Ep. 07

Lo sbarco sulla luna (1969)

A Londra sono le quattro e mezza del pomeriggio. Stanley Kubrick sta lavorando sodo. Ama avere tutto sotto controllo. Per questo scrive il soggetto, la sceneggiatura, dirige, monta e si preoccupa perfino della fase di lancio di tutti i suoi film.

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Sulla strada tra Montargis e Créteil, a una cinquantina di chilometri a sud di Parigi il 29enne Jean-Pierre Genet sta pedalando in testa a un folto gruppo di ciclisti. È quasi mezzogiorno e, subito dopo una curva, il francese si volta per un istante. Poi, senza pensarci su troppo, fa un respiro profondo e sale sui pedali. In pochi secondi lascia una decina di metri tra lui e il gruppo, ma non se ne va da solo. Lo seguono in sei, due olandesi, un austriaco, un altro francese e due belgi. Questi ultimi sono li per conto del loro capitano, anche lui belga, che deve difendere una maglia gialla che indossa da più di due settimane. Il suo nome è Eddie Merckx, ma da qualche giorno lo chiamano il Cannibale. Vorrebbe vincere anche quella di tappa, ma in un momento di lucidità si ricorda di avere 16 minuti e 40 secondi di vantaggio sul secondo in classifica. Non è il caso di rischiare di farsi male, pensa. È il 20 luglio del 1969, tutto il mondo non ha la testa che per quel che dovrebbe accadere quella sera, sopra le loro teste. Tutti tranne il Cannibale. Lui prima deve vincere il suo primo, sudatissimo, Tour de France.

 

Intanto che il Cannibale macina chilometri con il gruppo e la Francia lo guarda passare, è domenica mattina anche a Londra e le stradine immerse nel verde di Barnet, nel nord della città, sono deserte come tutte le domeniche. Manca ancora un’ora a mezzogiorno e nonostante il gran silenzio, dalla strada non si può sentire il suono insistente del telefono provenire da una delle stanze di Abbots Mead, una casa di pietra dai muri massicci costruita circa un secolo prima. L’unico che lo può sentire, quel trillo fastidioso, è l’uomo che dorme al secondo piano di quella casa. Anche se non vorrebbe, quella telefonata è la sua sveglia e allungando la mano verso il ricevitore, ancora avvolto nelle lenzuola leggermente sudate, alza la cornetta.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​«Ehi! Sei sveglio?», sente dall’altra parte della cornetta rispondendo con un grugnito, «È quasi mezzogiorno, tra mezz’ora sono da te». La voce dall’altra parte della cornetta mente, sia sull’ora che sull’orario del suo arrivo, ma è per dare una mossa all’uomo imbozzolato nelle lenzuola, che intanto sbuffa. Ha 40 anni ancora per qualche giorno, il suo nome è Stanley Kubrick, da mesi sta sognando un Napoleone con la faccia di Jack Nicholson e, nonostante abbia un sacco da fare anche se è domenica, non ha proprio nessuna voglia di alzarsi.


Fa in tempo ad arrivare mezzogiorno ad Abbots Mead, prima che Kubrick si decida ad alzarsi e a fare il caffè che si berrà, come al solito, con il suo autista italiano Emilio. A una decina di chilometri dalla sua casa di pietra, all’interno dei Twickenham Studios, stanno arrivando alla spicciolata un bel po’ di persone. Nell’aria c’è tensione. Stanno per proiettare per la prima volta Let It Be, il documentario sull’ultimo concerto dei Beatles, il gruppo più celebrato della storia del pop, quello che hanno inscenato sul tetto del palazzo della Apple Production, al 3 di Saville Road. I primi ad arrivare sono Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, con le rispettive mogli e fidanzate. Ci sono persino Harold e Louise, i genitori di George. La proiezione è prevista per le 14. Il montaggio finale ha richiesto mesi e dura più di due ore. Stanno per chiudere la porta dietro di sé quando arrivano anche i due ritardatari, John Lennon e Yoko Ono. Lei ha al collo una macchina fotografica. Quel giorno farà anche qualche foto.

