Ep. 1

La mobilità si cambia dalla testa

Strada con macchine vista dall'alto
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
La mobilità si cambia dalla testa

Un sistema di trasporti sostenibile e giusto è possibile, ed è la base per ricostruire una società libera, accessibile e inclusiva per tuttə, basta volerlo politicamente.

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«Oggi è un giorno molto speciale». È l’11 dicembre del 2019, di fronte alle telecamere c’è una sorridente Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea da appena 10 giorni, e quello che sta per annunciare è effettivamente qualcosa di enorme: il Green Deal europeo, che, secondo le parole della Presidente, ha come scopo portare l’Europa ad essere il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Ma non solo.

«Il nostro obiettivo è riconciliare l’economia con il nostro pianeta», puntualizza von der Leyen, «riconciliare il nostro modo di produrre e di consumare con il nostro pianeta. Ma anche renderlo possibile per tutti».

Dissociare la crescita economica e il benessere dei cittadini dal consumo di risorse e fare in modo che questo avvenga senza che nessuno rimanga indietro, ovvero, oltre all’impatto zero, anche l’inclusione sociale. Una sfida per cui, come sanno bene in Commissione, serviranno azioni di riconversione e di cambio di modelli, politiche e abitudini che per decenni hanno segnato le nostre vite. Di questi modelli, di queste politiche e di queste abitudini, la mobilità è il cuore.

I trasporti pesano all’incirca per il 22 per cento sulle intere emissioni di gas serra europee. Sono l’unico settore in cui le emissioni hanno superato i livelli del 1990, data simbolo che l’Unione europea si è data come anno zero. Ma ancora di più, questi valori hanno ripreso ad aumentare dal 2013 nonostante tutti i nostri sforzi per contenerli. Non solo le cose non migliorano, ma stanno peggiorando.

Greenhouse gas emissions from transport in Europe
Greenhouse gas emissions from transport in Europe

Il Green Deal europeo, di fronte a tutto ciò, ha stabilito un obiettivo vitale: ridurre del 90 per cento le emissioni nel settore trasporti entro il 2050. Per guidarne la realizzazione, il nove dicembre 2020, a un anno esatto dal lancio del Green Deal, la Commissione Europea ha adottato una strategia per una mobilità sostenibile e intelligente, la Sustainable and Smart Mobility Strategy.

L’obiettivo principale di questa strategia è «modificare l’attuale mentalità fatta di piccoli cambiamenti in favore di una trasformazione radicale, […] affinché i trasporti europei siano messi risolutamente sulla buona strada, per un futuro sostenibile e intelligente». La streategia si basa su 10 «iniziative faro» con un piano d’azione che guiderà il lavoro nei prossimi anni.

Tra le dieci iniziative faro, due interessano direttamente la mobilità ciclistica. La terza, che punta a «rendere più sostenibile e sana la mobilità interurbana e urbana» e a «garantire che tutte le grandi e medie città che costituiscono nodi urbani della rete Ten-T mettano in atto i propri Piani di Mobilità Urbana Sostenibile entro il 2030», e la nona, che mira a una mobilità equa e giusta per tutti.

«Il passaggio a una mobilità sostenibile, intelligente e resiliente deve essere giusto o, in caso contrario, rischierà di non prodursi», ribadisce la Commissione

che per questo continua ad assicurare il sostegno del Fondo di coesione e del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), due dei fondi strutturali che l’Unione Europea ha ideato per sostenere la propria politica di coesione, per uniformare verso l’alto le pratiche e le condizioni di vita nell’Unione.

Nel periodo 2014-2020, ogni Stato membro era tenuto a utilizzare almeno il cinque per cento della sua dotazione Fesr a favore dello sviluppo urbano sostenibile. E in questo nuovo settennato, 2021-2027, la percentuale è stata aumentata all’otto per cento. La promozione del trasporto sostenibile era uno degli undici obiettivi tematici della politica di coesione dell’intero settennato. Ma a livello prettamente economico, i fondi Fesr 2014-2020 hanno sostenuto e cofinanziato soprattutto infrastrutture e azioni riguardanti il trasporto ferroviario, urbano metropolitano, autostradale e portuale.

