Ep. 01

Dalla scatoletta all’Honestly Good: perché rallentare anche in cucina (e come farlo)

«Fare la spesa capendo quello che compriamo, conoscere gli ingredienti, non avere paura di stare in cucina».

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Ormai è passato qualche tempo da quando il mondo – quantomeno quello occidentale – sembra essere stato travolto da una vera e propria mania per il cibo. Di cibo si parla ovunque: sui giornali, alla radio, in televisione. E anche gli scaffali delle librerie strabordano di volumi infarciti di ricette e consigli per un’alimentazione più sana, per un’alimentazione più sostenibile, per un’alimentazione a prova di linea e chi più ne ha più ne metta.

Da parte loro, lettori, ascoltatori e telespettatori non sembrano essersi lasciati travolgere passivamente da quest’onda di informazioni culinarie, anzi, sono in tanti a cercare di mettere in pratica quanto letto, visto o ascoltato fra le mura della propria cucina. Eppure non è passato nemmeno un secolo da quando prendersi cura dell’alimentazione della famiglia sembrava essere solamente una catena che legando la donna ai fornelli le impediva di realizzarsi appieno come individuo.

All’epoca a spezzare questo legaccio è stata l’industria alimentare, che fra scatolette e prodotti più o meno pronti per il consumo ha concesso alle donne più tempo per crearsi un ruolo lontano dal focolare. Alla luce del ritrovato successo dell’arte culinaria viene però da chiedersi se non abbia ragione chi ritiene che tra tutte le incombenze di cui poteva essere liberata una donna, cucinare non era forse la più odiata.

Il dubbio si è riacceso in me per l’ennesima volta quando mi sono trovata seduta in libreria ad ascoltar parlare del suo ultimo libro una delle food writer di maggior successo del momento, Csaba Dalla Zorza. Nota a molti per il suo lavoro in tv (non pochi i programmi che portano il suo nome, da «Summer Cooking con Csaba» per Real Time a «In cucina con Csaba» per Class Life solo per citarne alcuni) Csaba è oggi uno dei giudici dello show di La7 «Cuochi & Fiamme» e con «Honestly Good, un nuovo modo di cucinare, mangiare e stare bene» (Guido Tommasi Editore, 2017) ha tagliato il traguardo dei 16 libri di cucina pubblicati.

Quello descritto da Csaba è un vero e proprio approccio slow. «Il tempo in cucina non è perso, ma guadagnato per mente e salute», ha sottolineato durante l’incontro con i lettori. «Dobbiamo tornare a mangiare cibo vero, sano. Fare la spesa capendo quello che compriamo, conoscere gli ingredienti, non avere paura di stare in cucina. Io adoro stare nella mia cucina. Cucinare è diventato una cosa – forse dopo la prima ondata di femminismo – di serie b. Tante donne mi dicono: «Eh, ma poi lo devo fare io…». Ma io voglio farlo! Credo sia un compito della donna occuparsi della famiglia: per me è un gesto di amore intenso».

Intendiamoci: non che non sia vero che alcune donne non amano passare il tempo ai fornelli; come ha ad esempio sottolineato la stessa Csaba, «nel momento in cui lo ritieni un obbligo ti pesa». Non voglio nemmeno lasciar passare l’idea che le donne debbano trascorrere la vita rinchiuse tra le mura domestiche o che cucinare sia un’attività per sua natura femminile. Qui non si vogliono fare questioni di genere, che peraltro quando si tratta di cucina sarebbero smentite da verità storiche come l’identità dell’autore di quella che è considerata una pietra miliare fra le pubblicazioni sulla cucina, «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» di Pellegrino Artusi.

Piuttosto, mi sembra interessante riflettere su come si sia passati in un arco di tempo relativamente breve dall’idea che stare in cucina togliesse tempo ad attività migliori alla situazione totalmente opposta, in cui si giustifica il poco tempo dedicato alla propria alimentazione (e quindi a un aspetto fondamentale della propria salute e a un’attività – cucinare – da molti considerata piacevole se non addirittura rilassante) con il fatto di essere troppo impegnati a districarsi fra le altre incombenze quotidiane. Ma procediamo con ordine.

