Ep. 03

Il crollo di Wall street

«Ça avait débuté comme ça…», nella notte parigina, in un sottotetto al terzo piano di un palazzo anonimo al 98 di rue Lepic, a Montmartre, Louis Ferdinand Destouches rilegge febbrilmente un testo di una decina di pagine che ha buttato giù di getto qualche nottata prima, in gran segreto. È la notte del 28 ottobre del 1929 e sono ore che ci lavora.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

«Ça avait débuté comme ça…», nella notte parigina, in un sottotetto al terzo piano di un palazzo anonimo al 98 di rue Lepic, a Montmartre, Louis Ferdinand Destouches rilegge febbrilmente un testo di una decina di pagine che ha buttato giù di getto qualche nottata prima, in gran segreto. È la notte del 28 ottobre del 1929 e sono ore che ci lavora. Ormai si sono fatte le cinque e lui legge quasi in silenzio, muovendo soltanto le labbra leggermente. Ha bisogno di sentirlo, quel testo, perché deve suonare, deve avere ritmo, deve essere perfetto.

 

«Porca puttana… No cazzo, no… Non suona ancora… Non ci siamo, no…», sussurra prima di rileggere, ancora una volta, per capire dove esattamente quell’attacco non suona.

 

«Ça avait débuté comme ça… Ça avait débuté comme ça… Ça avait débuté comme ça…». Niente. Ancora non va. Ma ci penserà un’altra volta. Ora deve dormire almeno un paio d’ore, lo aspetta come sempre una giornata di visite ai poveracci di Clichy.

 

Circa un’ora dopo, nella sua stanza al numero 6 di rue du Pot de Fer, sempre a Parigi ma nel quartiere latino, anche Eric Blair si sveglia. Come tutte le mattine delle ultime settimane, ha una fame incredibile. Ha perso anche le ripetizioni di inglese che gli garantivano una quarantina di franchi alla settimana e non può chiedere altri soldi alla zia Nellie. Deve trovarsi un lavoro, pensa mentre si alza dal letto con i morsi della fame. Poi si veste ed esce. Va a cercare il suo amico Boris, un russo immanicato che gli può trovare un lavoretto. O almeno, questo è quello che spera.

 

Mentre a Parigi Orwell si sveglia e Céline si addormenta, Mohandas Karamchand Gandhi arriva a Meerut, nell’Uttar Pradesh. In India sono circa le undici e mezza del mattino e, ad accoglierlo al suo arrivo, Gandhi trova anche una lettera firmata da un giovane attivista inglese di nome Reginald Arthur Reynolds. L’inglese, che ha 24 anni e che è arrivato da poco in India, è ospite di Gandhi nel suo Ashram a Ahmedabad, nello Stato del Gujarat dove vive anche la moglie di Gandhi. Nonostante i toni di massima cordialità e di affetto che caratterizzano già la loro corrispondenza, i due non si sono ancora incontrati.

 

A Manhattan invece è appena passata la mezzanotte e Michael J. Meehan non riesce ancora ad addormentarsi. Di lavoro fa il trader a Wall Street e ha la fama di essere uno dei più scaltri. Per questo è nervoso: sono passati soltanto tre giorni dal crollo di giovedì e nonostante quasi tutti, persino gli analisti del New York Times, siano ottimisti per la riapertura della borsa, Meehan ha una pessima sensazione. Ha la sensazione che la promessa dei banchieri di difendere l’integrità di Wall Strett e mantenere i prezzi alti in caso di ulteriori ribassi sia in realtà soltanto un modo per prendere tempo.

 

«Che c’è tesoro, perché non dormi», gli fa la moglie Elizabeth, che nel frattempo si è svegliata.

 

«Sarà una carneficina Liz, sarà una fottuta carneficina», gli risponde secco. Poi si gira dall’altra parte, sbuffa e prova di nuovo a chiudere gli occhi, sperando di dormire. Ne avrà bisogno, perché non si sbaglia. Il giorno dopo ne scorrerà di sangue.