 

In quel momento l’ora di Greenwich segna le 12.52 e a circa 384mila chilometri verso l’alto dal caffè che si sta sorseggiando Stanley Kubrick, dai pensieri e dalla bicicletta di Eddie Merckx, dagli sguardi imbronciati che si scambiano i Beatles, il comandante dell’Apollo 11 Neil Armstrong e il pilota del modulo lunale Edwin Eugene Aldrin Junior stanno controllando ancora una volta che tutti i sistemi di trasmissione, le telecamere e gli strumenti da cui dipenderà la loro vita nonché l’esito della missione più importante della storia dell’umanità siano a posto. Poi tornano insieme nell’Apollo 11. Devono riposare un paio d’ore. Non sanno cosa li aspetta là fuori, è meglio arrivarci al massimo della lucidità.

 

Nel frattempo a Créteil sono le due del pomeriggio. Sulla strada principale i sette fuggitivi sono ancora da soli. Il gruppo è distante più di cinque minuti e i due belgi, che sono lì per tenere d’occhio la situazione e difendere il loro capitano, decidono che quella tappa la vogliono vincere loro. Mancano circa 500 metri al traguardo quando Jozef Spruyt, spinto dal suo compagno, parte all’attacco. Se la giocano in tre, lui, Vandenberghe e Karstens, ma la progressione di Spruyt è impressionante. Quando taglia il traguardo, il suo compagno di squadra è a 60 metri di distanza. Abbastanza per alzarsi dal manubrio e senza neanche voltarsi, alzare le braccia sudate verso il cielo. Per un istante, più della felicità della vittoria Spruyt pensa che, per una volta, qualcuno lassù c’è davvero, anche se ha ben altro a cui pensare.

 

Mentre lassù nello spazio tre astronauti americani non hanno nemmeno il tempo di sentirsi soli e si preparano febbrilmente all’esperienza più pazzesca della loro vita, a Louisville, nel Tennessee un uomo si sveglia accanto alla donna che ama. Lì sono circa le 9 e 30 del mattino, è il giorno del suo 36esimo compleanno, ma non ha molta voglia di festeggiare. Sta finendo di scrivere un romanzo che si chiama Figli di dio, il suo nome è Cormac McCarthy, non ha la televisione e prima di mettersi ad ascoltare alla radio cosa succede ai suoi compatrioti lassù, dovrà finire di rimettere a posto quella specie di stalla che ha deciso di comprare qualche mese prima, appena tornato da Ibiza con la moglie. Glielo ha promesso da almeno un mese.

 

A Londra sono le quattro e mezza del pomeriggio. Stanley Kubrick sta lavorando sodo. Ama avere tutto sotto controllo. Per questo scrive il soggetto, la sceneggiatura, dirige, monta e si preoccupa perfino della fase di lancio di tutti i suoi film. In quel momento ha finito di girare da alcuni mesi 2001 odissea nello Spazio, e ora sta preparando un film a cui tiene tantissimo, dedicato alla vita di Napoleone Bonaparte. È il sogno della sua vita e ancora non sa che non lo girerà mai.

 

È seduto al suo scrittoio e beve l’ennesima tazza di caffè allungato, quando apre un plico. Dentro ci trova dei fogli dattiloscritti che gli ha inviato un giornalista newyorkese. Si chiama Joseph Gelmis, ha qualche anno meno di lui e nell’ultimo anno si sono visti spesso, sia a Londra che a New York. Quella che gli ha mandato è l’ultima bozza della lunga intervista che Gelmis vuole ricavare da tutte le chiacchiere che hanno fatto. Il plico contiene anche qualche nuova domanda per Kubrick, soprattutto relativa al nuovo film che dovrebbe cominciare a girare quell’inverno. Il regista le salta, risponderà in seguito. Quella che lo colpisce di più e che gli fa venire voglia di rispondere subito non c’entra nulla con il futuro, ma con il passato, «Se avesse diciannove anni e dovesse cominciare daccapo», legge l’inglese, «andrebbe a una scuola di cinema?».

