Ep. 05

Godere della scienza: un’intervista al Nobel Richard Roberts

Con Sir Richard J. Roberts abbiamo parlato dell’importanza di poter fare ricerca in modo libero e aperto per sconfiggere paure e dogmi anti-scientifici.

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È possibile fare, e parlare, di ricerca scientifica in Africa? Decisamente sì. Senza stereotipi.

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Diritti umani, sviluppo e scienza. Un trilemma che in realtà non ha alcuna ragione di esistere: non esiste sviluppo senza diritti umani e scienza, non esiste scienza senza diritti umani e sviluppo e non esistono diritti umani senza scienza e sviluppo. È quanto ha declinato Sir Richard J. Roberts, Premio Nobel per la Medicina con Philip Sharp nel 1993, nelle due lectio magistralis tenute ad Addis Abeba in occasione del VI Congresso Mondiale della Ricerca Scientifica organizzato dall’Associazione Luca Coscioni e da Science For Democracy e promosso dall’Unione Africana.

Con Sir Roberts, a margine del Congresso ma riprendendo ogni virgola da lui toccata durante i suoi discorsi, abbiamo parlato dell’importanza di poter fare ricerca in modo libero e aperto, di condivisione delle informazioni scientifiche per cercare di sconfiggere paure e dogmi anti-scientifici: una conversazione che si è facilmente allargata e nel corso della quale Sir Roberts ha smontato, con argomentazioni scientifiche ineludibili, diverse posizioni antiscientifiche. Ma perché è così importante la libertà di ricerca scientifica?

«Molte grandi scoperte sono state fatte fortuitamente, mentre si stava cercando altro, e ogni volta che viene effettuata una nuova scoperta di solito non ci sono implicazioni immediate. Le mie scoperte del 1977 hanno necessitato di anni per avere un’applicazione clinica e di solito ciò accade perché non è “la scoperta” che porta ad un’altra: è il lavoro che si svolge a farlo. Ci vuole tempo e in questo tempo è fondamentale comunicare con il mondo e con il resto della comunità scientifica».

Il mondo dell’editoria scientifica è un mondo piuttosto ristretto e di nicchia: pubblicare, oltre che difficoltoso per la profonda peer review (la revisione dello studio da parte degli esperti della rivista) cui viene sottoposta una ricerca, è spesso molto costoso. E se la scrupolosità della revisione è un passaggio obbligato e doveroso perché trattasi di materia scientifica meno obbligo è il costo di una pubblicazione, che può essere anche di migliaia di dollari. Significa che piccoli laboratori o ricercatori con pochi fondi per le pubblicazioni resteranno fuori dal mondo accademico “che conta”, anche perché dal punto di vista del prestigio percepito un conto è pubblicare in open-access e un conto è pubblicare su Nature. Inoltre tali riviste hanno un costo considerevole anche per il lettore, tendenzialmente un tecnico, il che limita il diffondere della conoscenza a coloro che possono permettersi di acquistarla. Sir Roberts, cosa ne pensa dell’open science, la condivisione aperta della ricerca in tutto il mondo così che tutti possano avere accesso a questo tipo di conoscenza?

«Penso sia un’ottima cosa. Sono da sempre un sostenitore di riviste ad accesso libero e di pubblicazioni ad accesso libero. Negli anni ’90 ho organizzato una campagna su questo: se non si ha libero accesso alla scienza significa che una grande parte della popolazione non potrà mai saperne di più sulle cose. Gli editori producono quei contenuti solo per soldi, possono pubblicare interi studi solo per soldi: questo è disgustoso. loro non pagano per i contenuti, anzi spesso vengono pagati, e si aspettano anche che tu lettore paghi per leggere. È follia. Io pubblico solo in open-access: un ricercatore può decidere dove pubblicare. Il problema per chi pubblica è che è meglio farlo su riviste a pagamento per ragioni di prestigio accademico».

In questo senso possiamo affermare che la ricerca scientifica non sia accessibile a tutti e tantomeno che tutti ne possano godere dei suoi benefici. La scienza è un prodotto di nicchia: in Italia ci sono uomini di scienza che sostengono che la questa non sia democratica e che ciò sia giusto. È vero è o è un problema di capacità di comunicazione?

