Ep. 06

Afro-Money for nothing

Secondo la filosofia Ubuntu, un’etica filosofica antica dell’Africa sub-sahariana, «io sono perché tu sei»: in lingua bantu ubuntu significa «benevolenza verso l’altro» e descrive in una parola una regola di vita basata sul rispetto e sulla compassione, nel senso più classico del «patire con».

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Immagina una moneta sovra e trans-nazionale, che non viene emessa e che non è controllabile direttamente dagli Stati che la utilizzano, che funziona così da più di 70 anni e che nessuno, in Europa, ha mai voluto mettere veramente in discussione. Non stiamo ovviamente parlando dell’Euro ma del Franco CFA [si legge sefàr, nda], il più pesante fardello post-coloniale sul groppone degli ex-possedimenti francesi in Africa occidentale, oggi nazioni. Per CFA si intende l’acronimo di Colonie Francesi d’Africa, modificato nel 1958 con un meno invasivo Franco della Comunità francese d’Africa.

Secondo la filosofia Ubuntu, un’etica filosofica antica dell’Africa sub-sahariana, «io sono perché tu sei»: in lingua bantu ubuntu significa «benevolenza verso l’altro» e descrive in una parola una regola di vita basata sul rispetto e sulla compassione, nel senso più classico del «patire con». Umuntu ngumuntu ngabantu dicono gli Zulu (letteralmente «una persona è persona tramite le altre persone») e lo stesso ripetono gli Shona migliaia di chilometri più a sud, munhu munhu nevanhu.

La filosofia Ubuntu ha liberato il Sud Africa dall’Apartheid e l’arcivescovo Desmond Tutu ne ha tratto ispirazione per la sua azione contro il regime razzista sudafricano. In Africa occidentale, nel cuore dell’Africa francofona, la filosofia Ubuntu rappresenta un legame tra le persone più solido di quello di cittadinanza: unione e condivisione nelle decisioni, orgoglio, dignità e rispetto, fratellanza, legami indissolubili, forti e morali che uniscono le comunità molto oltre un passaporto e un luogo di nascita. Molto oltre il senso di «nazionalità» e di «patriottismo» c’è il senso di fratellanza che insegna l’Ubuntu.

In Africa, laddove la coscienza nazionale ha tardato ad affermarsi in favore di un’identità più personale, la crisi degli anni Trenta del Novecento fu decisiva nello sviluppo dei nazionalismi. Appena una manciata di anni dopo, al termine della Seconda Guerra Mondiale, una generazione di leader neri formatisi in occidente, o dall’occidente come l’ugandese Idi Amin Dada, cercò la rivalsa contro le potenze coloniali che sfruttavano uomini e risorse da 400 anni.

Questi leader seppero aizzare le masse popolari africane per rivendicare l’indipendenza ritorcendo contro i coloni ogni principio di democrazia che avevano appreso. Ci vollero pochi anni per trovare nel nazionalismo, un sentimento inesistente fino ad allora nelle popolazioni africane che dalla fine del primo conflitto vivevano in territori spartiti con squadra e compasso tra francesi e inglesi, una nuova strada per la riappropriazione dell’identità africana.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
@ Wikimedia Common

Nel 1957 ebbe inizio la decolonizzazione dell’Africa nera, dopo l’indipendenza ottenuta dai protettorati francesi nel nord del continente. Il 6 marzo la Costa d’Oro, fiore all’occhiello dell’Impero britannico in Africa, scelse di tornare alle origini e chiamarsi Ghana (uno dei più grandi imperi della storia d’Africa, a dir la verità leggermente più a nord dell’attuale nazione) e il primo presidente africano fu Kwame Nkrumah, che vedeva nel nome Ghana «un’ispirazione per il futuro». L’anno dopo fu la Guinea a dichiararsi indipendente, aprendo la strada alla decolonizzazione dell’Africa francofona.

La prima fase della decolonizzazione, tra il 1957 e il 1960, vide l’indipendenza di 12 ex-colonie, quasi tutte francofone, e fece ben sperare il resto del mondo: le tante nuove nazioni negoziarono la propria indipendenza, che avvenne perlopiù in modo pacifico. Le colonie francesi in realtà già avevano tra loro un legame economico forte: il Franco CFA. Con la ratifica degli accordi di Bretton Woods nel dicembre 1945 la Francia creò il Franco CFP ed oggi questa moneta è utilizzata in 14 diversi Paesi africani con due nomi distinti, perché emessi da due istituti differenti: la BEAC (Banca Centrale degli Stati dell’Africa Centrale) e la BCEAO (Banca Centrale degli Stati dell’Africa dell’Ovest) che emettono valute non intercambiabili.

Il Tesoro francese, grazie ai fondi sovrani dei Paesi dell’area francofona che vi sono depositati per almeno il 65%, garantisce per tutti: il cambio fissato alla divisa europea, la piena convertibilità, la «partecipazione nella definizione della politica monetaria africana».

Il Franco resiste all’ondata di indipendenze, ad esclusione di Guinea (1960), Mali (1962), Mauritania e Madagascar (1973). Nel 1984 la crisi economica porterà il Mali a decidere di tornare al Franco CFA, nel 1985 la Guinea Equatoriale, ex-colonia spagnola, e nel 1997 la Guinea-Bissau, ex-colonia portoghese, di aggregarono alla «moneta unica».