 

Mentre a New York sono le due del mattino e mancano ancora diverse ore all’apertura di Wall Street, nell’Uttar Pradesh è ora di pranzo e Gandhi è andato a trovare il suo amico Jivatram Bhagwandas Kripalani, detto Acharya, attivista socialista e segretario del Congresso indiano. I due stanno parlando a bassa voce, praticamente faccia contro faccia. Dai visi tesi si intuisce che l’argomento è pesante. Due sono le parole che ricorrono: Purna Swaraj. Indipendenza completa.

 

A Parigi, intanto, Eric Blair è già sveglio da quattro ore. Sono le dieci del mattino e lui è seduto su un marciapiede. Si ripara dalla pioggerella che cade sulla città mettendosi sotto un cornicione. Sta aspettando il suo amico russo, Boris, uno che ha quasi sempre un lavoro per le mani da offrirgli.

 

Quando il russo arriva, l’inglese si alza, si stringono la mano e cominciano a camminare per il quartiere latino.

 

«Dimmi, mon ami, hai delle opinioni politiche tu?», attacca il russo.

 

«No», risponde, leggermente spiazzato, l’inglese.

 

«Eh eh eh, manco io», continua il russo ridendo sguaiatamente, «Oh, naturalmente, chiunque è sempre un patriota, però, non era mica Mosé che parlava di sfruttare gli egiziani? L’avrai letta la bibbia, no? Sei inglese! Insomma, quel che voglio dire è: avresti qualche obiezione dal guadagnare soldi dai comunisti?».

 

Eric continua a essere un po’ perplesso, ma risponde di no, certo che no.

 

«Molto bene», fa il russo, «perché sembra che proprio qui a Parigi ci sia una associazione segreta russa che potrebbe farci comodo. Sono loro i comunisti, sono tutti agenti bolscevici. Fanno i gentili, restano in contatto con gli esuli russi e provano a convertirli. Un mio amico ci è andato. Secondo lui aiutano anche noi».

 

«E che cosa possono fare per noi? E poi, io non sono nemmeno russo, non mi aiuteranno».

 

«Ma va, che c’entra?», fa il russo agitando la mano in aria, poi continua, abbassando un filo la voce, come per non farsi sentire: «sembra che stiano cercando dei collaboratori per scrivere su un giornale russo di politica inglese. Magari se andiamo a trovarli li commissionano a te».

 

«A me? Ma io non ne so nulla di politica!»

 

«Merda! Ma nemmeno loro! Chi diavolo è che ci capisce qualcosa di politica? Ma è facile, tutto quel che devi fare è copiare quello che scrivono i giornali inglesi. A proposito, non c’è qui a Parigi il Daily Mail?», e mentre lo dice, Boris guarda negli occhi il suo amico, che fa cenno di sì con la testa. «Bene! Allora copia quello», fa Boris esplodendo in una risata.

 

«Boris», lo interrompe Eric, «ma il Daily Mail è un giornale conservatore! Quelli li odiano i comunisti!»

 

Boris si immobilizza, concentra per un istante lo sguardo al chilometro e poi gli si allarga in faccia un gran sorriso: «Ah ah, ma ancora meglio, se è così ti basta scrivere esattamente l’opposto di quello che dice il Daily Mail. Non ti puoi sbagliare. Dai, amico», conclude Boris prendendo Eric per le spalle, «Non possiamo buttare nel cesso questa opportunità, mon ami. Si parla di centinaia di franchi!»

 

Eric Arthur, che di articoli sui giornali qualcuno ne ha anche già pubblicato, per ora non dice nulla. Ma non accetterà. Per quanto ne sa, il giornalismo è tutt’altra cosa.

 

A New York è arrivato il mattino del 29 ottobre e nella casa del banchiere Doc Giannini, fondatore insieme al fratello della Bank of Italy, il telefono inizia a suonare alle 8 e 30 in punto. La voce che lo raggiunge un po’ disturbata è quella del fratello, Amadeo, che in quel momento è a San Francisco, dove sono ancora le cinque e mezza del mattino.

 

«Hai capito a che gioco stanno giocando, vero?», fa Amadeo al fratello, che ascolta in silenzio. «Se tutti vorranno vendere non interverranno».

 

«E noi, come ci comportiamo?», gli fa il fratello, la cui voce tradisce la tensione. Manca poco meno di un’ora all’apertura delle contrattazioni e lui se la sta letteralmente facendo sotto. Non è il solo.

