Tutti vogliono salvare Venezia. Ma da cosa?
Il problema è l’iperturismo? O lo spopolamento? Oppure sono i soldi?
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
Se una laguna si riempie di sedimenti, se il flusso dell’acqua viene modificato, arginato, deviato, la laguna può diventare una palude. La metafora della palude è stata usata dalla Guardia di Finanza che ha condotto indagini sulla gestione della cosa pubblica a Venezia.
La procura sintetizza l’inchiesta, scrivendo che a Venezia c’è “un quadro complessivo connotato dalla frequente commistione di interessi privati con quelli pubblici e dalla strumentalizzazione delle cariche pubbliche da parte di un gruppo di persone poste al vertice e in snodi chiave dell’apparato amministrativo comunale”.
Un assessore è stato arrestato, il sindaco Luigi Brugnaro è stato iscritto nel registro degli indagati “a sua tutela”, ha detto il procuratore capo di Venezia. È ovvio che occorra attendere la conclusione dell’iter giudiziario per capire quale sarà la verità che emergerà dai tribunali.
Ma non c’è bisogno di aspettare altro per confermare un’evidenza: gli interessi dei privati potenti e del profitto si scontrano costantemente con gli interessi del bene pubblico. Ovunque, e anche a Venezia. È questa la palude in cui ci siamo impantanati, anche seguendo questa storia.
Una coppia si è appena sposata a Venezia. Evidentemente l’operazione è costata parecchio, perché si fanno il servizio fotografico da soli. Un fotografo parigino, in aereo, modifica una serie di foto di un altro matrimonio a Venezia. L’esperienza del rito e dell’unione nella città romantica per eccellenza è ancora molto ambita ed è un piccolo grande evento privato, completamente disconnesso dalla cultura locale, che usa Venezia come scenografia.
Nel 1989 un grande evento a Venezia diventa una specie di emblema di queste idee. È il concerto dei Pink Floyd, voluto fortissimamente dalla RAI che ne deteneva i diritti, autorizzato in via definitiva solamente la sera stessa dell’evento. Piazza San Marco non sprofondò, come temeva qualcuno. Ma siccome non venne approntato praticamente nulla per accogliere una presenza straordinaria di persone, “intere parti della città si trasformarono in latrine all’aria aperta. Fu chiamato l’esercito per pulire 300 tonnellate d’immondizia ed escrementi, costringendo alle dimissioni prima i vertici dell’assessorato alla cultura cittadino, quindi l’intera Giunta. I progetti per un francobollo commemorativo furono cancellati in silenzio”, scrive Fielder in Pink Floyd al di là del muro.
“La città storica”, spiega Clara Zanardi nel suo lavoro di dottorato La bonifica umana, “veniva ancora una volta utilizzata come mero fondale scenografico per il profitto di pochi grandi attori esterni alla dimensione locale, senza alcuna capacità logistico-organizzativa né alcuna considerazione della conformazione fisica del territorio e della sua intrinseca fragilità. Si prediligeva quindi il turismo come forma economica rispettosa e sostenibile, ma in nome del suo incentivo si forzava la struttura urbana ben oltre i limiti della propria capacità di sopportazione, scaricando sulla popolazione locale i costi di tale pratica”.
Il lavoro di Zanardi e il suo racconto a casa di Paola Somma, al Lido, si intrecciano nel ricordarci che raccontare il passato è fondamentale per immaginare il futuro. E che di soluzioni, a Venezia, gli altri ne hanno immaginate tantissime, ma in una direzione diversa da quella che vorremmo e che raccontiamo qui.
Ci fu il piano di risanamento del 1887, preparato dopo una serie di epidemie di colera. La “Commissione per le case sane, economiche e popolari” ricevette il compito di demolire e ricostruire le case popolari. Doveva migliorare le condizioni di vita dei poveri, ma divenne “una manna per gli speculatori” che “da qualche tempo comperano gruppi di catapecchie […] e dopo averle intonacate, così come si trovano, senza aria né luce, le affittano a famiglie di otto o dieci persone”, ricorda Somma nel suo libro citando un articolo del 1901. Ci fu il censimento del 1911, usato per ottenere facilitazioni fiscali per i proprietari e per chiedere che divenisse operativo lo “sfratto per ricostruzione”. “Le malattie dei poveri”, conclude Somma, “continuavano a tornare buone per aumentare di valore le case dei ricchi”.
Ci fu il fascismo che col ponte Littorio voleva facilitare lo spostamento dei veneziani verso la terraferma – “i veneziani sgraditi al regime”, ricorda Somma – e che mise nero su bianco, in un lavoro a firma dell’ingegner Miozzi, a capo della Direzione Lavori e Servizi pubblici del Comune dal 1931, l’idea di bonificare Venezia dai poveri per dislocarli in periferia: “per evitare che la città vecchia resti abitata dai ceti più poveri”, Miozzi suggerisce di “sovvenzionare i restauri degli edifici di pregio artistico e dei vecchi palazzi così che possano continuare ad essere convenienti e comodi per i benestanti”.
Ci fu il Piano regolatore generale di Venezia, entrato in vigore nel 1962: prevedeva uno sfollamento di 37mila abitanti. Letteralmente. “Lo spopolamento della città storica”, scrive Zanardi, “non era considerato come un problema, ma come un fenomeno naturale e auspicabile, il cui deflusso andava semplicemente regolato”. La componente pubblica del piano regolatore venne “organicamente inserita nel processo speculativo, approvando regolarmente le iniziative private e predisponendo per conto suo le strutture adatte a facilitare gli spostamenti della popolazione a basso reddito”.
