosci il diritto di essere adulto».

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Simona Barone, opera “Sensuability ti mette le ali”, vincitrice dell’edizione 2022 di Sensuability

È, allora, un altro il diritto che rivendica con forza e persino con ironia Armanda Salvucci: «Vogliamo proporre di inserire nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità un nuovo articolo, il 19 bis, che segue l’articolo 19 sulla “Vita indipendente e inclusione nella società”, in cui si afferma che: “va riconosciuto a ogni persona con disabilità il diritto al piacere e alla libertà di esprimere e godere della propria sessualità”».

Infatti la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite, in assoluto il primo trattato internazionale dedicato esclusivamente ai diritti delle persone con disabilità, vincolante per i Paesi firmatari e bussola anche per la nostra Legge delega, proclama, tra i suoi principi generali, l’autonomia individuale, la non discriminazione, la partecipazione e inclusione all’interno della società e le pari opportunità: senza mai nominare esplicitamente la sessualità come parte integrante della vita delle persone con disabilità. La Convenzione è del 2006 e l’Italia l’ha ratificata con la Legge 18 del 3 marzo 2009.

Pubblicato in inglese all’inizio del 2022 e realizzato dalla Fondazione Santa Lucia IRCCS, lo studio I diritti sessuali e genitoriali delle persone con disabilità fisiche e psichiche: atteggiamenti degli italiani e fattori socio-demografici coinvolti nel riconoscimento e nel diniego, indica che il 70% degli intervistati è favorevole a che le persone con disabilità fisica possano esercitare tutti questi diritti, ma la percentuale cala se prendiamo in considerazione le persone con disabilità psichica. «Questa differenza potrebbe far riflettere sul fatto che i diritti sessuali non sono visti come possibilità da garantire a tutti, ma come un’opzione praticabile solo da alcuni», osserva la ricercatrice e responsabile dell’indagine Simona Di Santo.

Ma poi c’è l’altra faccia del sesso: il sesso senza consenso, il negare il diritto ad una persona, con o senza disabilità, di stabilire cosa avviene al proprio corpo.

Se la strada di Armanda per rivendicare la libertà di poter vivere una sessualità soddisfacente è in salita ma appare tracciata, è spesso al buio quella per far emergere e affrontare il fenomeno della violenza sessuale nei confronti delle donne con disabilità.

Se ne occupa da anni Simona Lancioni, responsabile del centro “Informare un´H” di Peccioli, in provincia di Pisa. In queste settimane ha lanciato la campagna Dateci i dati!.

È infatti stata approvata dalla Camera dei Deputati la Legge n. 2805, un provvedimento strategico per la prevenzione della violenza contro le donne, la protezione delle vittime e la punizione degli autori, perché sistematizza la raccolta dati su questo fenomeno, disponendo che l’ISTAT e il Sistema statistico nazionale realizzino, «con cadenza triennale, un’indagine campionaria interamente dedicata alla violenza contro le donne che produca stime anche sulla parte sommersa dei diversi tipi di violenza, ossia violenza fisica, sessuale, psicologica, economica». Peccato le lacune sulla variabile della disabilità.

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Simona Lancioni

«In Italia non siamo abituati ad integrare la variabile della disabilità quando si definiscono le politiche di genere, né la variabile del genere quando si definiscono quelle per la disabilità. Il risultato è che le esigenze specifiche delle donne con disabilità, che per essere affrontate in modo adeguato richiedono di essere “viste” da entrambe le prospettive, rischiavano di rimanere invisibili. Per questa negligenza il nostro Paese è stato anche richiamato dal Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità. È importante che i dati sulla violenza siano disaggregati anche per la variabile della disabilità».

«Le donne con disabilità`» ci dice «sono più esposte delle altre donne alle diverse forme della violenza di genere (fisica, sessuale, psicologica ed economica), ma anche a forme specifiche di violenza legate alla disabilità. Ad esempio, ad una donna con disabilità non autosufficiente che subisce violenza da chi le presta assistenza può capitare di dover chiedere aiuto per mangiare, lavarsi, vestirsi, andare in bagno alla stessa persona che la maltratta, la picchia o abusa sessualmente di lei. Questa donna non solo avrà meno possibilità delle altre donne di sottrarsi alla violenza o anche solo di chiedere aiuto, ma, se dovesse aver bisogno di usufruire di una casa rifugio, non è detto che questa sia accessibile per lei, ed è improbabile che sia stato predisposto un servizio di assistenza personale alternativo all’assistenza prestata dall’autore o dall’autrice della violenza. È evidente che questa forma di violenza è abbastanza diversa da quelle subite dalle altre donne e che richieda una risposta mirata».

I diritti delle persone con disabilità in termini di autodeterminazione della persona, quelli così ben descritti nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, molto spesso non vengano rispettati. Emblematica è la storia di Yaska, di cui hanno parlato in questi anni alcuni giornali e programmi TV: Yaska è una donna di 31 anni con schizofrenia, residente a Firenze e dal 2015 è stata sottratta alla famiglia, istituzionalizzata e nel 2019 ha subito un aborto forzato.

Hai seguito la vicenda di Yaska: cosa ti ha colpito di più e quante Yaska ci sono in Italia?

«Mi sono occupata in più occasioni del caso. Yaska ha subito ed ancora subisce molteplici forme di discriminazione e violenza. Ha subito un aborto, nonostante avesse manifestato il desiderio di portare avanti la sua gravidanza, e vive tuttora segregata contro la sua volontà in una struttura di Firenze.

Tutto questo è possibile perché, sebbene siano in contrasto con l’articolo 12 della già richiamata Convenzione ONU, in Italia continuano ad essere applicati gli istituti di tutela dell’interdizione e dell’inabilitazione che consentono a terzi (tutori, curatori e giudici) di sostituirsi alla persona con disabilità anche su scelte molto personali, come quelle in materia sessuale e riproduttiva, senza preoccuparsi di ciò che la persona in questione desidera.

Questi istituti vanno aboliti e bisognerebbe iniziare a raccogliere i dati sui trattamenti sanitari autorizzati da terzi senza il coinvolgimento delle persone disabili che li subiscono. Finché non lo faremo, non saremo in grado di dire quante Yaska ci sono in Italia».

Senza dati, insomma, le donne con disabilità vittime di violenza continueranno ad essere discriminate.

Quando le istituzioni cambieranno passo su queste emergenze? Quando ai falsi miti di perfezione fisica o di infantilizzazione perpetua sostituiremo, anche nel dibattito pubblico, i desideri, i pensieri e le esperienze delle persone con disabilità?

Di fronte a domande che possono sembrare retoriche, a noi non resta che tornare di nuovo a Raffaella Carrà: “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù/ L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu”.

 

La foto di copertina è l’opera Absolut Sex Life di Giulia Filippi.

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