Le città di pianura non è un film provinciale

È bello e imperfetto, esiste per miracolo e per passione, e se per alcuni il suo successo è inaspettato è perché si sono abituati a cercare l’oro solo dove luccica l’hype

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

”Le città di pianura” è un film bello e imperfetto. Pieno di sorprese e conferme.

Per una persona che vive in provincia, vedere un film come “Le città di pianura” è quasi obbligatorio. Le persone che vivono in provincia, in Italia, sono tante. Le chiamiamo provinciali, con disprezzo e per indicare la loro condizione inferiore e limitata, anche se sono persone che, spesso, hanno visto più mondo delle cittadine. Se non altro perché molto spesso sono anche persone pendolari. Sono persone che si devono arrangiare, che subiscono la colonizzazione delle cittadine. Prima quella culturale, poi quella fisica, poi quella economica, con la gentrificazione.

“Le città di pianura” andrebbe visto in un cinema di provincia, a trovarne ancora e a trovarne che lo programmano. A volte se ne trovano di grossini, con la sala poco sonorizzata e se accanto danno invece un blockbuster che viene dagli USA e che ogni tanto aggiunge una colonna sonora non voluta, la sensazione della città di provincia è assicurata e, tutto sommato, perfetta.

È un film della classe lavoratrice. Working class movie, potremmo chiamarlo. Anche se nelle recensioni si deve scrivere per forza, come da sinossi della cartella stampa, che tutto ruota intorno all’ossessione di due amici di bersi “l’ultima”, il bicchiere della staffa, in realtà “l’ultima” è solo un pretesto. È un macguffin per portarci in giro insieme a Carlo Bianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), due sessantenni che vivono da tempo di espedienti – uno dei due, divorziato, è tornato a stare a casa dei genitori –, ai quali per un pelo non era riuscito il botto, e che sembrano persi nei ricordi ma in realtà cercano di vivere il presente.

Il giro è, prima di tutto, fisico. Il film, infatti, è un road movie che ci porta in giro per la pianura veneta. In giro per Venezia. In giro fino alla tomba Brion e alla storia di Carlo Scarpa che piomba nella vita di Carlo e Dori, a loro volta piombati nella vita del giovane co-protagonista, Giulio (Filippo Scotti). Si viaggia a bordo di un’improbabile Jaguar malconcia, a piedi e poi in treno.

Ma è anche un giro nell’immaginario. I coloni ricchi e cittadini arrivano all’inizio del film con l’elicottero e un Rolex e poi spariscono dalla vista e diventano una leggenda metropolitana (ma di provincia). La loro ombra lunga, non inquadrata, si fa viva continuamente: fra i cartelli “vendesi”, le finestre barricate, i locali chiusi, la cocaina, i cocktail fatti bene, le birre analcoliche di notte in autostrada, la terra che diventa territorio, l’idea che resteranno solo infrastrutture progettate e realizzate per muoversi in continuo e nessun luogo da raggiungere veramente.

Tutto questo, per il cinema moderno, è una sorpresa. Per le persone di provincia in una sala di provincia è una conferma.

“Le città di pianura” dimostra che, anche oggi, tutto può essere raccontato dal buon cinema: anche le vite di persone ordinarie, quelle che potremmo definire “gli ultimi”. Ma dire “gli ultimi” non renderebbe giustizia al racconto e sarebbe anche troppo giudicante, troppo cattolico, troppo perbenista. Nello sguardo sui personaggi e sulle loro vite non c’è mai né giudizio né commiserazione: se mai c’è una carezza, come quella che la madre di Carlobianchi dà al figlio che torna a casa duro, sbronzo, dopo l’ultima, insieme a Dori e a Giulio, “di Napoli, ma bravo”. Nel film non c’è lo sguardo coloniale di chi visita uno zoo umano. C’è tanta passione, tanto amore per l’umanità, in tutte le sue forme. È questo è sorprendente e basta perché non si può dare per scontato.

Pierpaolo Capovilla, che gli appassionati della musica indie conoscono bene come frontman e bassista del gruppo Il teatro degli orrori, è una sorpresa nella sorpresa. Pierpaolo Capovilla è la risposta della provincia italiana al Mickey Rourke di The Wrestler: non si può fare a meno di pensarlo tutte le volte che, nei panni di Dori, parla, bofonchia a Carlo Bianchi, carlobianchi, Charles White. Soprattutto quando lo fa in una scena scurissima, in macchina. C’è un buio che nemmeno la pellicola Kodak – eh, sì, “Le città di pianura” è girato in pellicola, ma non sembra una scelta passatista né nostalgica né radical chic – riesce superare. Ma quel buio estermo è una scelta e se non lo fosse sarebbe comunque giusto così, perché quella scena è tutta al buio, in “modalità stealth”, come dice carlobianchi dopo essere sfuggito in modo improbabile – quanto la sua Jaguar – ma al tempo stesso credibilissimo a un posto di blocco con breve inseguimento.

“Le città di pianura” ammicca anche ad “Amici miei” e alle zingarate ma lo fa con garbo e gusto e senza rinunciare alla critica sociale, per arrivare a un bacio gay così ben girato e interpretato, così naturale e al tempo stesso imprevisto da far giusto saltare sulla sedia un paio di signore perbene – di provincia – nella sala. Ma non per chissà quale giudizio morale: solo perché, appunto, è sorprendente nel senso migliore del termine. Non è buttato lì come colpo di scena. In effetti, nel film non ci sono veri colpi di scena anche se ti aspetti sempre che ci siano e anche se è costruito per farteli aspettare e poi nel lasciare che succeda semplicemente quel che succederebbe, forse, nella vita vera. Tutto raccontato come lo racconterebbero due sessantenni di provincia alla ricerca continua dell’ultima bevuta, capaci di spiegarti persino il concetto di utilità marginale mentre bevono vino – appunto – e mangiano salame.

Le sorprese e le conferme continuano fino ai titoli di coda. Dove si ribadisce, come già nei titoli di testa, che il film ha ricevuto sostegni e patrocini e coproduzioni e chi è del mestiere si immagina tutto l’iter, il percorso, la fatica per avere quei patrocini e quei sostegni e quelle coproduzioni; dove si scopre che è stato finalista al Premio Solinas come miglior soggetto nel 2020 e siamo nel 2025. Questo significa, verosimilmente, che da quando è stato pensato e scritto a quando è finito in sala ci sono voluti cinque-sei anni. Strano? Normale? Sorprendente? Qui da noi è una conferma.

E lo diventa ancor di più leggendo queste parole del regista Sossai: “In Italia per fare un film devi aver già fatto un film. Nel mondo del lavoro italiano devi avere esperienza per fare esperienza. Il mio esordio [“Altri cannibali”, 2021, ndr] ha tranquillizzato tutti i miei produttori sul fatto che ero capace di raccontare nella forma lunga.“

“Le città di pianura” è un film bello e imperfetto. Pieno di sorprese e conferme. Incluso il fatto che il segreto della vita, quello che Dori e Carlobianchi sono convinti di aver scoperto, non è inquadrabile, filmabile, registrabile. O forse sì?

TAG:

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Altri articoli Cultura
Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Base a Vicenza

La storia dell’ex aeroporto del capoluogo veneto si intreccia con quella delle basi statunitensi presenti in città. E per capire il senso del Parco della pace oggi, bisogna ripercorrere gli ultimi 100 anni di storia vicentina