Sul totale dei fondi Fesr 2014-2020 italiani, infatti, alla voce mobilità e trasporti figurano tre miliardi e 700 milioni di euro, il 23 per cento del totale, che è stato diviso su circa 700 progetti (dato OpenCoesione, al 28 febbraio 2022). Di questi, circa tre miliardi vanno a infrastrutture ferroviarie, linee metropolitane e tramviarie, infrastrutture stradali, portuali e multimodali: grandi investimenti che intercettano pienamente gli obiettivi europei di sviluppo e di coesione tra le regioni e tra gli Stati. Di quel che resta, soltanto un centinaio di milioni va direttamente a infrastrutture ciclabili.

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Sostenere soltanto in minima parte le infrastrutture ciclabili e le nuove idee di mobilità urbana e suburbana alternativa e a basso impatto, che restano spesso ideate e finanziate in modo molto frammentario, sembra essere un limite dei fondi Fesr.

Ma questo tipo di infrastrutture, prima di realizzarle, bisogna poterle immaginare. Ed è proprio da questo punto di vista, sulla portata dell’immaginario, che l’Europa è ancora molto disomogenea. Ci sono regioni all’avanguardia, e ce ne sono altre in cui le alternative alla mobilità pesante su gomma, al di là di quanti soldi in realtà costino, non si riescono nemmeno a immaginare.

I soldi? Non sono mai il problema

«I soldi? I soldi non sono un problema. Non sono mai il problema. Il problema è avere la visione prima di spenderli». A parlare è Paolo Ruffino, senior consultant di Decisio, uno che vive tra i due mondi di cui parlavamo poco fa: l’Italia, Torino, e il nord Europa, Amsterdam.

Dopo una laurea all’Università di Utrecht, Ruffino si è specializzato ad Amsterdam e ha lavorato per l’Amsterdam Transport Authority dove ha curato il piano di sviluppo e la valutazione costi-benefici delle “superciclovie” nell’area metropolitana della capitale olandese. Dal 2016 si occupa di programmazione, pianificazione e valutazione di politiche di mobilità per Decisio, una azienda italo-olandese che si occupa di «ricerca e consulenza sociale ed economica».

La frase di Ruffino può sembrare una provocazione, anche e soprattutto dopo aver visto quanti pochi soldi del Fesr finiscono direttamente in infrastrutture ciclabili, ma non lo è affatto. E in tanti lo confermano: i soldi, soprattutto in questo momento, si trovano tra fondi post pandemia, Piano nazionale di ripresa e resilienza – Pnrr, fondi strutturali europei, investimenti per il rilancio e la transizione energetica, interesse dei privati e persino prestiti agevolati per le amministrazioni.

 

Certo, come racconta l’esperta in politiche di sviluppo e coesione nell’ambito del trasporto e della mobilità urbana Roberta Calcina, «è un lavoro certosino mettere insieme i fondi» «È complicato imparare a orientarsi tra i bandi promossi dalla politica di coesione dell’Unione Europea, fondi nazionali, quelli straordinari del Piano nazionale di ripresa e resilienza . Ma alla fine i soldi si trovano», continua Calcina, che segue comuni e amministrazioni in tutta Italia e che questo lavoro lo fa tutti i giorni.

«Spesso i soldi ci sono e semplicemente vengono usati per altro», dice Ruffino, «Oppure, visto che non ci si parla, non si fanno dei processi di concertazione strutturati e vengono buttati qua e là. Purtroppo in Italia c’è un approccio molto incrementale dettato magari da spinte minutissime, e che comporta una estrema frammentazione delle risorse. Lo vediamo in molti territori, partono molti progetti con magari poche risorse, ma nessuno si parla. Non si prende tempo, non si investe nel costruire progetti di territorio, fare reti».