 

Quando scoccano le nove e mezza del mattino, al numero 23 di Wall Street cominciano le contrattazioni. È come temeva Meehan: vendono tutti. La United States Steel apre 1 dollaro e un quarto sotto del prezzo di sabato, ma entro un’ora è già sotto i 200 dollari, un limite mai superato prima. Chi perde di più è General Electric, che apre addirittura a 7 dollari e mezzo meno del suo ultimo valore. Il numero di azioni che girano è pazzesco. Sono tante le vendite che le telescriventi non stanno dietro a tutti movimenti e accumulano ritardo. Il panico inizia a diffondersi. È un nuovo giovedì nero. Ed è solo lunedì.

 

Al Bistro du Maquis, al numero 69 di rue Caulaincourt, come tutti i santi giorni all’ora dell’aperitivo, il giovane pittore Jean d’Esparbès, mezzo anarchico mezzo bonapartista, arriva, si siede al solito tavolo e ordina un pastis. Inizia da solo, sfogliando un giornale, abbozzando qualcosa sul suo quaderno, leggendo qualche poesia. Poi, entro massimo una mezz’ora, arrivano anche i suoi amici. Arriva Gen Paul, un anarchico nato e cresciuto nel quartiere, le cui due passioni sono dipingere e bere, non necessariamente in quest’ordine. Arriva Pierre Pétrovitch, mezzo bulgaro mezzo serbo, anche lui dalle simpatie anarchiche; arriva Le Vigan, gran personaggione, ciarliero e sempre al centro dell’attenzione e poi, con più calma, verso le sei e mezza, arriva anche Louis Ferdinand Destouches. Si siede nell’ultima sedia libera del tavolo, saluta con un cenno e ordina una birra. Poi ascolta per un po’, ma oggi a differenza del solito non gli interessano le scenette di Vigan o le chiacchiere argute di Pétrovich. Sta pensando a quel dannato incipit.

 

Intanto che Céline sorseggia la sua bionda al Bistrot du Maquis, a Wall Street sono le 13 e succede una cosa che nessuno lì dentro ha mai visto prima: sono talmente tanti gli scambi di azioni che le telescriventi sono in ritardo nel registrarle di quasi un’ora e mezza. Improvvisamente si diffonde una voce tra i broker, confermata subito da Associated Press: è arrivato Charles Mitchell in persona, presidente della National City Bank. Si dice che Mitchell voglia usare i suoi fondi per cercare di frenare lo schianto e tenere i prezzi più alti possibile. L’aveva già fatto qualche mese prima, ma le dimensioni della crisi, ora, sono ben diverse. Difatti le voci si sbagliano, e di grosso. Mitchell si dirige subito negli uffici della J.P. Morgan and Company chiudendosi la porta alle spalle. Quando ne esce, venti minuti dopo circa, sfoggia un gran sorriso. Appena in sala si diffonde la voce di un Mitchell sorridente, il mercato rallenta, ma dura molto poco.

 

Alla stessa ora, nella sala degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio, a Roma, sotto un diluvio impressionante, iniziano i preparativi per l’inaugurazione dell’Accademia d’Italia. È una serata importante. È il settimo anniversario della Marcia su Roma, e Mussolini vuole che la serata sia perfetta. Tra il pubblico ci sono scrittori, artisti, intellettuali di ogni sorta, tutti vestiti a festa, in frac e cravatta. Qualcuno, come Filippo Tommaso Marinetti, uno che sembra nato per vivere al centro dell’attenzione, regge benissimo la situazione. Non si può dire la stessa cosa per tutti gli altri. In particolare c’è un uomo, un siciliano, che ha passato la sessantina e sembra parecchio in imbarazzo in quel contesto. È Luigi Pirandello e in realtà non gliene importa nulla di tutto quel bailamme. Tra pochi giorni a Torino andrà in scena la sua nuova commedia, finita di scrivere in primavera. Si intitola O di uno o di nessuno. Intorno a lui è pieno di gente importante e di valletti con curiose parrucche bianche e calzoncini corti. Sono attesi quasi tutti i ministri e funzionari fascisti: Bottai, Turati, De Vecchi, Grandi, Thaon de Revel, Giuriati. Arrivano uno a uno, alla spicciolata, e al contrario del vecchio Pirandello sorridono alla grande. A loro, del teatro, non interessa molto. Stanno aspettando soltanto il discorso del loro Duce, che arriverà tra un po’.