 

Kubrick sorride, guarda fuori dalla finestra un secondo e butta giù un altro sorso di caffè. Poi scrive. «La migliore educazione per imparare a fare i film è farne uno. Consiglierei ogni regista alle prime armi di cercare di fare un film da solo. Un cortometraggio di tre minuti gli insegnerebbe un sacco di cose». E prosegue: «chiunque ne sappia un po’ di cineprese e registratori, che abbia un po’ di ambizione e, si spera, di talento, può farlo. È solo questione di prendere carta e penna e pianificare il lavoro. Siamo davvero alle soglie di un’era rivoluzionaria nel cinema». Mentre scrive quelle righe, a pochi chilometri da lui, nella sala riservata degli Twickenham Studios, davanti al loro film, i Beatles si annoiano a morte. Mentre ai genitori di Georges Harrison cade la testa dal sonno e la moglie di Paul McCartney guarda tutto fuorché lo schermo. Yoko Ono accarezza la sua macchina fotografica e sorride. La grande avventura dei Fab Four è proprio agli sgoccioli.

 

Nello stesso momento in Francia sono quasi le cinque e mezza e Eddie Marckx e i suoi compagni aspettano il proprio turno ai blocchi di partenza dell’ultima tappa del Tour de France, una cronometro individuale che li porterà da Créteil a Parigi. A qualche chilometro dalla superficie della Luna, intanto, dopo circa 100 ore passate uno accanto all’altro, il comandante Neil Armstrong, il pilota del modulo lunare Buzz Aldrin e il pilota del modulo di comando Michael Collins si stringono la mano e si augurano buona fortuna. Sanno che potrebbe essere l’ultima volta che si vedono. Esattamente come sanno che la fortuna non c’entra nulla con quello che succederà da lì in poi. Michael deve rimanere ad aspettare gli altri due sul Columbia. Buzz dovrà portare l’Eagle nel Mare della Tranquillità e a Neil, che è il comandante, toccherà fare il passo più grande dell’umanità. Sono le 100:12:00. Il modulo lunare si è staccato dall’Apollo 11. L’aquila ha preso il volo.

 

Due minuti dopo, a Houston, il generale di brigata Charles Moss Duke Junior, addetto alle comunicazioni, apre il canale di trasmissione. «Houston! We’re standing by. Over», fa Duke. Non risponde nessuno. Poi, per 30 lunghissimi secondi, a Houston non vola una mosca. ««Columbia, Houston. Over»».

 

Devono passare altri dieci interminabili secondi prima che dalla radio di Houston gracchi la voce di Michael Collins e tutti i tecnici ricomincino a respirare:
«Houston, Columbia. Reading you loud and clear. How me?»
«Roger, five by five, Mike. How did it go? Over»
«Listen, babe. Everything’s going just swimmingly», gli risponde sorridendo. Sta filando tutto liscio come l’olio, e aggiunge: «Beatiful». Se la sta facendo sotto, ma è tutto bellissimo.

 

Sono le 102:42:58. Ora sono a meno di 30mila piedi dalla superficie della Luna, verso la quale si avvicinano a circa 2mila piedi al secondo. Intanto per Kubrick e i Beatles sono le 19 e 14 di sera; per Eddie Merckx, che a Parigi si gode la sua prima vittoria del Tour de France, contro tutto e contro tutti, sono le 20 e 14. Esattamente lo stesso orario che fa l’orologio di re Juan Carlos di Spagna, uno dei pochi al mondo infastidito da quella febbre spaziale. Ha saputo da pochi minuti che il generalissimo Franco lo ha nominato come suo successore. È un re, il sangue di generazioni di sovrani scorrono nelle sue vene, gli scoccia tremendamente che tre figli di contadini abbiano oscurato quel suo momento di gloria. Nello stesso momento, nessuno guarda la fine della puntata dell’episodio di Perry Mason che, sulla Televisione Svizzera, anticipa le trasmissioni speciali sulla Luna. A nessuno importa un bel niente di una serie tv, né tanto meno delle paturnie di un re. Tre uomini solitari, nel silenzio dello spazio cosmico, stanno per fare la storia.

