Come si trasforma un medico in un’attivista per i diritti umani?
«Il medico che ero era obbligato a osservare le violazioni dei diritti umani. Ho iniziato a prendermi cura delle prime vittime di stupro nel 1999 e circa 10 anni dopo ho visto che il numero non smetteva di crescere ed ho iniziato a curare la seconda generazione di vittime. Poi è arrivata la terza generazione e ho capito che non potevo medicare solo le conseguenze dello stupro, ho capito che quello che si doveva fare era essere sopratutto la voce di queste vittime, denunciare al mondo e difendere i diritti di queste persone. Penso che sia stato un passaggio forzato, dovuto alla situazione catastrofica in cui versavano le vittime degli stupri di guerra».
Ha sempre denunciato la violenza sessuale e lo stupro come arma di guerra. In che modo lo stupro può diventare tale?
«Credo che quando abbiamo visto il primo caso non potessimo immaginare ciò che accadeva, pensavamo fosse qualcosa di accidentale. Dopo aver osservato la situazione più da vicino e con maggior approfondimento ci siamo accorti che lo stupro era compiuto sulle popolazioni di un preciso luogo, villaggio o comunità, sempre in modo sistematico. Erano stupri metodici, lo stesso gruppo faceva la stessa cosa sulle donne: le ferite loro inferte erano sempre dello stesso tipo, c’era un metodo. C’è un metodo. E poi erano massivi: le donne di interi villaggi, anche 300 persone, potevano essere violentate tutte nella stessa notte».
Come cambia una società quando subisce tali orrori?
«Questi stupri vengono commessi pubblicamente, per mostrare a tutto il mondo ciò che si è capaci di fare e la forza che si ha rispetto colui che viene considerato un nemico, e sono allora un’arma assoluta. Quando le violenze vengono commesse in questo modo si distruggono le donne e farlo significa distruggere le generazioni a venire. Destabilizzare la popolazione sul piano mentale significa metterla in una situazione in cui non può più resistere perché si sente svilita: violentare tua moglie o tua figlia in tua presenza è come dirti che non sei un uomo, che non vali niente.
Lo stupro, oggi, è l’arma da guerra per eccellenza: è stato utilizzato nel conflitto siriano, lo si vede in quello iracheno da parte di Daesh, che ha ampiamente utilizzato quest’arma contro le donne yazide semplicemente per diminuirne la popolazione. E più vicino a voi c’è la Bosnia, dove lo stupro è stato ampiamente utilizzato per diminuire il numero dell’altra comunità».
I figli di questi stupri come si inseriscono nella società in Congo?
«Anche questo credo faccia parte di quest’arma di guerra: una volta che si mettono incinte delle donne queste sono le donne del nemico e hanno dei bambini, che nascono nella comunità ma diventano i bambini del nemico. Non sono amati, non ricevono affetto, vengono rifiutati e il risultato è che sono bambini respinti, la società non li accetta. È un problema che abbiamo iniziato solo adesso a gestire, molto complesso da risolvere perché ci sono migliaia di bambini che non hanno alcuna appartenenza alla comunità, nessun ruolo all’interno di questa. Per questo lo stupro viene fatto apposta, per destabilizzare le comunità».
L’agenda del dottor Mukwege è pienissima, anche quando viaggia. Nel 2014, dopo essere stato candidato al Nobel per la Pace, è stato insignito del Premio Sakharov per la libertà di pensiero e per questo è richiestissimo in tutto il mondo: Slow News lo ha incontrato a Roma grazie all’interessamento dei giovani della diaspora congolese in Italia, che ci hanno aiutato ad organizzare l’intervista nella fittissima agenda del medico africano.
Nel 2004 il dott. Mukwege ed il suo staff hanno curato (c’è chi dice «riparato») al Panzi Hospital ben 4.000 donne, un numero grandissimo ma che non rappresenta la totalità degli stupri di guerra commessi nella Repubblica Democratica del Congo. Oggi al Panzi si curano circa 1.800 donne ogni anno, un numero rassicurante rispetto qualche anno fa ma altrettanto impressionante.