 

A Wall Street la campana suona la chiusura sono le quattro del pomeriggio di lunedì 28 ottobre. Durante il giorno sono state scambiate quasi dieci milioni di azioni, ovvero circa tre volte quelle che si scambiano in un giorno normale. Ma la notizia peggiore si legge sui nastri delle telescriventi: i prezzi sono crollati, praticamente di qualsiasi azione. È la perdita di prezzo più grossa dell’intera storia della borsa americana. Ma è un record destinato a durare il tempo di una notte, perché il giorno dopo le cose difficilmente andranno meglio. Lo pensa Meehan, lo pensa Giannini, lo sa benissimo anche Mitchell, e proprio in quel momento, negli ultimi piani della redazione del New York Times, a Times Square, Alexander Noyes, il più celebre e rispettato giornalista finanziario, sta iniziando a scrivere il suo pezzo. Tra le parole durissime che usa, le più frequenti sono Declino, Terrore Diffuso, Acuta Debolezza, Macello.

 

Mentre Noyes a Times Square pensa e scrive, Mussolini fa il suo ingresso trionfale al Campidoglio. Entra in scena insieme al principe Boncompagni Ludovisi, Governatore di Roma. Subito dietro c’è il senatore Tittoni, presidente dell’Accademia. Tutta la sala si alza in piedi, le braccia destre alzate all’unisono e le mani tese. Ad osservare la scena, ai margini, c’è il giornalista 33enne Giovanni Battista Angioletti, inviato de La Stampa che prende appunti sul suo taccuino: «Per la prima volta, nella storia della nuova Italia, lo Stato impersonificato nel Primo Ministro riconosce ed onora ufficialmente l’arte e la scienza…». In quel momento prende la parola il Governatore di Roma, per il discorso di rito. Angioletti cambia pagina del suo taccuino e inizia a scrivere parola per parola. Il direttore vuole un pezzo da quattro colonne. Con qualcosa lo dovrà pur riempire.

 

Quando Noyes ha finito sono arrivate le sei. Rilegge e manda in stampa. Poi torna a casa, molto preoccupato. Non tutti tornano a casa però. Molti trader, infatti, sono rimasti in Borsa a registrare le perdite. Dormiranno lì. A Parigi, intanto, dove è ormai si è fatta mezzanotte, anche Céline è tornato a casa, a Montmarte, ed è di nuovo al lavoro sul suo capolavoro segreto. Orwell, invece, che ancora non ha un lavoro, è sdraiato sul suo letto sfatto nel Quartiere Latino. Sta contando quanti franchi ha ancora da spendere quella settimana. Sono molto pochi.

 

«Eccellenza, Signore, Signori! Sono fiero di avere fondato l’Accademia d’Italia. Sono certo ch’essa sarà all’altezza del suo compito nei secoli e nei millenni della nostra storia. Sono lieto di inaugurare ufficialmente l’Accademia d’Italia nel simbolo del Littorio e ne nome Augusto del Re». Con queste parole, appuntate diligentemente da Angioletti, Mussolini finisce il suo discorso e partono gli applausi. Rapidamente la sala si svuota e artisti, ministri, invitati e militari escono, nella notte e nella pioggia.

 

A Parigi, intanto, è quasi l’alba. Céline si alza dalla scrivania dopo un’altra nottata di lavoro e guarda il quadro di Degas che ha appeso alla parete. C’è dipinta, a pastello, una ballerina che volteggia. La fissa, aggrotta le sopracciglia, poi scosta le scuri della finestra che dà su rue Girardon. Non c’è ancora luce, ma un po’ di chiaro si sta facendo strada da est. Da quel poco che si vede, la giornata è terrificante: un nubifragio. Sono lontane le notti in cui studiava medicina a Rennes e la figlia Colette, che oramai si è fatta quasi ragazzina, non piange più. Almeno, questo è quello che pensa Louis, che ormai non vive più con la madre di sua figlia. Ora vive con un’altra donna, una ballerina di cui è perdutamente innamorato. Si chiama Elizabeth, non assomiglia alla figura che balla nel quadro di Degas, ma è a lei che pensa mentre appoggia per un attimo la testa sui fogli e chiude gli occhi. «Solo un attimo», fa in tempo a pensare. Poi si addormenta.