Che i soldi ci siano lo dimostra anche un paradosso che emerge sistematicamente quando si scava nei problemi della mobilità nel nostro paese e che confermano tutte le persone che sono state interpellate per questo articolo. In Italia è politicamente più facile costruire grandi infrastrutture molto complesse a livello tecnico ed economico, mentre al contrario, quando si tratta di spendere molti meno soldi per delle infrastrutture ciclabili, che a livello economico e tecnico sono decisamente molto più semplici da affrontare, le migliori iniziative si schiantano contro la complessità politica di convincere tutti gli interessati.

La solitudine dell'ingegnere

«Quando lavoravo ad Amsterdam, il mio capo e i miei colleghi dei vari dipartimenti che si occupavano della pianificazione e della visione di città e delle infrastrutture tutto erano tranne che ingegneri. Erano filosofi, sociologi, geografi sociali, pianificatori. In Italia questo lavoro è ancora dominio dell’ingegnere, e questo credo che sia un problema», dice Paolo Ruffino.

«Non voglio certo dire che l’ingegnere non serve, ovviamente», puntualizza Ruffino, «ma l’ingegnere semplicemente è una figura che, per formazione, si occupa solo mettere a fuoco le esigenze tecniche ad una scala molto limitata di analisi, molto approfondita e molto di dettaglio, ma che spesso non è il modo giusto di affrontare queste cose. È una figura molto operativa, ma non ha competenze, esperienze e formazione per mettere al centro i comportamenti delle persone, ma nemmeno per lavorare alla comunicazione, alla costruzione dell’immaginario».

A lui fa eco anche Mariapaola Ritrovato, pianificatrice anch’essa nella squadra dell’azienda italolandese: «lasciamo tutto all’immaginazione degli ingegneri che, mancando di interdisciplinarità e di tutte le competenze che possono venire da sociologia, filosofia, urbanistica e altre discipline complementari, si perdono qualsiasi tipo di spinta e di idea innovativa e si resta alle rotonde».

L'ingegnere è una figura che si occupa solo di mettere a fuoco le esigenze tecniche ad una scala molto limitata di analisi, molto approfondita e molto di dettaglio, ma che spesso non è il modo giusto di affrontare queste cose
Rotonda vista dall'alto

C’è un altro problema che investe questa struttura decisionale conservativa: il periodo in cui lo Stato poteva permettersi di mobilitare autonomamente tutte le risorse necessarie e di prendersi la totale responsabilità di risolvere i problemi è finita. «Oggi le risorse non ce le ha più interamente l’amministrazione pubblica», dice Ruffino, «deve recuperarle tramite bandi, investimenti privati e altri fondi, e quindi hai proprio bisogno di figure di tanti tipi, c’è bisogno di manager che hanno competenze tecnico-politiche per mettere insieme stakeholder».

Soprattutto quando si devono eseguire transizioni radicali e veloci serve avere competenze diverse da quelle tecniche dell’ingegneria. Serve spostare lo sguardo, allargare la prospettiva e intervenire sull’immaginario con una visione strategica per superare l’ideologia del «si è sempre fatto così» e, urbanisticamente parlando, uscire dalla “condanna alle rotonde”, come potremmo chiamare la tendenza di cui parlava poco fa Mariapaola Ritrovato e che ha portato per anni le amministrazioni a risolvere ogni problema di mobilità con una rotonda.

Serve un cambio di passo.

Pianificare è un cambio di passo

«Sono nata nel nord Europa e sono arrivata a Prato da piccola: la bicicletta mi è rimasta nel sangue». Delle sue due radici, quella toscana e quella nordeuropea, dall’accento dell’Assessora alla Mobilità del comune di Prato, Flora Leoni, quella che si percepisce subito è la prima. La seconda, però, emerge in fretta dai suoi discorsi e dal suo approccio alla mobilità.

