Ep. 05

Il mondo come volontà e agitazione

Storia dell’anarchico Errico Malatesta, un eroe della gente che non vuole eroi

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Gli anarchici van via

Una serie su un’ideale il cui nome si usa spesso a sproposito, e sulle persone che ne hanno fatto la storia

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Roma, quartiere Prati, piazzale degli Eroi. C’è una targa appesa a un muro, un po’ nascosta come molte cose nella Capitale: sono lì ma in pochi se ne accorgono. Bisogna farci attenzione, oppure andarle a cercare. La targa di piazzale degli Eroi è dedicata a Errico Malatesta, e sopra si parla di lui come di un «apostolo della libertà».

La scelta delle parole, per gli anarchici, è una delle cose più difficili del mondo. Nella sua biografia di Malatesta [“Non ho bisogno di stare tranquillo”, Elèuthera 2012], Vittorio Giacopini ammoniva che troppo spesso i militanti anarchici sono innamorati della retorica, pur in fondo ripudiandola, e quindi accade che le parole significhino troppo o troppo poco, che insomma non siano mai adeguate a una visione del mondo che fa della libertà l’assoluto più assoluto di tutti gli assoluti. Non si può nemmeno far conto sulla memoria, perché essa stessa, in fondo, è fantasia. Insomma, la realtà non può essere che un terreno di scontro tra bisogni e pensieri diversi. E si finisce con il parlare tanto, tantissimo. Troppo.

Errico Malatesta, però, era un uomo di non moltissime parole. La sua è indubbiamente la biografia di uno degli anarchici più importanti degli ultimi duecento anni, ma di sue prove scritte c’è pochino. Certo, c’è il famoso “Programma anarchico”, un manifesto ancora valido per quasi tutti gli anarchici del pianeta Terra. Ma sono poche pagine, in fondo. Il resto, a scartabellare tra le bibliografie, è un insieme di opuscoli, articoli, interventi, cose scritte probabilmente in mezz’ora o poco più, legate alle contingenze. Risposte, attacchi, difese, atti più o meno dovuti. Nessuna opera organica, come si dice. Niente tomi pensati per durare, niente solchi sulla terra per indicare la strada. Chi vuol essere anarchico deve arrangiarsi e prendere Malatesta per quello che è stato: «il rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del Regno» (ancora Giacopini). Anzi, «il Lenin d’Italia», anche se i due non andavano troppo d’accordo. E tanto deve bastare.

Adesso Malatesta è un apostolo. Apostolo, sostantivo maschile, che nel greco classico stava a significare “inviato”, “rappresentante” o “capo” di una spedizione marittima. Così si indicavano i messi inviati da Gerusalemme per mantenere i rapporti con le comunità ebraiche della Diaspora. La parola, poi, è famosa perché così si definivano i discepoli di Gesù Cristo. Un apostolo anarchico, dunque. Come parlare di “fuoco idrico” o di “acqua asciutta”. Un controsenso, quasi un insulto. Che senso ha? Lui non avrebbe gradito. Oppure no, si dice che in fondo Malatesta fosse nel privato un tipo piuttosto vanitoso – pare fosse orgogliosissimo, tra le altre cose, di essere arrivato a tarda età con i capelli ancora folti e neri come le notti senza luna, le notti adatte per tessere una trama o organizzare una rivolta – e magari avrebbe sorriso per quell’epiteto tanto grande da sembrare sciocco.

Errico Malatesta, apostolo.

Il 22 luglio del 1932, giorno della sua morte, la Questura diramò il seguente telegramma: «Oggi è deceduto a Roma per broncopolmonite il noto Errico Malatesta. Prego intensificare vigilanza su elementi anarchici e sovversivi». Al regime fascista non era bastato il suo trapasso, serviva qualcosa di più per ribadire che la sua era una storia finita per davvero, e nessuno avrebbe dovuto o potuto disobbedire alla damnatio memoriae che il Duce in persona aveva concepito per lui. Carabinieri fuori dalla porta della sua casa in piazzale degli Eroi. Giorno e notte. E lui, bombola d’ossigeno sempre a fianco, a scoprirsi invecchiato e a guardare dalle fessure delle persiane la vita che scorreva là fuori.

Gli ultimi anni nella capitale, per Malatesta, furono tutti così. Un supplizio: costretto dentro casa a guardare il nemico ed ex alleato Benito Mussolini (entrambi furono protagonisti della settimana rossa ad Ancona, nel giugno del 1914) che cresceva e veniva adorato da tutti, perché, ormai non è più un segreto, in quel periodo il fascismo godeva di un consenso talmente ampio da sembrare inossidabile e che sarebbe calato di anno in anno fino all’esultanza collettiva di un paese intero per la lugubre esposizione del cadavere del dittatore a piazzale Loreto, nell’aprile del 1945.

