Ep. 03

Il cielo color del vino

L’Aurora, secondo il gergo burocratico, è ua «azienda agrobiologica» ma tutti la chiamano «la cantina degli anarchici».

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Gli anarchici van via

Una serie su un’ideale il cui nome si usa spesso a sproposito, e sulle persone che ne hanno fatto la storia

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Federico si guarda intorno e osserva un panorama che conosce da quarant’anni. Sa a memoria le sfumature che cambiano di stagione in stagione, anno dopo anno, con una costanza impossibile da riprodurre ma che lascia tutto lo spazio a chi vuole viverci insieme. I Sibillini da una parte, i Monti della Laga da un’altra, e poi le colline pettinate dal mare poco distante. Vigneti a perdita d’occhio. La sera le luci dei paesini sulla Vallata e verso l’interno, sentinelle di una civiltà da tenere alla giusta distanza. Siamo in Contrada Ciafone, a Offida, in provincia di Ascoli Piceno. Più precisi ancora: siamo all’Aurora, «azienda agrobiologica» secondo il gergo burocratico standard, «la cantina degli anarchici» per il resto del mondo. Sulla strada per arrivarci ci sono delle bandiere rosse, ma quelle, a onor del vero, le ha issate un altro vignaiolo, perché comunque siamo in una zona in cui il Partito Comunista prendeva percentuali da Patto di Varsavia e in tanti si sentono ancora fedeli alla linea. L’Aurora è la cugina anarchica e lo è sempre stata, sin da quando Federico e altri tre, alla fine degli anni ’70, si ritrovarono con un pezzo di terra e l’idea un po’ utopica di costruire qualcosa di diverso da tutto il resto. «Male che va mangiamo» è la parola d’ordine, nonché il più grande vantaggio di chi decide di andarsene in campagna.

Erano gli anni in cui nella vicina San Benedetto del Tronto la lotta politica aveva cominciato a virare verso l’oscurità: nel 1981 le Brigate Rosse sequestrano Roberto Peci, il fratello di Patrizio, primo pentito nella storia dell’organizzazione. Il processo popolare messo in piedi da Giovanni Senzani è un orrore che ancora si insinua come uno spiffero di aria gelida nella inamovibile quiete provinciale della cittadina non più marinara ma molto turistica. Quella storia di sangue e sputtanamento allontanò moltissimi dalla politica. Poi l’eroina ha fatto il resto.

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Adesso, chi c’era allora, ricorda quegli anni con un misto di malinconia e battute, come a mettere una distanza incolmabile tra se stessi e il disastro. Sono cambiate molte cose, ovviamente. Quasi tutte. L’Aurora non molto: il galeone dei vignaioli anarchici non ha mai cambiato davvero rotta e ancora attraversa le acque del presente con il piglio ribelle di chi ormai il suo spazio se l’è conquistato e non è in discussione.

E pensare che, all’inizio, c’è voluto un po’ di tempo per trovarla, la rotta. C’erano degli spunti, per esempio la partecipazione nell’aprile del 1980 a Firenze al primo incontro italiano sull’agricoltura biologica, una medaglia che brilla ancora adesso che i prodotti naturali vanno di moda persino tra le multinazionali e tra le aziende che fanno la vendemmia con le macchine, raccogliendo non solo uva ma anche nidi di uccelli, animali e tutto quello che si trova tra i filari.

All’inizio, comunque, all’Aurora non pensavano tanto al vino quanto ai kiwi, piantati tra mille sforzi quando un singolo frutto costava tremila lire ma pronti soltanto quando il mercato era cambiato e tremila lire era diventato il prezzo al chilogrammo. Oppure, le lumache. Un bell’allevamento di lumache. Suggestivo ma decisamente poco redditizio: va bene tutto, sì certo, ma bisogna pur mangiare.

È così che una domenica qualsiasi di un autunno qualunque degli anni ’80, Federico si trova all’Aurora in compagnia di un agronomo. Federico parla, spiega, rintuzza, commenta. Prova a entusiasmare questo signore un po’ arcigno e che di campagna ne sa tantissimo, talmente tanto da venire chiamato da tutte le parti per diffondere un po’ delle proprie conoscenze. Dopo un’ora di chiacchiere a senso unico, Federico e l’agronomo si trovano in cima a una collinetta da cui si vedono tutti i possedimenti dell’Aurora. E finalmente l’agronomo interviene.