«Ho respirato bicicletta dal ventre materno», dice sorridendo, «mi sposto esclusivamente in bicicletta e quando ho delle esigenze diverse prendo i mezzi pubblici o mi organizzo il car sharing. L’uso del mezzo privato per me è più un’eccezione che una rarità».

L’assessora Flora Leoni è nata in Belgio, a Verviers, è assessora per la Mobilità del Comune di Prato e, tra i suoi incarichi, oltre alle deleghe alla polizia e alla sicurezza, ha anche quello di portare avanti i lavori previsti dal Pums, il Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile che Prato ha approvato nel giugno del 2017.

Il comune toscano è stato tra i primi in Italia ad adottare questo strumento strategico indicato dalla Direzione Generale per la Mobilità e i Trasporti della Commissione Europea fin dal 2014.

L’obiettivo delle indicazioni della Commissione Europea sulla carta era semplice: affrontare le urgenze e i bisogni di mobilità delle persone e delle imprese nelle aree urbane e peri-urbane per migliorare la qualità della vita nelle città. È guardando gli obiettivi specifici che si inizia a capire la portata di questo strumento, soprattutto se applicato in Italia:

  1. migliorare l’accessibilità per tutti, senza distinzioni di reddito o status sociale
  2. accrescere la qualità della vita e l’attrattività dell’ambiente urbano
  3. migliorare la sicurezza stradale e la salute pubblica
  4. ridurre l’inquinamento atmosferico e acustico, le emissioni di gas serra e il consumo di energia
  5. garantire la fattibilità economica, l’equità sociale e la qualità ambientale.

Il caso di Prato, entro il cui territorio si svilupperanno due dei dodici chilometri della prima superciclabile d’Italia, la Firenze-Prato, è interessante, perché, come racconta Leoni, «la città è naturalmente portata alla ciclabilità e ha una rete di piste ciclabili attive di decine di chilometri che però sono state pensate e realizzate in momenti diversi e con scopi diversi da quelli che dobbiamo perseguire oggi».

«La scelta di fondo di investire sulle ciclabili è molto profonda nella storia della nostra città», continua Leoni, «ma ha sempre sofferto il fatto di essere stata pensata con finalità ludico-sportive, per il tempo libero e per il turismo. Per questo tante delle nostre prime ciclabili corrono lungo il Bisenzio e tendono a collegare la parte nord della città alla parte est».

Il turismo, la ricreazione, il tempo libero. È questo il recinto entro il quale abbiamo rinchiuso per decenni l’uso della bicicletta in Italia. Un modo per infantilizzarla, marginalizzarla e controllarla? Forse. Difficile provarlo. Ma di sicuro è questa la cifra comune di gran parte delle opere progettate e finanziate negli ultimi decenni nel nostro paese.

«Questo è stato secondo me il vero cambio di passo, al di là del singolo progetto della Superciclabile Firenze-Prato in sè, che per Prato interessa per due chilometri, la rivoluzione è stata passare da una concezione delle aree ciclabili come legate esclusivamente allo sport, alla salute, al fitness e al tempo libero, a una concezione utilitaristica delle piste ciclabili, ovvero utilizzate per degli spostamenti funzionali casa-scuola, casa-lavoro. Per questo è sorta la necessità di connettere e cucire la rete di vecchi percorsi ciclabili».

Cartello pista ciclabile

«Rispetto a una realizzazione massiva di piste ciclabili a caso per rispondere a determinate situazioni, ora c’è l’esigenza di razionalizzare questa rete per consentirne l’utilizzo in maniera sistematica per gli spostamenti quotidiani. Per questo stiamo varando il Biciplan, in base a questo studio della situazione attuale identificheremo le connessioni necessarie per trasformarlo in una rete unica e sicura e i modi di finanziare questi lavori: dal Pnrr, ai fondi strutturali europei — il Fesr — fino a un mutuo speciale di circa sei milioni di euro che il comune ha stipulato a tasso zero per far fronte ai lavori».