 

A Washington, nel frattempo, nella sala Ovale della Casa Bianca, sono le quattro del pomeriggio inoltrate. Il Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, è costantemente aggiornato sulla missione lunare, ma sta studiando il discorso che dovrà tenere dopo qualche giorno a Guam: «Gli Stati Uniti», ripete a fior di labbra il Presidente, «assisteranno alla difesa e allo sviluppo degli alleati e degli amici, ma non si prenderanno in carico la difesa di tutte le nazioni libere del mondo». Lo ripete più volte, con diverse intonazioni, dall’inamovibile al quasi sommesso. È un discorso importante. È anche per quello che spera che vada tutto bene lassù sulla Luna. Perché quel discorso, che sarà alla base della cosiddetta dottrina Nixon, è un atto di arretramento della politica estera americana. E quello che Nixon spera è che la conquista americana della Luna gli possa facilitare le cose.

 

Mentre Nixon studia il suo discorso e i cuori di Neil Armstrong e Buzz Aldrin battono all’impazzata, sulla Terra sono un sacco di ore tutte diverse. A New York è pomeriggio, e un giovane Piero Angela, inviato Rai a Cape Canaveral qualche giorno prima per assistere al decollo dell’Apollo 11, sta cercando di accendere la televisione nel suo hotel. In Italia è quasi notte, Margherita Hack è a Firenze, ma nel piccolo televisore della casa del padre vede soltanto delle ombre. Federico Fellini e Giulietta Masina sono a Fregene e Cesare Zavattini è a casa sua, a Roma, ha organizzato con amici una serata apposta, una specie di festa della Luna. Anche Eduardo De Filippo sta aspettando di festeggiare, ma la cornice è decisamente un’altra, l’isola di Lisca, davanti a Positano. L’unico a cui apparentemente la cosa non interessa è Pier Paolo Pasolini, che a tutti, amici compresi, ha detto di sentirsi completamente disinteressato da quell’operazione “enfatica e fastidiosa”. Oltre a loro, circa altri 600 milioni di persone in tutto il mondo sono con gli occhi attaccati a teleschermi di ogni tipo. O al cielo.

 

Cinque minuti dopo, precisamente alle 102:45:39.9 per gli astronauti, la scatola di latta manovrata con perizia da Buzz Aldrin è il primo mezzo di trasporto con umani al proprio interno a toccare un suolo che non sia quello dalla Terra. 384mila chilometri più in basso, centinaia di milioni di persone, per la prima volta nella storia dell’Umanità, perdono un battito tutti insieme, all’unisono. Saltato quel battito, circa un secondo e mezzo dopo, il modulo lunare spegne i suoi motori. Si trova a 22.500 piedi dal centro della zona prefissata per l’allunaggio. Le coordinate di quel pezzo di Luna sono latitudine 0.67408° nord e longitudine 23.47297° est. Sono nel bel mezzo del Mare della Tranquillità. Anche se né d’acqua, né tantomeno di tranquillità c’è la minima traccia. La spia rossa del carburante è accesa. Hanno ancora 45 secondi di carburante. A qual punto Armstrong guarda Aldrin. Non sono mai stati così concentrati in vita loro e anche se probabilmente vorrebbero abbracciarsi, si limitano ad annuirsi vicendevolmente con la testa, impassibili. Ora spetta al comandante prendere la radio. «Houston», si sente gracchiare dagli altoparlanti della base americana in Texas, «Tranquility Base here… The Eagle has landed». Il tempo di un minimo jet lag delle trasmissioni, e in ogni parte del mondo si leva, anche questa volta per la prima e forse unica volta nella storia dell’Umanità, un unico, liberatorio e scrosciante applauso.

 

Nel frattempo, sul palco di un locale di Warrensville Heights, a una ventina di chilometri da Cleveland e a un centinaio da Wapakoneta, la città dove è nato Neil Armstrong, quattro ragazzi inglesi sono ritornati sul palco dopo che i 2574 spettatori paganti, in totale adorazione per tutto il concerto, hanno chiesto a gran voce il bis. I quattro hanno formato il gruppo ufficialmente da meno di due anni. Si chiamano Led Zeppelin, in onore di un dirigibile tedesco schiantatosi in Germania più di trent’anni prima. Hanno appena finito di incidere il loro secondo disco e la canzone che sono tornati a suonare si chiama Communication Breakdown.