 

A New York sono circa le cinque e mezzo del mattino quando W. E. Hutton, un giovane e sveglio trader, apre gli occhi, di colpo. È spaesato e ha un mal di schiena pazzesco. E si capisce, visto che non ha dormito in un letto, ma in una sala d’attesa di Wall Street, insieme a tanti altri come lui. A svegliarlo a quell’ora di notte e il ticchettio di una macchina telescrivente che batte le notizie del mattino. Hut, così lo chiamano i colleghi, cerca di trascinarsi verso la telescrivente, cerca di spegnerla per tornare a dormire, ma senza successo. Allora sbuffa e si adegua all’idea che la sua notte sia finita lì. Non può sapere, ma con la sua sveglia inizia ufficialmente il 29 ottobre del 1929 a Wall Street, il giorno in cui la bolla esplode. Mentre Hut si stiracchia e si mette a sedere, la telescrivente batte le notizie della giornata: a Roma Mussolini continua con i suoi proclami fascisti; a Londra il principe Edward ha deciso di cambiare casa e ha ordinato che tutti i vetri della York House, un’ala del St James’s Palace, vengano al più presto rimpiazzati da vetri speciali che trattengano i raggi UVA; a Tokio, l’imperatore Hirohito è scosso per la morte di un contadino, investito dalla sua carrozza; a Berlino, Hitler sta facendo propaganda anticomunista, a Mosca Stalin fa l’esatto contrario e Chiang Kai-Shek, a Shanghai, annuncia che non ci sarebbe mai arrivato, in Cina, il comunismo. Per quanto riguarda gli interni, nessuna notizia di quel che Hut ha visto accadere nelle ultime ore. L’unico accenno agli States è l’annuncio della presenza, prevista per il pomeriggio, del presidente degli Stati Uniti Hoover a un funerale. «Il funerale più importante che ci sarà oggi», pensa però Hutton ad alta voce, «si celebrerà qui a Wall Street».

 

A Parigi è quasi l’ora di pranzo, ma nel suo studiolo sgarruppato nei pressi di place de Clichy, il dottor Louis Ferdinand Destouches sta ricevendo i suoi pazienti. Sono quasi tutti dei poveracci, alcuni talmente in miseria da non avere soldi per pagarlo. Molti sono analfabeti, come la signora che in quel momento entra tossendo, praticamente rantolando, per farsi visitare dal dottore.

 

Il dottor Destouches la visita, le ausculta il torace, poi la schiena, le chiede quando ha cominciato a tossire. «Ah, bon monsieur… Alors, a commencé comme ça».

 

La signora non se ne può accorgere, ma lo sguardo del dottor Destouches per un attimo cambia, si vela, come se il cervello del dottore si fosse spostato per un secondo da un’altra parte. È vero. In quel momento, e per un solo istante, il dottor Destouches lascia il posto a Céline, lo scrittore, che ha appena risolto il dubbio che non lo faceva dormire. «Ça avait débuté comme ça suona di merda», pensa, «puttana troia, ma certo… cazzo è normale! Il passato semplice ci vuole!».

 

Mentre Céline visita i suoi pazienti, a New York arrivano le 9 e 30, l’orario di apertura di Wall Street. Di solito la partenza viene sancita dal suono di una campanella. Oggi quel suono, che pure c’è, non si sente. È coperto immediatamente dalle urla dei trader. «Sell! Sell! Sell!». È una catastrofe, come aveva previsto Hutton: vendono tutti.