Non c’era, dunque, e non c’è una mancanza di visione politica. C’è stata, anzi, una specifica volontà politica, storica, di dislocare i poveri: è un’idea vecchia più di un secolo e che, come abbiamo visto, ha funzionato.
Come si fa, allora, a guardare alle soluzioni se abbiamo dimostrato che la maggior parte delle decisioni prese sul territorio di Venezia e sulla pelle delle persone è andata nella direzione opposta a quella del problema che abbiamo individuato? Come si fa se, come scrive Zanardi “tra le molte città immaginate come possibili, solamente quella attuale, la destinazione turistica, è stata accettata come necessaria e integralmente realizzata”?
È difficile ma necessario. Bisogna farlo, perché, ci ricorda ancora la ricercatrice citando Calvino, “a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”.
La verità è che le idee non mancano affatto. E anche le possibilità di applicarle: richiedono tempo, dedizione, volontà, costruzione della comunità, della consapevolezza e della coesione, richiedono comunità e cooperazione anziché competizione.
Per esempio, da luglio del 2022 Venezia, unica città in Italia, ha già la possibilità di intervenire, con il cosiddetto emendamento Pellicani, per favorire gli affitti di lunga durata. È una soluzione interessante che consente a Venezia, unica città in Italia, di mettere un tetto alle locazioni turistiche brevi (tenendo anche conto di quando l’attività di affitto è fondamentale per l’integrazione al reddito dei piccoli proprietari). Nonostante questo, il comune non è intervenuto.
“Non c’è una volontà politica per tutelare l’abitare”, ribadisce Clara Zanardi.
In luoghi dove questa operazione è stata fatta sappiamo già che l’operazione funziona ma non basta. A Bordeaux, in Francia, dove il progetto è partito nel 2016, c’è stata una netta riduzione degli affitti a breve termine, senza che i prezzi aumentassero. In generale questo porta benefici in termini di vivibilità delle città e ha anche aumentato la disponibilità di appartamenti a lungo termine, senza però incidere significativamente sulla tensione abitativa: nella città francese, la domanda di affitti a lungo termine continua ad essere superiore all’offerta. La stessa cosa è successa a Santa Monica, negli Stati Uniti.
Non basta perché servono idee combinate. “Rendere l’affitto a residenti più conveniente da un punto fiscale potrebbe essere un’idea”, dice ancora Clara Zanardi. Per esempio, a Sedona (Arizona), c’è un programma pilota che ha offerto un compenso a chi trasforma le proprie locazioni brevi in affitti lunghi per residenti: è partito nel 2022 ed è troppo presto per valutarlo.
“Sarebbe importante anche dare incentivi per diversificare l’economia cittadina. Un’altra possibilità”, prosegue Zanardi, “è attuare politiche di concessioni a prezzi calmierati degli spazi per chi vuole aprire attività diverse da quelle turistiche. Se i giovani vogliono avviare un’attività che possa aiutare Venezia dalla monocoltura del turismo, ha bisogno di una sede, di servizi, e oggi tutto questo non è accessibile: i prezzi non sono concorrenziali. Nessuno spazio è affittabile ad attività che non abbiano rendite paragonabili a quelle del turismo a breve termine”.
Il professor Davis suggerisce la riqualificazione di edifici abbandonati in spazi per l’abitare, moderni, accessibili e l’incentivo alla formazione di nuove comunità all’interno di quartieri diversi della città: la riqualificazione degli edifici può migliorare le condizioni di vita, incentivare le persone a rimanere o addirittura a tornare o a scegliere Venezia per abitarci.
Maria Fiano richiama l’attenzione sulla necessità di trasparenza e analisi, “e valutazione serena di progetti che hanno funzionato per un po’, magari in maniera parziale”. Ci sono singoli progetti che non erano sbagliati in sé, che avevano senso sulla carta. “Ma senza una visione d’insieme, dove si va?”
E forse bisognerebbe anche protestare, suggerisce Davis ricordando la protesta contro le grandi navi, e riappropriarsi degli spazi pubblici in quel senso, perché anche dalle proteste partono le soluzioni. Solo che persino protestare, nella città d’acqua, è molto difficile: “le calli strette della città si prestano poco a manifestazioni e a causa della massiccia presenza di turisti, eventuali cortei di protesta potrebbero essere fraintesi come eventi festivi piuttosto che come espressioni di dissenso politico”.
Secondo Paola Somma la visione d’insieme bisogna costruirla anche in termini di educazione: “Dobbiamo spiegare ai bambini il nesso fra la terra, l’essere umano e il denaro. Purtroppo la lotta per la terra non conosce limiti. Persino il proprietario comincia ad avere dei dubbi perché basta un piano di rigenerazione urbana che renda uno stadio un’opera di pubblica utilità ed ecco che, improvvisamente, casa tua va demolita. Siamo tutti ospiti indesiderati.
Bisogna creare un’educazione di massa a questo nesso”.
Alla fine, il problema è lo scontro tra profitto e privato. Lo è stato nell’ultimo secolo e mezzo, lo è oggi fra le pagine di un’inchiesta giudiziaria che scrive, per lo meno, una verità sociale. Il problema è lo scontro tra chi vuole il bene comune e chi vuole soldi e potere per sé e per pochi amici. Dovremmo impegnarci a risolverlo.
Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe.
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