Nel 1921 l’Italia, ancora in pieno dopoguerra, è una monarchia. Il re è Vittorio Emanuele III di Savoia. Il sindaco di Vicenza è Luigi Faccio, socialista, e la giunta è monocolore, di sinistra: nei primi due anni dopo la fine della guerra, i socialisti avevano acquisito consensi ovunque. Mussolini, che proviene pure lui dal partito socialista, non ha ancora fondato il partito fascista: lo farà a novembre di quell’anno e nel 1922 gli squadristi, con il golpe nero a Vicenza, si libereranno di Faccio: il “biennio rosso” aveva lasciato posto a quello che sarebbe diventato il ventennio nero. Teniamo a mente le alternanze politiche, perché ritorneranno spesso in questa storia. Prima del golpe, l’amministrazione comunale di Vicenza, insieme alla provincia, ha fatto in tempo a decidere la costruzione di un aeroporto per la città veneta. Il luogo scelto era quello in cui si trovava la piazza d’armi della città durante la prima guerra mondiale.
Tutto comincia con una pista in erba da 500 metri di lunghezza, per permettere i decolli e gli atterraggi del neonato Aeroclub, che è attivo ancora oggi (dal 1928, è intitolato a Ugo Capitanio, un pilota dell’aeronautica italiana morto in guerra nel 1918).
Quando il fascismo prende il potere in Italia, il riarmo muscolare diventa un fatto. Servono basi, hangar, torri di controllo. Molto presto l’aeroporto di Vicenza diventa appetibile per la Regia Aeronautica. Soprattutto, serve una pista in grado di ospitare manovre più ampie. Inaugurato ufficialmente nel 1930, l’aeroporto Tommaso Dal Molin (altro pilota dell’aeronautica, morto quell’anno in un incidente) diventa la base del 16º stormo bombardamento terrestre. La pista viene allungata a 1000 metri e l’erba non basta più: serve una pavimentazione nuova, in macadam, un precursore degli asfalti più moderni. Il Dal Molin è il secondo aeroporto in Italia ad avere una pista simile, dopo quello di Ciampino a Roma. E poi diventa il primo italiano a permettere decolli e atterraggi al buio, perché la pista viene illuminata.