Ep. 02

Realismo automobilista

Il raccont che l’auto porta con sé da decenni con il reale non c’entra nulla, esiste solo nella nostra testa e ci rende schiavi.

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Realismo automobilista

Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.

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Un anello per domarli, un anello per trovarli,
un anello per ghermirli e nel buio incatenarli.
J.R.R. Tolkien

Nel giugno del 2005, quando scrive su K-punk un pezzo intitolato October 6, 1979: Capitalism and Bipolar disorder, uno dei suoi pezzi più famosi, Mark Fisher non può essere a conoscenza di quello che sta succedendo negli Stati Uniti. Non può sapere nulla, come nessun altro ovviamente. Perché il paradosso dei picchi è anche la cosa più ovvio: per la loro stessa natura non li puoi vedere quando ci stai sopra. Eppure la coincidenza di date, per il discorso che voglio fare qui, è decisamente formidabile.

Mark Fisher, infatti, il 9 giugno di quello 2005, proprio mentre un ipotetico americano medio usciva dalla sua casa media nella sua macchina media e inizia mediamente a usarla meno del giorno prima, inizia il suo articolo così:

«Realism has nothing to do with the Real. On the contrary, the Real is what realism has continually to suppress. Capitalist realism, like Socialist realism, is about ‘putting a human face’ on and naturalizing a set of political determinations».

Mark Fisher, October 6, 1979: Capitalism and Bipolar disorder, K-punk, giugno 2005

Che nella traduzione di Vincenzo Perna, per l’edizione italiana di quegli scritti, pubblicata da Minimum Fax, suona così: «Il realismo non ha assolutamente nulla a che vedere con il Reale. Al contrario, il Reale è ciò che il realismo è costretto di continuo a sopprimere. Il realismo capitalista, come il realismo socialista, si occupa di «conferire un volto umano», di naturalizzare un insieme di determinazioni politiche.”

Poi, poche righe dopo, Fisher affonda con un’altra frase altrettanto nitida, precisa e perfetta per il discorso che sto per fare: «il capitalismo si basa su una serie di fantasie talmente ingenue da risultare quasi affascinanti». Sì, perché, una di quelle fantasie, forse la più centrale, quella che probabilmente più ha contribuito a inoculare il sentimento capitalista in ognuno di noi e a farlo percolare nel mondo distorcendolo a sua immagine e somiglianza è proprio l’automobile: simbolo dell’individualismo consumista, cuore e baricentro del capitalismo industriale.

Ecco che cos’è il Realismo automobilista. È il racconto del reale che l’auto porta con sé da decenni. È quella realtà che somiglia al mondo là fuori, ma che esiste solo nella nostra testa rendendoci schiavi. È un immaginario che è stato costruito abilmente e meticolosamente, utilizzando precise strategie narrative, comunicative, commerciali, ma anche politiche lungo l’arco di più di un secolo.

È quell’insieme di sovrastrutture che ci ha talmente condizionato da farci accettare politiche urbanistiche e infrastrutturali criminali, ma che sono talmente efficaci da averci fatto dimenticare che l’auto esiste da pochi decenni e che siamo noi che serviamo a lei, e non il contrario.

Colin Ward, autore di Dopo l’automobile, identifica la riuscita imposizione di questa fantasia ingenua, naif quanto basta per truffare tutta l’umanità, paragonando l’Umanità a una mandria di bambini. È così che l’auto titilla il «sogno infantile di una libertà individuale assoluta da cui facciamo fatica ad emanciparci». E vince. Ha ragione. L’auto è affascinante e irresistibile, ma è un prodotto che non rispetta nemmeno una delle libertà che promette: ci rifila catene spacciandole per libertà.

Ha funzionato. Quel sogno infantile ci ha portato a vivere in una realtà completamente trasformata e a misura di macchina. Quella che doveva essere una libertà è diventata una gabbia. E se nei centri urbani europei se ne si può fare ancora a meno, visto che la loro struttura e fisionomia è nata prima delle auto, non si può dire la stessa cosa per i sobborghi, le periferie o le megalopoli americane, le cui distanze, senza macchina, sono una prigione.

L’operazione di intrusione nell’immaginario — in Contro l’automobile, il pamphlet che ho pubblicato a febbraio per Eris Edizioni, l’ho definita “inception” — è stata mastodontica. La comunicazione, a tutti i livelli, è costata e costa ancora miliardi e miliardi di dollari all’anno. Da decenni. E i risultati si vedono dovunque.