 

Il cambio di passo imposto dal Pums è notevole, soprattutto perchè va a cambiare il meccanismo dei piccoli interventi disarticolati per scopi non utilitaristici, come quelli che hanno segnato la lunga storia di mobilità leggera di Prato di cui raccontava l’assessora Leoni, e lo trasforma in un meccanismo virtuoso, forzato positivamente dal Biciplan, di pianificazione, studio della situazione e coinvolgimento di tutti gli attori sul territorio per progettare per tutti e sul lungo periodo.

Anche Ruffino racconta la stessa cosa: «Se una città parte dal costruire una “semplice” pista ciclabile, il tipico intervento spot, lì cominciano i problemi. Perché questi — le ciclabili, i parchi, le panchine etc… — sono strumenti. Quello su cui bisogna lavorare, prima di usarli, è una visione condivisa di che cos’è la città dove vogliamo vivere. Quali sono le sfide in cui andremo incontro? Ormai viviamo un contesto in cui è necessario costruire una visione città di lungo termine, o quanto meno a medio-lungo termine».

Quello su cui bisogna lavorare, prima di usarli, è una visione condivisa di che cos'è la città dove vogliamo vivere.

Il Pums ha una prospettiva di anni. L’incarico dell’assessora Leoni scadrà naturalmente prima. Ma lei si dice assolutamente ottimista sul fatto che la parte di competenza del suo comune della Superciclabile Firenze-Prato la sua interconnessione con la Ciclovia del Sole e con l’intera rete preesistente su cui essa si innesta verrà realizzata nei tempi previsti. «E poi noi avremo una spinta ulteriore rispetto a questa propensione al cambiamento che in ogni caso dovrà essere in qualche modo forzata. E vedrà che tutta una serie di misure verranno adottate per forzare questo cambiamento, che chiaramente la transizione ecologica passa obbligatoriamente attraverso la mobilità sostenibile», conclude Leoni.

Si riferisce al fatto che Prato, insieme a Firenze, sono due delle nove città italiane che, insieme ad altre 91, faranno parte del gruppo delle 100 città simbolo in Europa che avranno come obiettivo la carbon neutrality entro il 2030. Tra il 2022 e il 2023, attraverso il programma Horizon Europe, a queste città sono stati messi a disposizione 360 milioni di euro destinati a percorsi di innovazione e di ricerca anche e soprattutto sulla mobilità, l’efficienza energetica e l’urbanistica verde. Una parte di questi fondi servirà a scoprire modelli che funzionano altrove, soprattutto nel Nord Europa, dove la pianificazione urbana per la mobilità sostenibile è avanti, e dove ci sono un sacco di progetti e buone pratiche da importare.

Tra questi progetti che vengono dal Nord, ci sono anche le superciclabili.

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Le superciclabili, un cambio di linguaggio e di visione

Superciclabile, in italiano, è una parola nuova. È una traduzione libera di alcune espressioni in inglese che indicavano una infrastruttura che in Italia sembra fantascienza, ma che nel Nord Europa, Paesi Bassi e Danimarca per primi, è prassi. Ed è da lì che viene l’idea.

«Stiamo parlando di ciclovie ad alta capacità e di altà qualità tecnica pensate per scopi sistematici e quotidiani su distanze di scala metropolitana»

spiega Paolo Ruffino, che nei Paesi Bassi si è formato e alle superciclabili ha lavorato proprio ad Amsterdam e si ricorda molto bene da dove viene questo termine, e perché.