«È un dato di fatto ma anche qualcosa che deve essere cambiata radicalmente: se la scienza è lontana dalle persone, e molti ne hanno persino paura, è anche colpa dell’inaccessibilità delle conoscenze. Questo è un problema ma un altro problema è sicuramente il modo in cui esponi ciò che conosci: se vuoi conversare con le persone e spiegare loro ciò che fai, ciò che sai, devi imparare a farlo. Devi usare un linguaggio comprensibile, non polarizzante, e non un linguaggio comprensibile solo da un altro scienziato o le persone perderanno interesse, smetteranno di ascoltare, penseranno che sei snob, elitario. E molti scienziati pensano di essere un’elite: questo sta diventando un problema».

È quindi controproducente dare dell’”asino” a chi non capisce?
«Banalmente, è solo questione di quanto sei bravo a comunicare. Sfortunatamente nella maggior parte dei sistemi educativi non insegnano ai bambini a comunicare in modo corretto. Io sono stato fortunato: sono andato a scuola in Inghilterra e dall’età di 6-7 anni siamo stati abituati a fare delle presentazioni di fronte alla classe, ricevendo critiche e suggerimenti da parte dei compagni, che lentamente mi hanno aiutato a migliorare. In Inghilterra quando studi materie scientifiche all’Università sei costretto a studiare anche discipline umanistiche, talmente tanto che non ti resta tempo per fare nemmeno una passeggiata. Si finiva per “fare scienza” dopo le lezioni perché era data fortissima enfasi alle discipline umanistiche. Al contrario chi studia in facoltà umanistiche non è detto debba studiare materie scientifiche e questo è veramente sciocco perché finisci che formi adulti, alcuni dei quali fanno carriera politica, che non hanno alcuna contezza della scienza. E anche quando parli con loro non capiscono la logica della scienza, non distinguono tra fatti e favole, non applicano il metodo scientifico».

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Foto di Andrea Spinelli Barrile

Eppure tutto è scienza: il registratore acceso che cattura le nostre voci, gli occhiali che entrambi indossiamo, l’aereo con il quale siamo arrivati ad Addis Abeba. Come possiamo declinare la scienza come un diritto umano per lo sviluppo?

«Se vuoi fare nuove scoperte, imparare qualcosa di più sulla vita o saperne di più sui materiali, sulla Terra, o su qualsiasi cosa, devi fare ricerca. E se questa ricerca è scientifica allora è quasi certo che farai nuove scoperte. Qualsiasi cosa tu scopra le persone saranno capaci di costruirci sopra altro e tu potrai costruirci sopra altro ancora: un modo per farlo è creare un’azienda e farci dei soldi all’interno di un sistema capitalistico, un’altro modo è usarla come base fare ulteriori ricerche. Così puoi continuare a scoprire sempre di più e anche usare questo come metodo per educare i bambini. I bambini sono scienziati naturali: amano fare scienza e allora il “fare scienza” può diventare, può essere un metodo educativo. E puoi trasformarlo in ricerca perché se si scelgono con attenzione i progetti si può cercare di scovare cose che nessuno ha mai visto prima. Si può fare anche solo con un computer: tutto il mio lavoro in questi giorni è svolto al computer, guardo sequenze di DNA e sequenze di proteine e cerco di capire cosa stanno facendo gli altri. E nel frattempo faccio scoperte. Si può anche leggere letteratura scientifica, perlomeno dove è possibile l’accesso libero, e provare a fare scoperte guardando le ricerche altrui e scovando cose mai viste prima. E poi a volte due cose si uniscono assieme e magari capisci perfettamente di cosa si tratta: è incredibilmente gratificante».

In questo momento storico gli europei stanno perdendo fiducia nella scienza, come anche nella politica e nei media. Associazioni no-vax, urne sempre più vuote, giornali che chiudono: tutti nella stessa barca. Perché sta succedendo?
«Per diverse ragioni. Di alcune abbiamo già discusso ma nel caso della scienza penso anche persone o a organizzazioni come Greenpeace, che raccontano bugie a proposito di diversi aspetti della scienza come gli Ogm. Fanno un gioco, ti mettono in cattiva luce sostenendo che hai detto cose sbagliate e le persone pensano che sei un ciarlatano. È facile perdere la fiducia in qualcuno che non ti dice la verità ma la maggior parte degli scienziati dice la verità. I fatti sono fatti e che ci crediate o no sono veri. […] Sugli Ogm avvengono molte elucubrazioni: le preoccupazioni della comunità internazionale e dell’opinione pubblica hanno aumentato la crescita del movimento antiscientifico ma i benefici della ricombinazione del Dna sono sotto gli occhi di tutti: l’insulina usata dai diabetici, ad esempio, è un Ogm ed è un farmaco salvavita. Credo che nessun attivista anti-Ogm farebbe mai una campagna contro l’insulina eppure le campagne anti-Ogm sono state fatte anche nei paesi in via di sviluppo e io lo trovo agghiacciante: è una forma di colonialismo».