Telma e Louise scappano in macchina, come in macchina Batman salva Gotham City; in macchina Kerouac viaggia sulla strada; i furgoncini Volkswagen sono nell’essenza stessa persino del mondo libertario per eccellenza, quello degli hippy; nel mondo post apocalittico di Mad Max, le automobili e il carburante sono l’ultimo baluardo del potere, il centro di una società disumanizzata e devastata. Ormai al mondo non esiste squadra di calcio che non abbia il suo car sponsor, come non c’è evento culturale che non abbia qualcosa in cambio — di solito automobili per la logistica e soldi — una marca di auto tra i sostenitori. Dai festival alle maratone.

Ci siamo lasciati intrattenere ed è stato bellissimo. Ma intanto il realismo automobilista si è imposto dentro ognuno di noi, ha contaminato la nostra coscienza spingendoci ad accettare un patto che ricorda l’archetipo dei patti col diavolo: ci ha sussurrato un discorso suadente che parlava di libertà e comodità, che ci prometteva la totale libertà, ci ha messo in mano una pillola blu a forma di chiavi della nostra macchina e noi ce la siamo ingollata con un bel sorso d’acqua. Non abbiamo chiesto quale fosse il prezzo da pagare. Abbiamo accettato la truffa a braghe basse. E ci siamo legati a una dipendenza di cui non abbiamo più il controllo.

Appena nati abbiamo macchine disegnate sulla felpina o sulle calzine; con le macchinine ci giochiamo da bambini; prendendo la patente affrontiamo il rito di passaggio all’età adulta della nostra epoca; l’automobile è una delle più grosse voci di spesa da quando usciamo di casa e ci facciamo una famiglia; quei pochi metri quadrati di abitacolo sono il luogo fuori casa di nostra proprietà in cui passiamo più tempo durante la vita lavorativa; l’auto è quasi un membro della famiglia, da “curare” e revisionare costantemente, da lavare la domenica e a cui, quando siamo abbastanza ricchi, provvediamo addirittura a riparare sotto un tetto, comprando un box, una casetta solo per lei. Con una macchina, infine, ci portano, da morti, fino alla tomba.

Questa dipendenza è il danno più grave, peggio ancora dell’impatto ambientale, che l’automobile ha fatto all’umanità. Ma dal punto di vista di chi questa missione l’ha perseguita per decenni, tutto ciò non è altro che la riuscita perfetta di una strategia multidecennale di dominio: abbiamo permesso che dislocassero e disarticolassero la vita urbana e quella rurale creando quel mostro che è la vita suburbana, popolata di pendolari, regolata dall’orario del lavoro salariato, dipendente in modo totale dalla macchina per ogni attività, dal fare la spesa all’accompagnare i figli a scuola, dall’andare a lavoro, in palestra o alla stazione.

Nel mondo in cui viviamo tutti i giorni, la morale e l’immaginario che l’industria dell’automobile ci ha abilmente indotto a creare non ammette alternative. L’automobile è stato il virus più efficace per indurre quella dissociazione psichica che Fisher imputa al capitalismo e che è la base di coltura di quella che potremmo definire “l’impero dell’ego edonista”, il regno-prigione del consumatore tossico, dipendente da una droga come uno schiavo dal suo padrone. Un regno in cui ci siamo fatti convincere a pagare a peso d’oro le nostre stesse catene.

E in questo regime di dissociazione psichica, in questo vortice di consumo compulsivo e di prigionia volontaria dei desideri che sfocia sempre più spesso in depressioni croniche, il Realismo automobilista del There is not alternative ha funzionato al tal punto che non è solo la nostra dimensione immaginifica che è incapace di vivere in un mondo senza automobili. Ormai senza automobile anche la vita della maggior parte degli abitanti di quella città continua e globale che sono i suburbs, le aree suburbane, quelle a scarsa densità abitativa e industriale, quegli immensi dormitori le cui distanze (dal lavoro, dalle scuole, dai negozi e dai luoghi del tempo libero) sono tarate sulle automobili, è in pericolo mortale.

La foto è di Lukasz Wojcik e puoi trovare l’originale su Unsplash.

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