«È nato cercando un modo accattivante di raccontare le reti ciclabili a scala metropolitana come reti del trasporto pubblico alternativo al trasporto privato e a quello su ferro o su gomma», racconta. E spiega che il motivo che li mosse a cercare un modo più “pop” di raccontarla era semplice: «guardando a come sono allocate le risorse, insieme a miei colleghi ci rendemmo conto che erano spesso dedicate alle grandi infrastrutture e che quello che restava per le “semplici” piste ciclabili erano le briciole».

Dal Nord Europa, questa idea delle superciclabili sta piano piano arrivando anche in Italia, e Paolo Ruffino, ovviamente, in questa importazione ha un ruolo. O meglio, ce l’ha Decisio, che è stata incaricata dalla Città Metropolitana di Milano di curare il biciplan, il piano di mobilità urbana sostenibile, a cui è stato dato un nome per niente casuale: Cambio.

«Si chiama Cambio per richiamare le marce della bici, certo, ma soprattutto per indicare la necessità di un cambio di mentalità. Perché per invogliare le persone che utilizzano l’automobile a passare all’uso della bicicletta occorre investire tanto in sensibilizzazione e provocare un vero cambio di mentalità». A parlare è Beatrice Uguccione, Vicepresidente del Consiglio Comunale di Milano e Delegata alla mobilità di Città Metropolitana di Milano.

«Nella fase della stesura del Pums, durante gli incontri con i 133 comuni e tutti gli stakeholder sono emerse in maniera molto chiara la necessità e la volontà di elaborare un piano di sistema sulla mobilità leggera e sostenibile», continua, «ed è proprio a questa necessità che è emersa la volontà di affidarci a Decisio, dei professionisti esterni alla amministrazione, per elaborare un piano che fosse strategico e coinvolgesse tutti, che avesse dietro la consapevolezza che la mobilità debba essere gestita su larga scala, e che non si può lasciare ai comuni».

Copertura: l’80% dei servizi di interesse si trova entro 1km da almeno una linea. Il territorio coperto è denso di scuole, imprese, ospedali, interscambi con il TPL.

Basta osservare la mappa di Cambio, che per qualche giorno, quando il progetto fu lanciato, fece il giro del mondo, per capire che l’intenzione c’è e la visione anche: 16 linee radiali, 4 circolari e quattro tangenziali per un totale di circa 750 chilometri di piste larghe 4 metri. Ma come e quando verrà realizzata? E con che soldi?

«Cambio ha una impostazione di tipo strategico e delinea ciò che la città metropolitana intende fare da qui al 2035 in fatto di mobilità», Maria Cristina Pinoschi, dirigente Città Metropolitana di Milano, è tra gli artefici del progetto Cambio ed è molto fiera del lavoro che la Città Metropolitana sta portando avanti.

«Una volta approvato da Consiglio Metropolitano si sono attivate tutta una serie di richieste di finanziamenti che hanno prodotto l’inizio della costruzione di alcune tratte. La prima, fatta con i soldi ministeriali è la Corelli-Idroscalo, alla quale seguiranno altre cinque tratte importanti che sono state finanziate dal Pnrr».

«Il Pnrr finanzia un centinaio di chilometri di questa superciclabile», racconta Maria Cristina Pinoschi, «in particolare attraverso su un bando di rigenerazione urbana, confidando quindi che queste risorse finiscano in un tipo di infrastruttura che può migliorare la qualità del territorio, dell’aria e di tutta LA comunità».

Il costo generale è stimato sui 450 milioni di euro. Una cifra enorme, giustificata sia dalla ampiezza del progetto sia dalla qualità tecnologica dei materiali che verranno usati. Ma soprattutto dalla sua finalità. Come nel caso di Prato, anche qui non si parla più di turismo e di tempo libero, si parla di logistica, transito di pendolari e percorsi casa-scuola e casa-lavoro. Sulle superciclabili si va in tanti e si va veloce e infatti l’obiettivo è spostare su bici e su traffico intermodale il 20 per cento del traffico veicolare.

