La copertura negativa e stereotipata delle questioni che riguardano il continente africano costa all’Africa 4,2 miliardi di dollari l’anno.
Rana Plaza: abbiamo imparato ben poco
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24 aprile: sono passati dieci anni dal disastro del Rana Plaza, in cui oltre mille impiegati delle fabbriche tessili nell’edificio hanno perso la vita – e oltre 2.500 sono rimasti feriti.
Nel post che abbiamo fatto qualche giorno fa sui nostri canali social, commentavamo come tale avvenimento ci avesse costretti ad aprire gli occhi riguardo le condizioni spesso ai limiti della legalità e della dignità umana in cui lavorano gli impiegati di quello che, da noi, chiamiamo fast-fashion. O, almeno, questo era quello che sarebbe potuto succedere. E che, forse, non è successo: un comunicato stampa di Action Aid, con il quale viene presentato uno studio in materia effettuato da ActionAid Bangladesh (lo trovi qui), ci mostra come “la lezione” sia ben lontana dall’essere stata digerita e imparata.
Su 200 sopravvissuti, spiega il comunicato, il 54,5% è attualmente disoccupato, dei quali l’89% è rimasto senza lavoro negli ultimi 5-8 anni. Il 21% degli intervistati ha dichiarato di star tutt’ora facendo fatica a trovare un lavoro adeguato, soprattutto per le condizioni di salute fisica. Lesioni o dolori a mani e gambe, problemi agli occhi, problemi respiratori. Ugualmente drammatica è la situazione psicosociale: il 29% sta vivendo in condizioni che, anziché migliorare, peggiorano di anno in anno. Il 57,8% di questi vive nella paura per via dell’esperienza vissuta durante il crollo dell’edificio, e il 28,9% lamenta “forti preoccupazioni per la propria salute e sicurezza”.
Un avvenimento così grave e di tale portata avrà certamente portato a maggiori controlli e più interventi di manutenzione per rendere sicure le fabbriche. O, almeno, questo saremmo portati a pensare: il rapporto di ActionAid Bangladesh evidenzia come la strada sia ancora lunga.
Su 200 lavoratori attivi, il 93% ha espresso preoccupazione per la propria sicurezza sul posto di lavoro; il 60% ha evidenziato diversi rischi concreti presenti nelle fabbriche in cui lavora – scarsa manutenzione dei macchinari, ventilazione e illuminazioni inadeguate e così via, il 23,4% ha denunciato la mancanza di uscite di emergenza e il 19,9% ha riferito che le fabbriche in cui sono impiegati non dispongono di attrezzature antincendio.
Insomma: i costi del fast-fashion in termini di vite e dignità umana di chi è sul gradino più basso – e non solo – della filiera sono ancora ben lontani da poter essere definiti accettabili.
Se ti interessa questo tema, su Slow News ne abbiamo parlato in maniera approfondita nella serie di Anna Castiglioni Il Diavolo Veste Cheap.
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