L’irriducibile Malatesta aveva tutti i tratti del nemico dello Stato. Basso di statura, un luccichio in fondo agli occhi che avrebbe eccitato Lombroso, la barba ispida. Relativamente bello. Più relativo che bello. Nato a Santa Maria Capua Vetere il 14 dicembre del 1853 – durante uno degli inverni più freddi della storia – da una famiglia di proprietari terrieri. Medico mancato, si dedicò sin da giovanissimo alla rivoluzione. Per andare a conoscere Bakunin, a Saint-Imier, in Svizzera, Malatesta attraversò le Alpi a piedi. Quando arrivò tremava di freddo e di febbre. Debole di polmoni, si presentò al rivoluzionario russo sputando sangue. Bakunin e sua moglie pensarono fosse sul punto di morire: «Che spreco la perdita di una tale intelligenza». Il giovane Errico, comunque, era vivo e lo sarebbe rimasto ancora a lungo.

Seguirono anni di congiure con l’amico Cafiero: rivolte, insurrezioni, agitazioni, tentativi, errori. Soprattutto errori. Dall’Italia dovette fuggire presto, Malatesta. Nel 1877 era in Bosnia a combattere contro i Turchi. Poi Egitto, Siria, Romania, Parigi e Londra. Ancora Egitto per combattere gli inglesi. Esiliato, tornò in Italia giusto per andare a Napoli e organizzare delle squadre di soccorso per i malati di colera. Arrestato per cospirazione, fuggì a Buenos Aires e a Montevideo. E ancora: Spagna, Francia, di nuovo Londra.

Nel 1898 era a Milano a beccarsi le cannonate di Bava Beccaris. Arrestato ancora una volta, al processo di Ancona, dopo aver ascoltato la sua difesa, due carabinieri scoppiarono in lacrime e il magistrato scese dal suo trespolo per stringergli la mano. Confinato a Lampedusa, Malatesta riuscì a fuggire e sbarcò in America, prima a New York e poi a Cuba. Benedetto Croce ricorda che nel 1901, Maria Sofia di Borbone complottò con lui per organizzare l’evasione del regicida Gaetano Bresci.

Un anno prima, Malatesta si era stabilito a Londra, dove sarebbe rimasto per oltre dieci anni, guadagnandosi da vivere come biciclettaio e elettricista, alla bisogna. Sempre, ovviamente, con le guardie alle costole. E lui se la rideva, perché certo che aveva ancora i suoi bei contatti con l’universo anarchico, ma si considerava in un periodo di ritiro dalla vita pubblica. Una specie di tirare il fiato in vista di nuove avventure, nuovi tentativi di fare la rivoluzione. A Malatesta non servivano le parole, servivano i fatti. Quelli e solo quelli. Per il resto ci sarebbe stato tempo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Targa a Errico Malatesta, Ancona.

Forse. O forse no. Perché Malatesta non ha scritto le sue memorie negli ultimi anni di vita passati sempre dentro casa? La risposta è vaga come le stelle dell’Orsa per Leopardi e Visconti.

In realtà un progettino c’era. «Centocinquant’anni di anarchismo» era il titolo, e Malatesta aveva anche prodotto una specie di indice, pare. L’obiettivo era di raccogliere tutti i vari scritti e farne qualcosa di unico: la base era un armadio pieno di carte ammucchiate, tesoro bramato e temuto, preziosissimo per i compagni anarchici, un incubo per le polizie di mezzo mondo. Ci stava lavorando a Londra sulla stesura dell’attesissima opera, ma la bozza del manoscritto bruciò durante un incendio.

Malatesta ne diede notizia all’amico austriaco Max Nettlau – che si era interessato forse troppo a questa strana autobiografia politica – con una lettera di poche righe non troppo disperate: «Caro compagno, sì il manoscritto è bruciato. Non ho bisogno che vi dica quanto mi dispiace. Non ho potuto annunciarvi la disgrazia prima d’ora perché non avevo il vostro indirizzo. Spero che abbiate una brutta copia del manoscritto o almeno le note e i documenti per rifare il lavoro che era molto utile. Tutti i miei libri, memorie e manoscritti sono andati perduti. Vostro E. Malatesta».

Malatesta tornò in Italia alla vigilia della guerra, dopo un clamoroso litigio con l’ex sodale Kropotkin: lui sosteneva le ragioni dell’antimilitarismo e quindi del non interventismo, il russo guardava con favore allo sforzo bellico dell’Intesa contro il regime tedesco.

La settimana rossa di Ancona è stato il penultimo atto, poi, dopo aver fondato il settimanale anarchico Umanità Nova (ancora oggi in stampa) e aver appoggiato la causa degli Arditi del Popolo, Malatesta si trovò davanti all’evento che riuscì a piegare buona parte delle sue convinzioni: la strage del Kursaal Diana di Milano, il 23 marzo 1921. Ventuno morti, ottanta feriti. Condannati diciannove anarchici individualisti. Malatesta li difese, ma condannò il gesto: «Qualunque sia la barbarie degli altri – scrisse su Umanità Nova -, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti».

