Basta agitare una mano, ruotandola sul polso come se volessi salutare qualcuno o avvitare un pomello, con il gomito piegato a novanta gradi. Non serve sbracciarsi né urlare per richiamare la loro attenzione. Dallo sciame di sferraglianti mezzi gommati gialli, coperti da teli di plastica coloratissimi, esce sempre qualche Apecar, a volte già carico di persone, pronto a fermarsi per farti saltare su. L’odore di gas di scarico, il rumore delle marce che si inseriscono, che salgono, che scalano, i clacson penetranti e il rombo dei motori sembrano quasi svanire non appena ci si siede sul sedile posteriore del mezzo.
«Vai a Congo Town?»
«No amico, Congo Town è troppo lontana. Scendi, ti conviene prendere una moto»
«Ma sta per piovere!»
«Amico, Congo Town è troppo lontana».
La prima volta che un kékeh ti tradisce è una vera delusione. Lo scegli perché è economico. Perché mentre sei su tra uno scossone e l’altro riesci a mandare qualche messaggio e se sei fortunato a telefonare. Sicuramente, se ne hai voglia, è uno dei luoghi migliori della città per chiacchierare, scambiarsi opinioni, conoscere gente. E poi se piove, e a Monrovia a giugno piove spesso e in abbondanza, per arrivare asciutti a destinazione basta tirare giù il telo di plastica e sopportare per un po’ l’effetto serra che si crea all’interno. Per questo quando il kékeh ti tradisce ci resti male.
Tubman Boulevard è una polverosa e lunghissima strada a quattro corsie, due a scendere e due a salire. Niente spartitraffico, niente marciapiedi, niente guard-rail, solo una lingua di asfalto assolata che come un serpente nero giace sulla terra ocra. Le due linee gialle al centro che delimitano le carreggiate non sono segnaletica stradale ma una generica indicazione. Durante le ore di punta, quando Tubman Boulevard si congestiona, centinaia di moto, biciclette, pedoni sfrecciano da una parte all’altra come attraversando un fiume di ferro rovente. Decine di venditori di tergicristalli, sapone, carta igienica, penne, braccialetti affollano la strada cercando di richiamare la tua attenzione. Basta agitare una mano, ruotandola sul polso. Altri emettono dei versi che somigliano a dei baci, schioccati a centinaia di decibel. Assordanti. Provo a farlo e una moto che andava dritta per la sua strada sgomma e si ferma di fianco a me. «Sali Capo» dice il pilota mentre il secondo passeggero, un uomo vestito come un impiegato della Megaditta di Fantozzi, gli si stringe addosso per fare spazio sulla lunga sella nera ricoperta di plastica. Nessuno di noi tre indossa il casco.
«Vai a Congo Town?»
«No ma ti ci porto lo stesso»
«Tra poco inizia a piovere»
«Arriveremo prima, Capo»
In cinque minuti, superando il traffico con uno zig-zag tra le auto incuranti del senso di marcia, siamo di fronte a un portone di legno massiccio e scuro con bellissimi bassorilievi asiatici. È il cancello dell’Ambasciata Cinese nella Repubblica di Liberia. Monrovia, zona di Congo Town. La corsa è costata 1 dollaro americano.
L’appuntamento è lì vicino, sono in anticipo.