Di scatolette e fast food: così il cibo può diventare un nemico

Tutto sembra essere iniziato con la Seconda Guerra Mondiale, quando il ruolo della donna in ambito familiare è cambiato radicalmente. Caso emblematico è quello delle massaie americane che hanno dovuto reinventarsi come forza-lavoro per l’industria per sostituire gli uomini partiti per il fronte, riducendo drasticamente il tempo da dedicare alle attività domestiche e aumentando la richiesta di qualcuno che si occupasse di preparare il cibo al loro posto.

All’epoca gli alimenti in scatola esistevano già, ma erano consumati più dal ceto medio che dal proletariato. Fra i primi a promuoverne lo sviluppo c’è stato nientedimeno che Napoleone Bonaparte, che nel XIX secolo decise di premiare con 12 mila franchi Nicolas Appert, considerato il padre del cibo in scatola, per aver messo a punto la prima metodica per conservare gli alimenti in contenitori di vetro a chiusura ermetica.

È stato però l’inglese Peter Durand a scatenare la vera e propria rivoluzione ottenendo da Re Giorgio III il brevetto per conservare gli alimenti all’interno di lattine. Fu così che nel 1812 Bryan Donkin e John Hall poterono fondare la prima industria commerciale per la produzione di cibo in scatola, che dal 1813 fu finalmente a disposizione del pubblico. Fu però necessario aspettare l’invenzione dell’apriscatole (datata 1866) perché questo tipo di prodotti iniziassero a diffondersi anche in ambito domestico, anche se il loro sviluppo restò ancora a lungo associato alla stessa esigenza riscontrata da Napoleone: sfamare i soldati impegnati al fronte.

C’è chi sostiene che terminata la Seconda Guerra Mondiale questi stessi soldati ardessero dal desiderio di continuare a mangiare le prelibatezze inscatolate con cui si erano sfamati durante il conflitto. L’attuale fortuna del cibo in scatola sarebbe quindi dovuta all’irresistibile acquolina in bocca scatenata dall’idea di deliziarsi con del latte condensato o del prosciutto spalmabile.

D’altra parte, c’è anche chi sottolinea come convincere le massaie di avere bisogno di prodotti di questo tipo fosse la soluzione perfetta alla necessità di mantenere vivo e in salute un mercato che senza tutti quei soldati al fronte non avrebbe avuto modo di prosperare come sperato. Sarebbe stato così che, tra una campagna di marketing e l’altra, cibo pronto al consumo sempre più economico è entrato stabilmente a far parte dell’alimentazione quotidiana delle famiglie.

Nel frattempo la ristorazione pubblica ha vissuto un fenomeno analogo, complice l’intuizione di Richard e Maurice McDonald, che aprendo la loro prima tavola calda a San Bernardino, in California, hanno assunto nell’immaginario comune il ruolo di pionieri del fast food. Dick e Mac (questi i loro nomignoli) capirono quanto potesse fruttare produrre il cibo velocemente, venderlo a prezzi economici e spendere meno tempo e risorse nella ricerca di qualità sia negli ingredienti sia nel prodotto finale.

Oggi appare fuori da ogni dubbio quanto i fratelli McDonald siano riusciti a influenzare e ancora influenzino sia il settore della ristorazione sia le abitudini alimentari della popolazione mondiale. Tuttavia, il successo di pubblicazioni come quelle firmate da Csaba dimostra come la spinta verso un ritorno alle origini, l’interesse per gli ingredienti di qualità e il desiderio di dedicare alla propria alimentazione tutto il tempo che merita siano vivi più che mai.