Durante il Congresso Sir Roberts ha problematizzato molto il dibattito europeo sugli organismi geneticamente modificati e l’atteggiamento, anche comunicativo, del movimento anti-ogm: nonostante sia vietata la produzione in territorio europeo ogni anno in UE entrano circa 30 milioni di tonnellate di soia geneticamente modificata destinata all’alimentazione per animali da allevamento: «Come mai questi animali e chi ne consuma la carne non si ammalano?».

In Europa si dice tuttavia che sugli Ogm viene applicato un principio di precauzione.
«È qualcosa che non si dovrebbe applicare quando si parla di nuove tecnologie e della nascita di nuove tecnologie. Perchè questo principio non è stato utilizzato per i telefoni cellulari? I rischi a volte si corrono e va bene così, spesso si cerca una soluzione ancor prima di aver compreso il problema e invece dobbiamo sostenere la ricerca ad ogni livello, anche nei paesi con pochi fondi, dove però si possono trovare aree di nicchia in cui specializzarsi. Nel campo degli Ogm in Africa lavorano bravissimi scienziati che trovano, con la ricerca, nuove modalità per migliorare le colture delle grandi attività agroalimentari, creando opportunità che possono essere messe a disposizione anche dei piccoli agricoltori. Per questo non bisogna regolamentare per bloccare la ricerca: non è ragionevole».

C’è anche un discorso di monopolio del mercato delle sementi, interamente in mano a Monsanto. Anche questa è una forma di colonialismo, in un certo senso si possiedono le chiavi della dispensa, anzi dell’orto, dei paesi in via di sviluppo.
«Questo è un problema diverso che non riguarda la scienza ma l’accesso ai benefici della scoperte scientifiche. Anche io non sopporto e contesto il monopolio e il modo che ha Monsanto di commercializzare i suoi prodotti: è Satana, ha creato una strategia basata su un sistema costosissimo di brevetti, ma questo non ha nulla a che fare con la tecnologia degli organismi geneticamente modificati: ha a che fare con il capitalismo».

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Foto di Andrea Spinelli Barrile

Sir Roberts con i partecipanti del VI Congresso Mondiale della ricerca scientifica.

In realtà gli Ogm esistono da sempre. Da quando l’uomo ha piantato il primo seme nel primo orto della storia dell’umanità: la selezione delle piante, gli incroci, la contaminazione con altre specie sono pratiche millenarie; quello che è possibile fare oggi è accelerare questo processo, renderlo più preciso ed efficace affinché possa rispondere ad esigenze specifiche. Quali sono i benefici che gli Ogm possono portare in agricoltura e, quindi, a tavola?
«La prima medicina del mondo è il cibo e con gli Ogm si possono fare cose impossibili con l’agricoltura tradizionale. Pensiamo alla vitamina A: se c’è una carenza di vitamina A nei bambini si possono riscontrare problemi nello sviluppo del sistema immunitario e anche di perdita della vista. Nel mondo 1,5 milioni di bambini sotto ai 5 anni muoiono per patologie correlate alla carenza di vitamina A. Nel 1999 il beta-carotene, precursore della vitamina A, è stato inserito all’interno di un riso chiamato Golden Rice, sottoposto a brevetto gratuito ma che per il fatto di essere Ogm ha subito lo stigma e non è stato mai commercializzato. Questo è un crimine contro l’umanità». Nel dicembre 2019 il governo delle Filippine è stato il primo al mondo a permettere la commercializzazione e la produzione di Golden Rice, considerato sicuro. Ci sono voluti circa 20 anni. «Un altro esempio: le banane in Kenya e Uganda, fonte del 30% delle calorie consumate dalle persone in quei paesi. C’è stata anni fa un’epidemia di Xanthomonas, un batterio che mangia la pianta, e l’unico rimedio era spruzzare pesticidi: in Belgio hanno creato una varietà di banana resistente a questo batterio prendendo il gene da un peperone. In Kenya è andato tutto bene ma in Uganda il Presidente si è rifiutato di firmare una legge del Parlamento con le regolamentazioni per la sperimentazione. Gli attivisti anti-Ogm convinsero moglie e figlia del presidente, me lo disse l’allora primo ministro. C’è anche il caso del bruco del grano, che crea danni enormi: sarebbe facile da eliminare, negli USA hanno creato un grano Ogm con all’interno BT-Toxin, un pesticida nato dai batteri e innocuo per l’uomo. In Sudafrica ha funzionato. In Zimbabwe, erano i tempi di Mugabe, il governo ha stigmatizzato gli Ogm e la crisi agricola ha devastato le colture di grano: questo accade nei paesi in cui gli Ogm non sono consentiti».

