L’acciaio prodotto da DRI e idrogeno verde nei forni elettrici è l’obiettivo finale della strategia Ue per la decarbonizzazione del settore siderurgico, ma la strada è ancora lunghissima: oggi, l’acciaio verde viene fatto soltanto da progetti pilota con produzioni limitate, in particolare nel Nord della Svezia, dove c’è alta disponibilità di rinnovabili. Al 2030, il piano REPowerEU punta a rendere “verde” circa il 30% dell’acciaio primario.
Tutto questo va poi fatto mantenendo la competitività della siderurgia europea, già in crisi per il caro energia causato dalla guerra in Ucraina. È possibile? I problemi sono tanti e di varia natura, come emerso durante il convegno di Legambiente “L’acciaio oltre il carbone” a Taranto.
C’è intanto un tema di materie prime. Abbandonare gli altiforni per i forni elettrici richiede una crescita della domanda del materiale ferroso per gli impianti DRI e di rottame di acciaio, entrambi poco disponibili sul mercato. Vuol anche dire aumentare i consumi di gas, prima, e di energia rinnovabile, poi, con tutte le relative incognite legate ai costi. La filiera dell’idrogeno verde, su cui l’Europa sta comunque investendo molte risorse, è di fatto un mercato ancora da costruire.
La stessa Ue riconosce che i costi di produzione dell’acciaio da DRI e idrogeno verde potrebbero diventare competitivi soltanto intorno al 2050, quando, si presume, i costi delle rinnovabili saranno minori e produrre con fonti fossili non converrà più. A livello normativo, due misure dovrebbero aiutare il siderurgico in questo senso.
La prima è l’ETS (Emission Trading System), il sistema internazionale di scambio di quote di emissioni di CO2 tra le aziende più inquinanti: in pratica, gli impianti ETS, tra cui le acciaierie, possono acquistare o vendere quote per emettere tonnellate di CO2, mentre un tetto stabilisce la quantità massima di quote del sistema. Di anno in anno, il tetto del sistema scende e i prezzi delle quote di CO2 salgono, incentivando le aziende ad essere sempre più virtuose.
La seconda è il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), che consiste in una sovrattassa sulle importazioni europee dei beni realizzati con un’alta quota di CO2. Il regime definitivo del CBAM entrerà in vigore nel 2026, per bilanciare una nuova fase dell’ETS più ambiziosa e quindi più stringente per le aziende inquinanti. È una misura che tutela il mercato interno, togliendo il vantaggio all’acciaio più economico dei paesi extra Ue con politiche green meno rigide. Tuttavia, lascia aperto il problema degli export.
«Il CBAM protegge dalle importazioni, ma l’extra costo green delle acciaierie come potrà essere protetto dall’Unione Europea? In futuro, riusciremo ancora a esportare acciaio?» chiedeva durante il convegno Stefano Ferrari, responsabile dell’ufficio studi di Siderweb, quotidiano nazionale dedicato all’informazione economico-siderurgica.
Rispondere è prematuro, anche perché l’impianto di queste e altre misure del Green Deal rischia di essere rivisto dalla nuova maggioranza che si formerà dopo le elezioni europee.
Elezioni che saranno anche animate dal tema della falsa contrapposizione tra ambiente e lavoro. Falsa, appunto, almeno per il circa 95% degli occupati in Ue, cioè tutti quelli che non sono impiegati nei cosiddetti “lavori marroni”, più impattati dalla transizione. Ma chi lavora negli altiforni non è in quel 95%.