La stessa Csaba riconosce come in questo momento la cucina sana sia una vera e propria moda. «Probabilmente ci sono dentro anch’io», ha ammesso, «ma ho cercato, come per la moda, di trovare il mio stile». Fortunatamente mode di questo tipo hanno risvolti positivi, prima di tutto perché la diffusione del cibo industriale e del fast food di scarsa qualità ha corrisposto al diffondersi di abitudini alimentari squilibrate non solo in termini nutrizionali ma anche energetici.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Alla ricerca della mediterraneità perduta

Da questo punto di vista guardare a quello che è successo in terra nostrana è probabilmente il miglior esempio possibile. Infatti benché nell’opinione pubblica sia piuttosto diffusa la tendenza a negarlo, oggi anche gli Italiani – un tempo malnutriti per carenza di cibo – devono fare seriamente i conti con i problemi derivanti da sovrappeso e obesità.

Secondo il rapporto «Osservasalute 2016» ben il 35,3% della popolazione adulta è in sovrappeso e il 9,8% è obeso, per un totale pari al 45,1% dei maggiorenni che convive con chili di troppo. La medaglia nera dell’obesità in età adulta spetta al Molise (14,1%), seguito dall’Abruzzo (12,7%) e dalla Puglia (12,3%), mentre il sovrappeso è più diffuso in Basilicata (39,9%), Campania (39,3%) e Sicilia (38,7%). Purtroppo nemmeno i bambini sono esenti dal problema. Secondo «Okkio alla Salute» – il sistema di sorveglianza sul sovrappeso e l’obesità nelle scuole primarie – il 21,3% dei ragazzi che frequentano la terza elementare è in sovrappeso e il 9,3% è obeso (con un 2,1% di bambini gravemente obesi).

La situazione è strettamente associata al consumo di prodotti alimentari densi di energia che vengono assunti in eccesso rispetto ai bisogni di individui che svolgono una vita perlopiù sedentaria e che avrebbero bisogno di fornire al proprio organismo molto meno benzina di quanta ne introducono con l’alimentazione quotidiana. Da questo punto di vista i cibi pronti al consumo possono rappresentare forti alleati di sovrappeso e obesità. Per rendersene conto basta pensare a quanto tempo bisognerebbe passare ai fornelli per poter ingerire tutti i nutrienti che si possono ingurgitare semplicemente riscaldando nel microonde un piatto pronto al consumo: di sicuro alla maggior parte delle persone – soprattutto a chi pensa che dedicare tempo alla preparazione dei propri pasti sia uno spreco di tempo altrimenti utile – passerebbe la voglia di mangiare un giorno lasagne e l’altro parmigiana di melanzane.

Eppure anche questi sono due piatti tipici della cucina italiana, che spesso identifichiamo con quella mediterraneità associata da Ancel Keys (padre dell’espressione «Dieta Mediterranea», utilizzata per descrivere lo stile di vita tipico della popolazione dell’italico Cilento) a una migliore salute cardiovascolare. Perché, allora, dovremmo convincerci che possono farci male? Perché spesso si tende a dimenticare che un ingrediente fondamentale della Dieta Mediterranea di cui parla Keys è la parsimonia.

In altre parole, per mangiare mediterraneo non bisogna mangiare troppo, e riservare piatti elaborati come una lasagna o una parmigiana ai giorni in cui si ha tempo per prepararli con le proprie mani anziché scaldarli nel forno aiuterebbe non solo a cucinarli con ingredienti di sicura qualità ma anche a non mangiarli troppo spesso.

Oggi, invece, l’industria alimentare permette di procurarsi cibo molto denso di energie semplicemente andando al supermercato dopo aver passato tutto il giorno seduti in ufficio, una situazione totalmente capovolta rispetto a quella osservata da Keys nel Cilento degli anni ’50 del secolo scorso, quando si mangiava quello che la terra metteva a disposizione in funzione delle stagioni (con parsimonia obbligatoria a causa della povertà) procurandoselo con il duro lavoro nei campi.

Insomma, mentre un tempo non c’era bisogno di pensare al bilancio tra le energie introdotte e quelle consumate perché la maggior parte della popolazione ne aveva a disposizione meno di quante ne bruciasse con il lavoro quotidiano, oggi dobbiamo stare attenti a non mangiare più di quanto dovuto o a trovare modi (come andare in palestra) per bruciare le energie che introduciamo ma di cui non avremmo bisogno.

