Il grano della discordia

L’urgenza, la sfida di oggi, non è tanto quella di salvare il grano italiano e la pasta “Made in Italy” ma è mettere in piedi un altro tipo di agricoltura.

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Ancora una volta il grano torna al centro del dibattito pubblico. Pochi giorni fa la CIA Agricoltori Italiani, una delle maggiori associazioni di categoria, ha lanciato una lettera-petizione su Change.org per chiedere “la salvaguardia e la valorizzazione del grano e della pasta Made in Italy a tutela dei consumatori e dei produttori”.

Nella lettera, l’associazione scrive:

"Vogliamo che una pasta 100% Made in Italy sia veramente tale, senza possibilità di inganno. Chiediamo, attraverso questa petizione, di dar forza all’azione del governo per difendere il cibo italiano e salvaguardare la sovranità alimentare. Il grano duro è di gran lunga la prima coltura in Italia ed è alla base di prodotti simbolo del Made in Italy come il pane e la pasta"

Che cosa sta succedendo?

Se a maggio 2022, tre mesi dopo l’invasione dell’Ucraina, il frumento duro italiano veniva quotato tra i 530 e i 570 euro a tonnellata – a causa della guerra, del conseguente blocco dei cereali e di altre variabili- quest’anno il frumento è quotato tra i 340 e i 370 euro a tonnellata. Prezzi che secondo l’associazione di categoria non riuscirebbero a coprire i costi di produzione che si aggirerebbero attorno ai 1400€ per ettaro.

Ma perché il prezzo del frumento in Italia è crollato? La principale ragione è l’ingresso sul mercato europeo – e italiano – dei cereali scontati ucraini (e non solo) grazie alle cosiddette “solidarity lanes”, per il trasporto di prodotti da e verso l’Ucraina all’Europa.

A metà aprile, i governi di Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Romania, in seguito alle proteste degli agricoltori locali, hanno annunciato lo stop all’acquisto del grano importato e di prodotti oleosi provenienti dall’Ucraina. Dopo i divieti imposti dai Paesi dell’Europa dell’Est, la Commissione europea ha raggiunto un accordo per permettere il passaggio e l’ingresso nei rispettivi territori dei cereali ucraini, attualmente importati senza essere soggetti a dazi doganali nell’UE. Accordo che ha trovato lo scetticismo – se non proprio l’opposizione – di un ampio fronte di altri membri dell’Unione per una possibile violazione dell’integrità del mercato interno e disparità di trattamento.

Insomma, il grano è sempre più grano della discordia e se lo scorso anno sembrava mancare, quest’anno ce n’è troppo. Almeno per noi europei.

Torniamo in Italia: il nostro Paese è il primo produttore in Europa di grano duro ma al tempo stesso è anche il secondo importatore al mondo. Nel 2022, l’Italia ha importato 1.8 milioni di tonnellate di grano duro, principalmente dal Canada, Francia, Stati Uniti.

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Perché importiamo grano duro e anche tenero?

Perché serve all’industria di trasformazione, che non può vivere senza l’approvvigionamento estero dei cereali. La maggior parte della pasta è prodotta con semole importate ed è poi esportata con l’etichetta “Made in Italy”.

Se veramente si vogliono difendere le produzioni locali eccellenti, bisognerebbe forse usare meno la retorica del “Made in Italy” e supportare con etichette narranti trasparenti i produttori che veramente fanno grano di qualità in Italia.

E poi bisognerebbe incentivare i contratti di filiera tra agricoltori e industria. Insomma, la grande industria che esporta pasta con il brand “Made in Italy” e la Grande Distribuzione Organizzata che la distribuisce potrebbero (dovrebbero?) assumersi qualche responsabilità in più, stringendo patti e accordi di filiera seri, etici e sostenibili con chi produce il grano.

L’urgenza non è tanto quella di salvare il grano italiano – che si è svalutato quest’anno – e la pasta “Made in Italy” ma è mettere in piedi un altro tipo di agricoltura che distribuisca il giusto valore lungo tutta la filiera, dal produttore fino al cittadino-consumatore, affinché nasca e si sviluppi un patto di fiducia tra chi coltiva la terra, chi trasforma il prodotto e chi lo consuma.

In un clima sempre più instabile, avremo bisogno di un’agricoltura e di una filiera capaci di reggere le sfide del presente e del futuro.

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