 

Sono passate due ore dall’apertura della Borsa e cinque dall’intuizione di Louis Ferdinand Destouches quando il dottore, finalmente, rientra a casa, sale le scale e corre verso la sua stanza, al terzo piano di rue Lepic, proprio sotto la ballerina di Degas e la finestra che da su rue Girardon. Non saluta nemmeno Elizabeth, corre subito allo scrittoio. Prende in mano il primo foglio e inizia a leggere introducendo le modifiche direttamente: «Ça a débuté comme ça. Moi, j’avais jamais rien dit. Rien. C’est Arthur Ganate qui m’a fait parler. Arthur, un étudiant, un carabin lui aussi, un camarade. On se rencontre donc place Clichy. C’était après le déjeuner. Il veut me parler. Je l’écoute. “Restons pas dehors! qu’il me dit. Rentrons!” Je rentre avec lui. Voilà». Eccolo, l’incipit del suo viaggio al termine della notte. Louis Ferdinand sorride. Non gli capita spesso, ma in quel momento è felice. Non sa nulla di quel che è successo dall’altra parte dell’Atlantico, e in ogni caso gli importerebbe molto poco. Il dottor Destouches si trova molto meglio nei panni di Louis Ferdinand Céline.

 

Quello stesso pomeriggio, Céline non è l’unico a sorridere. Anche Eric Blair ha qualcosa di cui essere contento. Ha appena incontrato il suo amico Boris. Il russo lo stava cercando. Ci sono novità.

 

«Mon ami, mon cher ami, siamo salvi! Sai perché?»

 

«Di sicuro non hai trovato un lavoro!»

 

«E invece sì! All’Hôtel dietro Place de la Concorde. Sono cinquecento franchi al mese, ma soprattutto, si mangia da dio! Ci ho appena lavorato dall’alba. Cristo iddio, quanto ho mangiato»

 

Blair non sa se crederci. Poi però Boris apre un pacchetto di carta di giornale che aveva con sé. Dentro c’è del vitello speziato, un pezzo di Camembert, del pane e pure un pasticcino. Eric non aveva visto tante prelibatezze dall’ultimo Natale che aveva passato in famiglia, probabilmente, quasi dieci anni prima.

 

Mentre Eric Blair e il suo amico Boris ridono e mangiano felici e mentre Céline lavora febbrilmente al suo romanzo, dall’altra parte dell’Oceano in pochi hanno qualche motivo per non essere disperati.

 

Sono le 17 e 32 in punto, a New York, quando le telescriventi battono l’ultima quotazione. L’ultima scritta recita: TOTAL SALES TODAY 16,383,700. GOOD NIGHT. Ovviamente non è per niente una buona notte. 16 milioni di azioni scambiate, alcune di quelle ormai valgono meno della carta su cui sono state stampate, è una tragedia. In totale si stima una perdita del valore complessivo del 13 per cento netto. 10 miliardi di dollari bruciati. Più o meno il doppio dei soldi che sono in circolazione in tutti gli Stati Uniti quel giorno. Migliaia di americani, quella sera, andranno a letto senza più un dollaro.

 

In quel momento, il vecchio Bernard Baruch, uno dei più importanti investitori e speculatori di Wall Street, accompagna un amico venuto apposta dall’Inghilterra per vedere con i propri occhi la frenesia della borsa. È una persona importante, il suo amico. E ha investito anche dei soldi in Borsa, soldi che in quel momento sono andati in fumo. E ora l’inglese guarda pensieroso quella folla fatta di braccia, di gambe, di urla. Il nome del cittadino britannico è Winston Churchill e, se il suo amico lo aveva portato lì per impressionarlo, ci deve essere per forza riuscito.

 

***

 

Se ti è piaciuto questo racconto e vuoi saperne di più sul libro puoi andare a curiosare sulla pagina Facebook dedicata, o sul sito dell’editore. Lo puoi comprare nella tua libreria di fiducia (cosa che come Slow News consigliamo sempre, ma puoi anche ordinarlo online su Amazon o Ibs)

TAG:

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Altri articoli Cultura
Un'llustrazione dal libro Sunyata, generata da Francesco D'Isa con un'intelligenza artificiale Text To Image. L'immagine la sagoma di una ragazza all'interno di una chiesa allagata e penetrata da una luce rossa.

Sunyata

Il filosofo e artista digitale Francesco D’Isa presenta la graphic novel Sunyata, un viaggio onirico alla ricerca di sé illustrato con le intelligenze artificiali.