Cibo vero cucinato in modo semplice e sano

Ma chi ha davvero voglia di sottoporsi a continue limitazioni o di passare tutto il tempo (che peraltro dichiara di non avere) in palestra? Fortunatamente una filosofia come quella riassunta da Csaba nel suo ultimo può aiutare ad evitarlo.

Intitolandolo «Honestly Good» («Onestamente Buono») Csaba ha sottolineato la volontà di racchiudere al suo interno ricette buone non solo per il palato ma anche per il corpo senza scadere nel messaggio che in cucina «salute» sia sinonimo di «privazione».

«Se ci imponiamo di essere molto rigidi con noi stessi inevitabilmente prima o poi cederemo, mentre se ci diamo delle regole più malleabili ce la faremo»
Csaba Dalla Zorza

«Mi serviva iniziare a creare ricette sia buone sia positive per il nostro corpo», ha raccontato. «Cibo vero cucinato in modo semplice e sano, una cosa sostenibile che desse la possibilità di cucinare in modo intelligente e sano utilizzando ingredienti che prima non c’erano, che arrivano da lontano».

Sì, perché riconoscere il buono nascosto dietro alle tradizioni non significa restare rigidamente ancorati al passato. «Mia nonna ragionava con: mangiare pesce una volta alla settimana, dolci nei giorni di festa, verdura alla base dell’alimentazione quotidiana. Oggi il punto di vista si può ampliare. La cucina tradizionale si può anche mantenere, ma la cucina è un settore come qualunque altro».

E così come moltissimi settori si sono evoluti alla luce del progresso, anche la cucina tradizionale può progredire. «Se oggi abbiamo capito, ad esempio, che le alghe fanno bene possiamo avvantaggiarci di questa conoscenza. Possiamo scegliere di comprare carne migliore». Il male di oggi è, invece, non ragionare sulle scelte che compiamo pur avendo gli strumenti per farlo. «Ho dato un elenco di ingredienti non perché li dobbiate comprare, ma per dare la possibilità di sfruttare il progresso. Provate a comprarvi un ortaggio che non avete mai comprato prima, variate!».

Sfogliando «Honestly Good» ci si può rendere conto di quanto una cucina buona per la salute possa essere anche bella, divertente e sfiziosa. Csaba ci ricorda come nemmeno lo street food debba essere messo al bando: anche in questo caso è una questione di scelte – negli ingredienti e nelle modalità di preparazione.
Certo, se non si ama passare del tempo in cucina è difficile rispecchiarsi in questa filosofia.

Ma a chi lamenta semplicemente di non avere tempo, Csaba ricorda che in realtà oggi di tempo dovremmo averne di più. «Mio nonno andava a lavorare a piedi. Mia nonna andava alla fonte a lavare i panni. Io per far andare la lavatrice devo solo schiacciare un bottone… Dovremmo avere più tempo: credo che ce lo siamo tolto da soli». Recuperarne anche solo una piccola parte per trascorrerlo a prendersi cura della propria alimentazione potrebbe essere una di quelle scelte ragionate che oggi, spesso, ci neghiamo quando ci convinciamo che correre incessantemente sia l’unico modo per raggiungere i nostri obiettivi. «Io non sono così. Fino a 35 anni ho corso, poi ho provato a rallentare e ho visto che chi ti supera ti supera perché sgomita, indipendentemente dalla velocità cui vai». E quando si tratta di cucina, la lentezza dovrebbe essere di regola. «Intanto perché mangiare veloce fa male alla salute. E poi perché ce la godiamo di più».

 

Le immagini, di Stefania Giorgi, sono tratte dal libro «Honestly Good, un nuovo modo di cucinare, mangiare e stare bene» (Guido Tommasi Editore, 2017) con concessione di Csaba Dalla Zorza.

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