Se da un lato l’adozione del Franco CFA da parte di questi paesi africani concede loro una credibilità internazionale che altrimenti mancherebbe dall’altro il tasso di cambio svantaggioso poco incoraggia la competitività perché è impossibile, per le autorità locali, autorizzare politiche di svalutazione economica e, più in generale, applicare qualsiasi politica economica che incida realmente sulla vita delle persone.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
© WikiMedia Commons

Il problema non è solo a nord del Mediterraneo ma anche nei consigli di amministrazione delle banche africane, dove siede quasi sempre un francese con diritto di veto. E poi nei mercati e nei negozi, alle frontiere e nei porti di tutta l’Africa occidentale, dove il Franco CFA è sì «moneta unica» ma non è possibile pagare in zona BEAC con quelli emessi in zona BCEAO, e viceversa. E questo esemplifica solo una lunga serie di problemi pratici.

Kako Nubukpo è un cinquantenne economista togolese che ha studiato all’Università di Strasburgo, ex-ministro in Togo ed ex-direttore della Francofonia economica e digitale all’Organizzazione Internazionale della Francofonia (istituzione internazionale i cui membri condividono la comune lingua francese), incarico ritiratogli nel dicembre 2017 dopo che Nubukpo ha espresso le sue posizioni critiche verso il Franco CFA. Secondo l’economista togolese il primo obiettivo per le economie africane è la diversificazione economica, sono troppe le economie dipendenti in larga parte o in toto dal petrolio e dal gas, ma questa è impossibile senza competitività, frenata dal fardello chiamato Franco CFA.

Il modello, nemmeno a farlo apposta, è l’Asia: «I Paesi asiatici, che rappresentano il nostro modello in questo senso, hanno perlopiù monete deboli, cosa che rappresenta un incentivo alla produzione locale, perché le importazioni sarebbero più care, e incentiva le esportazioni. Una moneta forte, se non ti chiami Germania, scoraggia le esportazioni» ha dichiarato tempo fa Nubukpo inimicandosi buona parte del mondo bancario africano e francese.

Il franco-beninese Kemi Seba, nome che in Italia dice poco ma che era in Italia per due incontri sabato e domenica 14 e 15 luglio, attivista politico del radicalismo nero e del neo-panafricanismo, ex-membro della Nation of Islam francese, batte da anni su questo tasto: la sua dialettica, simile e opposta a quella di un Matteo Salvini o di una Marine Le Pen, si riassume nella contrarietà alla «servitù monetaria» e si declina con accuse forti, che gli sono costate il carcere in terra di Francia, ai governi e alle banche centrali africane, che secondo lui rifiutano il dibattito sul futuro del Franco CFA.

«La Francia non è il padrone» ha dichiarato il Presidente francese Emmanuel Macron all’Università di Ouagadougou quando andò in visita in Burkina Faso nel dicembre 2017: «è il garante. Se si vogliono cambiare le regole e ampliarlo io sono favorevole. Se si vuole rimuovere questa garanzia di stabilità regionale penso che siano loro a decidere, quindi sono favorevole anche in questo caso». Le parole di Macron alle orecchie di un italiano suonano come un chiaro avvertimento intimidatorio, il più classico dei «fa come ti pare ma ricordati che qui comando io».

Macron si è sempre detto aperto ad una riforma del Franco CFA e, proprio per questo, ha visitato anche la Nigeria: espandere il perimetro dell’operatività del Franco in tutti i Paesi ECOWAS (compresi quindi Nigeria e Ghana) è un possibile obiettivo dell’Eliseo. Il Presidente nigeriano Buhari si è sempre detto contrario ma Macron, che è uomo intelligente e politicamente sagace, facendosi fotografare nel Fela Kuti’s Shrine New Afrika Shine di Lagos accanto al figlio di Fela Kuti, artista che in Nigeria vale quanto una divinità, gioca bene le sue carte e le elezioni nigeriane sono vicine.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
© WikiMedia Commons

La questione della «sovranità monetaria» africana è quindi spinosa e ricca di insidie. È vero che nel mercato delle commodities il Franco CFA rappresenta un tetto difficilmente superabile per i governi africani, oltre che un elemento di chiara ingerenza economica, e non è un aspetto da sottovalutare soprattutto qui in Europa, dove la posizione francese rispetto alla sovranità economica dei paesi dell’Africa occidentale andrebbe quantomeno discussa a livello politico. Non esiste una discussione pubblica presso nessuna autorità europea, politica o economica, che voglia provare a uscire da questo imbarazzo: può un Paese membro di un sistema economico che adotta una moneta unica avere un peso così schiacciante su economie estere extra-continentali?

È anche vero però che non esiste oggi una soluzione alternativa al Franco CFA, su nessun tavolo e in nessun consesso africano con un minimo di potere. Ed è bene anche ricordare che gli esempi negativi di gestione della propria moneta, in Africa, si sprecano: 100 miliardi di dollari dello Zimbabwe valgono oggi circa 28 centesimi di euro.

TAG:

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Altri articoli Ambiente
Un magazzino di un’azienda che smista rifiuti tessili - Foto: Corertrex

Riciclare questi vestiti è difficile

A Prato, sono secoli che la lana viene riciclata. Ma la città toscana è un’eccezione. I vestiti della fast fashion sono di scarso valore e di complessa lavorazione. Così l’Ue punta su nuove norme per far crescere un settore cruciale