«Cosa vedi?».
Federico si guarda intorno ed elenca: «La vigna, gli ulivi, i campi di grano…».
L’agronomo sorride.
«Ecco cosa dovete fare».
Gioco. Partita. Incontro. L’Aurora si mette a produrre vino sul serio, e anche olio e anche farina. Soprattutto vino. E il vino degli anarchici – sorpresa o forse no – è buonissimo. Ci vuole qualche tempo perché se ne accorgano tutti, ma alla fine la fama arriva per davvero.

Negli anni ’90, l’ambiente degli intenditori di vino è un circolo chiusissimo e pieno di tic, snob e tutto compresso nel suo molto presunto ruolo elitario rispetto alla società dei consumi e ai suoi ritmi. I sommelier snobbavano tutto quello che si definiva biologico, tanto per dirne una. «Funzionava così», racconta Enrico, altro socio dell’Aurora. «Al Vinitaly di Verona porgevi un bicchiere di vino a un sommelier e appena gli dicevi che era biologico, lui poggiava il bicchiere sul tavolo, faceva un sorrisetto e passava allo stand successivo, senza nemmeno assaggiarlo con la punta della lingua».

A rompere gli schemi, ovviamente, ci ha dovuto pensare un anarchico: Luigi Veronelli, «gastronomo, giornalista, editore, conduttore televisivo e filosofo italiano» secondo Wikipedia, ma non basta.

«Veronelli è un paradosso italiano», spiega Marco Giovagnoli, docente di Sociologia dell’Università di Camerino. «In questo Paese sono state generate alcune figure di livello assoluto il cui destino è stato sempre la sottovalutazione». Gli esempi, per Giovagnoli, oltre a Veronelli sono Luigi Cederna e Mario Soldati. Persone che hanno cambiato (in meglio) il modo di pensare degli italiani, ma ormai ai margini più estremi del dibattito pubblico. E questo la dice lunga sulla qualità della discussione in Italia, ma è un altro discorso. Prosegue Giovagnoli: «Veronelli era un uomo attento al vino, al cibo e all’olio. Ma era soprattutto un uomo di lettere, scriveva in maniera straordinaria. Ha sovvertito molte cose, in primo luogo la lingua. E in ultimo, ma non da ultimo, è stato anche un attivista politico».

Ecco, Veronelli alla fine del secondo millennio provò i vini dell’Aurora. E se ne innamorò. Ne scrisse sul Corriere della Sera e da quel dì tutti i sommelier dell’impero non hanno più potuto ignorare il biologico, che anzi adesso, vent’anni dopo, dilaga tanto che in molti pensano che questo tipo di certificazione ormai non basti più.
«Veronelli si era innamorato del Barricadiero, un Montepulciano in purezza», sostiene Maurizio Silvestri, scrittore, agitatore culturale, sommelier, cultore del vino, viaggiatore con mezzi inconsueti. «Ne parlò per la prima volta nel 2000. Poi arrivarono i premi di Slow Food, del Gambero Rosso e della stessa guida di Veronelli, roba che altre cantine, allora anche più prestigiose dell’Aurora, avrebbero fatto carte false». Questa storia dei premi, per la cronaca e per la storia, continua ancora oggi.

L’anarchico Veronelli, dunque, come unità di misura della critica enologica italiana. E non è un caso. «La sua militanza anarchica – spiega ancora Giovagnoli – non era solo ideale, benché la scintilla, ripeteva, gli venne grazie a una delle ultime lezioni di Benedetto Croce, quando disse che l’umanità viene da un’anarchia disordinata e arriverà a un’anarchia ordinata. Veronelli ha fatto militanza sul campo, è stato più volte inquisito, ha partecipato a blocchi stradali, come editore è stato anche l’ultimo che fu sanzionato con il rogo di un libro che aveva pubblicato».