Malatesta ancora non poteva saperlo, ma era finita davvero. Nel 1922, con l’avvento del regime, Umanità Nova chiuse e lui si ritrovò a gestire quasi da solo il quindicinale clandestino Pensiero e Volontà. Gli ultimi anni li ha passati dentro casa con la famiglia, e una pletora di sbirri fuori a controllarne ogni movimento. Ogni tanto qualche sgherro gli andava a devastare il negozio. Così, tanto per dare un segnale: l’Italia fascista non vuole gli anarchici. Malatesta non aveva la forza di reagire. Isolato a Roma, costretto dentro quattro mura via via sempre più strette, con problemi polmonari sempre più gravi e senza la possibilità di tramare come aveva sempre fatto in vita sua. L’unico modo per fermarlo era cancellarlo, bloccarlo, costruirgli una gabbia intorno.

La realtà, per Malatesta, è soprattutto azione, o meglio, agitazione. Non esistono sistemi in grado di ingabbiare le cose: un conto è l’anarchia – ovvero un valore metastorico – e un conto è l’anarchismo, il tentativo di dare concretezza all’idea di fondo nella situazione storica data. Era un pensatore con le idee chiare, Malatesta. Libertà, uguaglianza, solidarietà. Tutto qui: espressioni non razionali di un sistema universale, quindi non ascrivibili a nessuna dottrina in particolare. La rivoluzione è un atto di volontà: liberare la società dipende solo dagli uomini. E questo, la sua biografia lo testimonia, è un particolare di non poco conto, anche perché dire se gli uomini sappiano davvero quello che fanno è come provare a indovinare che tempo farà tra un mese. Impossibile, aleatorio, un po’ stupido. Resta una collezione di attimi, l’eredità politica di uno che avrebbe voluto consegnare il mondo all’ordine attraverso la libertà.

Roberto Saviano la vede così: «[Il pensiero di Malatesta] può aiutare a considerare la politica non qualcosa di repellente, ma l’ambito in cui vale la pena spendersi, l’unico che può costruire quel principio per cui Malatesta e tutta la tradizione anarchica hanno vissuto: non può esserci felicità se non condivisa, non si può stare bene se non stanno bene anche gli altri».

La tomba di Errico Malatesta è al Verano. Per decenni trovarla pare fosse un’impresa impossibile. Generazioni di anarchici si sono recate a Roma e hanno intrattenuto rapporti lunghi ed estenuanti con i custodi per trovare il lotto numero 30, unica indicazione nota fino a non troppo tempo fa. Solo di recente è venuto fuori che il lotto è nella via del Tempietto Egizio, terza fila, numero venti. Arrivarci è semplice, anche se stiamo sempre parlando di un’area di 83 ettari, con decine di migliaia di tombe. Quella di Malatesta è sobria, di pietra, con una sua immagine, una lastra con A cerchiata, il nome, la data di nascita e quella di morte. Qualche piantina e qualche fiore lasciato di recente. E stop. Ecco, questo è molto meglio della targa all’apostolo della libertà. Due metri di terreno, si diceva una volta. Tutto quello che resta. E d’altra parte quello che c’era da fare è stato fatto e quello che c’era da dire è stato detto. Malatesta ci ha creduto e ci ha provato, è uscito dalla storia per entrare nella leggenda e non ha mai pensato a inezie come la vittoria o la sconfitta. Tutto sommato, una certezza. Quando nell’aprile del 1877 la Federazione italiana dell’associazione internazionale dei lavoratori cercò di organizzare una rivolta nel Matese, sull’Appennino sannita, e le cose andarono male, tanto per cambiare, davanti a una folla di aspiranti rivoluzionari Malatesta, notando una certa indolenza di fondo, sbottò durante un comizio: «I fucili e le scuri ve li avimo dato, i cortelli li avite. Se volete facite, se no vi fottite». Gli insorti, va da sé, scelsero la seconda opzione.

Malgrado tutto, Malatesta ha sempre fatto paura al potere e ai potenti. Quando morì, il regime fascista impedì che si creasse un corteo funebre in suo onore. La salma fu portata al Verano in gran segreto: l’obiettivo era affogare il pericolo anarchico nell’oblio, come se non fosse mai esistito. Solo l’Unità – bollandolo comunque come «politicamente morto» da anni – riservò un trafiletto alla sua dipartita.

Oggi, ancora oggi, c’è però chi porta i fiori sulla sua tomba. O forse nascono da soli. E in questo caso la storia avrebbe molto più senso.

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Stai leggendo
Gli anarchici van via

Una serie su un’ideale il cui nome si usa spesso a sproposito, e sulle persone che ne hanno fatto la storia

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Prossimo episodio

Tutti gli episodi

01
02
03
04
05
06
Altri articoli Società