A differenza della Firenze-Prato, che, secondo quanto riportato dal sito OpenCoesione, costa circa 10 milioni di euro (di cui metà circa, 5 milioni di euro, viene erogato dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione 2014-2020 e circa 700 mila euro dai Fesr, nell’ambito del Programma Operativo Regionale della Regione Toscana), il progetto della Città Metropolitana di Milano, per ora non si appoggia a fondi della politica di coesione europea.

«C’è anche un altro aspetto», aggiunge Beatrice Uguccione, «queste superciclabili verranno trattate esattamente come infrastrutture stradali, attingendo quindi alle stesse risorse di manutenzione delle strade per le automobili, cosa che di solito non succede». Si è alzata l’asticella, anche dal punto di vista dei finanziamenti ordinari, come può essere la manutenzione.

Che differenza fa la visione?

Se a Prato, come ha raccontato l’assessora Leoni, il Pums ha dato almeno l’occasione di cambiare l’approccio alla progettazione delle infrastrutture e cominciare a pensare più in grande, inserendo il progetto della superciclabile di dodici chilometri in una rete preesistente di ciclabilità turistica, a Milano il vantaggio di aver cominciato direttamente dal lavoro strategico ha facilitato le cose proprio per superare il problema della complessità politica, che a volte pare insuperabile.

«Le difficoltà che riscontriamo sono anche legate al fatto che c’è una parte politica sul territorio che per mobilità sostenibile intende altro rispetto alla mobilità ciclistica, e capita ancora di sentire proposte di enormi parcheggi», racconta l’assessora Leoni di Prato, «e determinate scelte di realizzazione di piste ciclabili incontrano delle forti difficoltà perché non sono condivise da tutte le parti politiche».

 

Anche nell’area della Città Metropolitana di Milano, naturalmente, ci sono differenze politiche tra le amministrazioni che fanno parte dei 133 comuni interessati dal progetto, ma anche grazie alla potenza della visione proposta da Cambio, «quasi tutti i comuni, a prescindere dal colore politico, stanno sottoscrivendo i protocolli per partire. Questo è un dato molto significativo. Anche perché con loro, in sinergia, realizzeremo quei tratti che congiungono la pista ciclabile del singolo comune con le linee della superciclabile», racconta la consigliera Uguccione.

La differenza di portata strategica che è stata imposta al progetto e che è passata anche dalla cura degli aspetti comunicativi degli studi di impatto e del rapporto costi/benefici, nel caso di Milano non sta solo aiutando a formare consenso tra i comuni interessati, ma anche a suscitare interesse in stakeholder che di solito non vengono attratti dalle ciclabili, dalle aziende del territorio alle grandi aziende di telecomunicazioni, che a Milano si stanno interessando e potrebbero investire per cofinanziare la realizzazione di alcune tratte.

Per ora, dell’immenso progetto Cambio esiste solo una parte della linea rosa, la sei, quella che unirà, attraverso la ciclabile di via Corelli, i quartieri Est di Milano con Segrate e Pioltello, e che poi proseguirà fino a Caravaggio, unendo 5 stazioni ferroviarie, 8 licei, 5 università e servendo un potenziale di circa 60mila pendolari. I lavori della prima parte, fino a Pioltello, sono in dirittura d’arrivo e la tratta verrà inaugurata il 2 luglio 2022.

È solo un piccolo tassello dell’immenso progetto Cambio. Il completamento dell’intera rete prenderà più di un decennio, ma sia l’amministrazione che la dirigenza della Città Metropolitana di Milano condividono ottimismo.

La mobilità si cambia dalla testa?

«A fine aprile con la Regione Puglia abbiamo portato i rappresentanti di dieci comuni pugliesi a vedere la velostazione di Utrecht, nei Paesi Bassi», racconta Roberta Calcina parlando di immaginario e rispondendo alla domanda su cosa significa anche solo poter portare le amministrazioni italiane a vedere cosa succede nel Nord Europa, dove quello che qui è fantascienza, è già realtà consolidata.