 

Nella notte inglese son quasi le 3 del mattino. Sono tutti svegli. Da Stanley Kubrick a Yoko Ono, nei pub dotati di televisione è stato prolungato l’orario di apertura per permettere alla gente di assistere alla Storia. Lo stesso succede in Italia, dove lo Stato ha dato in prestito 600 televisori portatili ad uso delle carceri. Anche nel chiuso di una cella si ha il diritto di sognare le stelle. Sulla East Coast è ormai sera e una grande folla è assiepata a Central Park davanti a un maxi schermo. A Washington, nella sala ovale, Nixon suda freddo. Manca poco, ci siamo quasi, pensa guardando il telefono verde in fondo alla sala. Non ne è ancora certo, ma tra un’oretta lo userà.

 

Sulla Luna sono le 109:23:38 mentre tutto il mondo è ancora con il fiato sospeso, il comandante Armstrong si sporge fuori dal modulo lunare. Malgrado tutto, paradossalmente ora è tranquillo. L’atterraggio era la parte peggiore della missione. Avevano il 50 per cento delle possibilità di riuscita, e lo sapevano. Dentro al sua tuta spaziale, sotto il cielo nero, Armstrong si concentra. Non ha idea della consistenza del terreno. Per capirlo guarda in basso e nota che la Eagle è affondata di pochi centimetri nel suolo.

 

«Sono sulla scaletta», fa alla radio al suo compagno che lo segue da dentro il modulo lunare, ma contemporaneamente a tutto il mondo e alla storia, che lo registra. «La superficie sembra polverosa».

Passano trenta secondi, poi si decide, ripassa la frase che si è preparato da giorni e fa un respiro: «Okay, ora sto per scendere», poi fa una lunga pausa e allunga il piede sinistro al di là dell’ultimo gradino della scaletta dell’Eagle. Ci mette undici secondi. Poi parla.

 

«That’s one small step for a man; one giant leap for mankind».

Il suo compagno Buzz lo ascolta a pochi metri di distanza, mentre Michael, che è ancora da solo sull’Apollo 11, è a qualche chilometro più in alto. Parla a loro due, ai tecnici di Houston, al Presidente, a tutti terrestri con gli occhi fissi sul televisore, ma anche ai posteri. Dopo un po’ lo raggiunge anche Buzz. In mano ha una targa e una bandiera. La bandiera è quella a stelle e strisce degli Stati Uniti d’America, la pianteranno 20 centimetri dentro il suolo lunare e non sventolerà mai. La targa, invece, la lasciano sulla superficie.

 

«Qui, Uomini provenienti dal pianeta Terra posero per primi un passo sulla Luna, nel luglio del 1969 d.C», recita. E conclude: «Veniamo in pace a nome di tutta l’Umanità». E in calce ci sono le loro tre firme, più quella di Richard Nixon.

 

In quel momento il presidente Nixon, che sulla Luna non ci andrà mai e che ha un concetto tutto suo di pace e di genere umano, sta per essere messo in contatto telefonico proprio con Neil Armstrong e Buzz Aldrin, che non rivedranno il loro compagno di avventura per altre due ore.
«Hello Neil and Buzz», fa Nixon, «I am talking to you by telephone from the Oval Room at the White House, and this certainly has to be the most historic telephone call ever made from the White House». Poi, dopo le dichiarazioni di orgoglio del caso, aggiunge una frase che gli ha scritto qualcun altro: «Per un momento che non ha prezzo nell’intera storia dell’Uomo, tutti i popoli su questa terra sono veramente un solo popolo. Unito dall’orgoglio per quel che avete fatto e unito nelle preghiere per il vostro ritorno sani e salvi sulla Terra».

 

«La ringrazio, signor Presidente», gli risponde il comandante Armstrong. «È un grande onore e un privilegio essere qui a rappresentare non soltanto gli Stati Uniti d’America, ma tutti gli uomini delle nazioni pacifiche, uomini che hanno una speranza per il futuro».

 

Hanno ragione entrambi. È la notte del 21 luglio 1969, in quel momento l’Umanità è sul serio unita in un unico respiro. Ed è anche un momento senza prezzo nella storia umana, perché non si ripeterà.

 


 

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