Nell’ultima parte della sua vita, dopo aver sfondato in televisione e aver trovato spazio sui più importanti quotidiani italiani, Veronelli ha lavorato per lo più con i centri sociali. La scelta di una vita: avrebbe potuto continuare a dettare legge da qualsiasi trono, ha preferito il disordinato palcoscenico dell’ultrasinistra, tra assemblee, incontri, discussioni chilometriche e una salutare lontananza dall’Italia berlusconiana di allora. «Veronelli temeva che il vino venisse considerato un argomento troppo elitario, e dunque ha cercato sempre di interloquire nella maniera più ampia possibile», prosegue Giovagnoli. E il vino, per Veronelli, ha necessariamente a che fare con l’anarchia. Ancora Giovagnoli: «Diceva sempre che il peggior vino del contadino è meglio del miglior vino industriale. Se non è un messaggio politico questo…». L’orizzonte finale è la rivoluzione, chiaramente: «Sensibilità planetaria, agricoltura contadina e rivoluzione dei consumi», recita il sottotitolo del libro postumo Terra e libertà/Critical wine edito da Derive Approdi nel 2004, dove si raccolgono moltissime delle riflessioni veronelliane sul mondo e sui suoi gusti.

«Veronelli ha cambiato tutto quanto», dice allora Silvestri. «La critica enologica contemporanea gli deve praticamente tutto. Si è capito che quello del vino è un percorso personale, una bottiglia non è mai uguale a se stessa, anche perché nemmeno noi siamo mai uguali a noi stessi giorno dopo giorno: cambiamo come cambia il vino, e questo è importantissimo da capire se si vuole capire qualcosa sul vino. Ogni assaggio, in pratica, può dire cose diverse».

Porthos è probabilmente la rivista più importante in tema di vini, e tratta l’argomento con una profondità e un’accuratezza da manuale di filologia classica. «Ma senza imposizioni, senza dogmi, senza voti». Il motto è quello di un altro anarchico ancora, Leo Ferré: «Disimparate». Perché le regole possono aiutare a stare al mondo, ma in nessun caso sono il mondo. Bisogna sapere le cose, ma sapere anche come metterle in prospettiva. Perché il senso di un viaggio non ha nulla a che fare con i punti di arrivo e quelli di partenza: scoprire cose nuove, meravigliarsi. Cambiare tutto. Fare la rivoluzione, ecco. E darle un senso di libertà oltre ogni schematismo.

Silvestri è anche il direttore artistico del Festival Ferré di San Benedetto del Tronto, l’unico dedicato al cantautore francese. Ed è grazie al Ferré che ha conosciuto l’Aurora e un modo diverso di porsi rispetto al vino. «Era il 2000, capitai all’Aurora quasi per caso e in sostanza non me ne sono mai più andato». Nonno mezzadro, padre contadino, studi in Toscana dove il vino di certo non manca. «All’Aurora ho scoperto la terra e la sua connessione diretta con la mia infanzia. E lì non è che ti insegnano a fare le cose, ti inglobano. Ti dicono: guarda e mettici del tuo». Il metodo anarchico, in cinque parole. Non una lezione verticale in cui ci si mette in cattedra e si lascia sgocciolare un po’ di sapere verso il basso, ma un approccio in tutto e per tutto orizzontale: osservare è mezza partita. D’altra parte la stessa Aurora è nata in questa prospettiva: la lotta politica scivola verso lidi spiacevoli? La risposta è autorganizzarsi e dimostrare che davvero un altro mondo sarebbe possibile.

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È il 2012 quando Silvestri fa avere al suo amico viticoltore toscano Stefano Almerighi le bozze del suo ultimo libro (Un altro viaggio nelle Marche, scritto con Paolo Merlini e uscito per Exorma). Almerighi lo legge e resta colpito soprattutto da un passaggio, quello in cui si parla del pecorino di Arquata del Tronto, un vitigno molto antico e ora soprattutto diffuso dall’altra parte della provincia, sulle colline che si affacciano verso la costa adriatica. C’è un’idea di fondo, una mezza follia, una suggestione: trovare una vigna e provare a coltivarlo, questo pecorino. Una domenica di agosto, Silvestri e Almerighi si incontrano a Trisungo, un paesino ai piedi di Arquata completamente sdraiato sul fiume Tronto. E qui trovano Noè, «proprietario di una bellissima vigna» in cui si produce il vino di casa e si vendono le uve ad altre cantine.