Lo Zimbabwe, un tempo considerato “il granaio d’Africa” per la sua capacità produttiva agroalimentare vive negli ultimi anni una crisi alimentare profonda derivante da una pessima gestione dei terreni, dall’assenza di innovazione e dai cambiamenti climatici. Problemi cui le biotecnologie offrono diverse soluzioni. La lotta anti-Ogm è quindi conservatrice, di chi può andare tranquillamente al supermercato senza curarsi della catena di approvvigionamento del suo cibo?
«Per i paesi sviluppati in Europa e nordamerica il cibo non è un problema e si potrebbe tranquillamente scegliere se comprare o meno Ogm. A volte ci sono però dichiarazioni anti-Ogm molto dure, che vanno oltre l’Europa e che producono effetti in altri continenti».

La lotta anti-Ogm è legata a quella contro l’agricoltura intensiva, che ha un fondamento scientifico.
«L’agricoltura intensiva è arrivata prima degli organismi geneticamente modificati, è un problema diverso. In realtà le conseguenze economiche degli Ogm, intesi come tecnologia, sono maggiormente positive per chi ha meno e per le piccole colture. La lotta anti-Ogm è un prodotto dell’autoindulgenza del ricco occidente ma non funziona per i poveri che chiedono cibo».

Come si collegano i media con la scienza, nell’ottica di diffondere buona informazione?
«Bisogna fare due cose: la prima è convincere gli scienziati a passare al giornalismo, inteso anche come un’opzione valida di carriera. Penso di non averlo mai visto: quando parlo con degli studenti e chiedo loro “cosa pensate di fare?” rispondono “il docente universitario” e allora chiedo “se non ce la fai, che altro?”. Il giornalismo non viene mai fuori, eppure ce ne sono molti abbastanza bravi a parlare da poter fare giornalismo. Questo è un modo. Un altro modo è che i giornalisti interessati a un dato argomento passino del tempo con gli scienziati: si tratta di fare quel miglio in più per imparare abbastanza dalla scienza in modo da poter avere una conversazione intelligente. Se hai una buona comprensione di ciò di cui scrivi finisci per scrivere meglio».

Non crede che il tema “scienza” possa essere lontano dalle persone?
«Nel mondo 800 milioni di persone soffrono la fame. Non cercano scienza di punta ma semplicemente del cibo, che per molti è una vera e propria medicina. Il problema al limite è di “come” si parla di scienza. Io sono fortunato, da quando ho vinto il Nobel apro bocca e tutti mi danno retta: ho radunato 154 premi Nobel attorno ad un manifesto ma è vero che i mezzi con cui competiamo con i movimenti anti-ogm non sono paragonabili».

Come può la politica avvicinarsi alla scienza?
«In generale la politica non sa nulla di scienza ed è poco preparata in materie scientifiche, come sottolineava un senatore ivoriano durante il Congresso. Ma anche il modo in cui si diffondono le notizie deve essere accurato: se si trovano persone, sui media o in politica, che diffondono anti-scienza bisogna dirlo chiaramente. Penso che questo sia il modo di sbarazzarsi dei politici disonesti: chiamarli proprio così, “disonesti”, ogni volta che mentono».

La politica però è quella che finanzia la scienza.
«Sì e dovrebbe ascoltarci di più. Altrimenti perché ci finanziano?»

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