«Quando ci troviamo lì, rimangono talmente scioccati da una esperienza del genere che magari otto dicono “ok, non si può fare, è fantascienza, ciao”, ma spesso ce ne sono due a cui quell’esperienza rimane in testa e che alla fine vogliono portare qualcosa indietro, sperimentarlo qui da noi».

Quello che racconta Roberta Calcina è “solo” un viaggio studio per portare amministratori italiani a fare un giro di qualche giorno nel Nord Europa. Ma è uno di quei viaggi che possono cambiare tante cose, a cominciare dalla testa dei nostri amministratori. E dietro questi tour guidati ci sono i finanziamenti europei. In particolare, i viaggi di cui parla Roberta Calcina sono finanziati da Interreg Europe 2014-2020, un programma anch’esso finanziato dal Fesr. «È un programma molto poco costoso», racconta Calcina, «si parla in tutto di qualche centinaio di migliaia di euro e si riassume in tanti viaggi, ma sta dando ottimi risultati».

Interreg Europe include programmi di cooperazione transfrontaliera su tutti i confini interni ed esterni, una quindicina di transnazionali e due programmi interregionali, ovvero di cooperazione tra gli stati europei per scambiare conoscenza ed esperienze e livellare la qualità delle politiche locali. Ognuno di questi programmi ha una sua strategia, suoi obiettivi e dotazioni finanziarie, sue strutture di gestione.

«I progetti sono molto semplici», racconta sempre Roberta Calcina. «Si tratta di confrontarsi tra enti in paesi diversi per vedere come fa uno e come fa l’altro, definire una lista di buone pratiche tra i partner coinvolti e adottarle nelle politiche locali. Il confronto tematico che questi progetti permettono ha funzionato molto bene per il Comune di Olbia in Cyclewalk: dal primo viaggio studio ad Amsterdam, l’approccio di tecnici e politici è cambiato», aggiunge.

Olbia è diventato il primo comune 30 chilometri d’Italia

A differenza dei fondi Fesr investiti direttamente in infrastrutture, magari i malevoli diranno che programmi come questo sono solo un modo per pagarsi le vacanze, ma Calcina non ha dubbi: «questi progetti funzionano, perché portano queste persone a confrontarsi con delle cose che qui non abbiamo mai visto e che sembrano impossibili, ed è una cosa che ti cambia la testa. Tra quelli che ho seguito su progetti di questo tipo c’è stato il Comune di Olbia, dove ha sede la mia associazione, e ho visto quello che ha causato nella testa del sindaco. Abbiamo fatto insieme un viaggio e posso testimoniare che gli ha cambiato la vita. E infatti Olbia è diventato il primo comune 30 chilometri d’Italia».

«Confesso che non credevo che potesse avere un impatto così forte sul sindaco. Il giorno in cui siamo arrivati ad Amsterdam, per andare all’aeroporto il sindaco era seduto davanti e mi ha rivolto la parola solo per dirmi, sull’aereo, che lui l’inglese non lo parlava. Alla prima riunione di progetto non si è mosso per tutto il tempo. Le prime quattro ore ha ascoltato tutto. Le seconde quattro addirittura ha cominciato a parlare inglese. Poi abbiamo fatto tre giorni in bici, tutto il giorno, l’ho visto cambiare davanti ai miei occhi».

Per cambiare, insomma, serve generare la visione, ispirarla con le buone pratiche che già esistono, sostenerla con analisi costi-benefici che ne mettano in risalto la necessità, l’urgenza e la fattibilità, e infine comunicarle e coinvolgere territori, amministrazioni e cittadinanza. Non servono necessariamente tanti soldi, come diceva Paolo Ruffino. Servono il tempo e il lavoro necessario per generare una visione solida e credibile. E per diffonderla.

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