«Inizialmente Noè ci ha portato a vedere vari vitigni della zona, ma nessuno ci convinceva fino in fondo», ricorda ora Silvestri. «La verità è che il suo era il migliore». E Noè allora decide di dare una svolta alla storia. Settembre 2013, Noè ci pensa un po’ su e decide di vendere la sua vigna ad Amerighi. Si comincia a vendemmiare: qualche centinaio di bottiglie, niente di più. D’altra parte qui la raccolta è perennemente sotto lo scacco di condizioni meteo incerte. A Trisungo, insomma, quando è ottobre già è possibile che sia arrivato l’inverno: fare del vino da queste parti è una vera e propria scommessa, ma in fondo proprio per questo vale la pena provarci. Altra tegola: nel 2014 Noè muore e il progetto sembra sul punto di naufragare. Forse Maurizio e Stefano sono sul punto di mollare, ma un anno dopo, nel 2015, ecco un’altra svolta: arrivano le uve e la produzione sale sopra le 1.100 bottiglie. Non moltissimo, ma nemmeno pochissimo. Abbastanza perché il mondo del vino si accorga che qualcosa di nuovo (o forse di antichissimo) è nato ai piedi dell’Appennino.

Il 24 agosto del 2016 irrompe la cronaca, anzi, la Storia. Arquata del Tronto crolla sotto i colpi di un terremoto da 6.0 gradi della scala Richter. Anche la cantina di Trisungo viene giù. «Inagibile», dicono i Vigili del Fuoco che comunque riescono a salvare molto tra botti e bottiglie. Adesso, a quattro anni di distanza dall’evento che ha cambiato per sempre l’Appennino a cavallo tra le Marche, il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo, la situazione è complessa: la ricostruzione non è mai partita davvero, lo spopolamento è uno spettro sin troppo ingombrante e il futuro è una nebulosa troppo difficile da interpretare. C’è però qualcosa che resiste, ai piedi di Arquata: il vigneto di Maurizio Silvestri e Stefano Amerighi, dalle cui uve nasce poi il vino chiamato, non a caso, Noè. Come l’uomo da cui è cominciato tutto, ma anche come quello che costruì la famosa arca durante il diluvio universale. Le metafore si potrebbero sprecare, ma vale la pena tornare al principio: il vino che salva l’anarchia e l’anarchia che salva il vino, in un discorso che più passa il tempo e più appare inscindibile, quasi inevitabile. Noè, se proprio deve essere una metafora, significa resistenza. Significa titanismo, come la ginestra di Leopardi che si lascia passare sopra la lava del Vesuvio e poi, di punto in bianco, ritorna. Ritorna sempre. Significa ricordarsi soprattutto da dove si viene prima di ipotizzare dove si sta andando.

Una storia diversa rispetto a quelle tipiche degli ultimi anni, con i produttori di vino «naturale» che si sono moltiplicati e la retorica del ritorno alla terra che è un ottimo tema sul quale giocare con i filtri di Instagram. In tutta questa tradizione esibita come un trofeo, però, quello che manca, spesso e volentieri, è proprio la storia. E senza storia è difficile costruire qualcosa che duri nel tempo: «naturale» è un’etichetta che significa «vino non trattato» quasi per niente, con tutti i rischi del caso. Con inquietante frequenza, d’altra parte, in giro tra bar ed enoteche si incontrano giovani produttori che spacciano per gusti particolarissimi dei vini banalmente difettati. La prova del nove è semplicissima: la stragrande maggioranza di queste cantine non riesce a produrre due vini uguali un anno dopo l’altro. E però tutto questo funziona, soprattutto perché davanti, per lo più, si trovano sedicenti esperti in grado di fare facce molto convincenti. È una moda, passerà e non farà troppi danni. Chi ha sempre resistito continuerà a farlo, impermeabile ai capricci del mercato e agli incidenti della storia. «C’è una lezione soprattutto che ci ha lasciato in eredità Veronelli», conclude Giovagnoli con il sorriso di chi la sa lunga e la sa pure raccontare. «Per fare le cose, per farle davvero intendo, serve una cosa che in Italia non è mai stata particolarmente apprezzata: la competenza. Veronelli conosceva benissimo gli argomenti di cui parlava e scriveva. Quanti, in tutta sincerità, possono dire lo stesso?».

E qui si può chiarire definitivamente un equivoco sull’anarchia, che non è caos, non è distruzione, non è lasciare che le cose vadano come devono andare. L’anarchia, lo diceva già Proudhon, è fondamentalmente un’altra cosa. L’anarchia è ordine.

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