Il mondo come volontà e agitazione
Storia dell’anarchico Errico Malatesta, un eroe della gente che non vuole eroi
Le armi preferite dagli anarchici sono fatte di carta e non fanno male a nessuno: i libri e le riviste
Una serie su un’ideale il cui nome si usa spesso a sproposito, e sulle persone che ne hanno fatto la storia
Il pomeriggio di lunedì 20 luglio 2020, il milanese Paolo Finzi era alla stazione di Forlì. Qualcuno, dal binario di fronte, l’ha visto sui binari che camminava. Poi è passato un treno e poi più niente. Nella costellazione anarchica l’elaborazione del lutto è un qualcosa che prevede molti pensieri e, di conseguenza, molte parole. Si spiega, si racconta, si cerca di dare un senso all’impossibile da capire. Cosa passa per la testa di una persona che decide di uccidersi? Forse la domanda non ha senso, ma qualche risposta esiste lo stesso. «Era malato di depressione? Sì», spiega Enrico, il fratello di Paolo.
«Gli ho parlato a lungo, su sua richiesta, anche due giorni prima della sua morte. Non ho cercato di convincerlo. Gli ho solo chiesto di dar tempo, sino a settembre, alle pasticche, alla chimica. Non ha voluto. Aveva già scelto. Il problema non era più medico. Era esistenziale, filosofico. Sentiva di non aver più alcuna forza, fisica e non, per proseguire. Aveva un’impressione di impotenza di fronte alle sfide, anche minute, del vivere. Avvertiva un sentimento di fallimento, che gli spiegavo falso, ma senza successo. Al fondo, non riusciva più a sentire ‘suo’ questo mondo corrotto e iniquo. Non parlava di fallimento dell’anarchismo, anzi. Ma non si credeva più parte dell’universo attuale, che gli pareva estraneo, alieno. Lui, che aveva dedicato la sua vita alla liberazione degli umani, non aveva più speranza. Non l’ha negata. L’ha lasciata agli altri».
Paolo Finzi era il direttore di A Rivista Anarchica, il mensile che da mezzo secolo traccia le rotte del pensiero libertario in Italia. Nato a Milano, figlio di una partigiana socialista, Finzi è diventato anarchico nel 1968, in corrispondenza con l’apertura del circolo Ponte della Ghisolfa. Un anno dopo fu arrestato nell’ambito delle indagini sulla Strage di Piazza Fontana. Al momento dell’esplosione, però, Paolo era a casa con la febbre e venne rilasciato subito. Gli anarchici con quella bomba non c’entravano nulla, ma all’inizio tutti li guardavano con sospetto.
Ne sanno qualcosa, tra gli altri, Pino Pinelli – che precipitò da una finestra della questura milanese – e Pietro Valpreda, che solo dopo diversi anni di galera fu riconosciuto innocente. A Rivista Anarchica nascerà nel 1971 e tra i suoi più grandi lettori – e sostenitori – ci sarebbe poi stato un certo Fabrizio De André. Il cantautore genovese era solito chiudere i concerti chiedendo se tra il pubblico ci fossero anarchici, perché avrebbe avuto piacere di salutarli.
Una sera al suo camerino si presentò Paolo con una copia di A. Il resto, in qualche modo, è storia. «Paolo trovò in Fabrizio una grande fonte d’ispirazione, forse il modello dell’anarchico che aveva in mente: colto, libero, duro e gentile, ironico e romantico al tempo stesso. Puro. Era così anche lui», ricorda lo scrittore Paolo Cognetti, quello che quando vinse lo Strega nel 2017 si presentò con un fiocco nero alla Lavallière e nessuno tra i giornalisti presenti capì che si trattava di un vezzo da antico anarchico. Qualcuno il giorno successivo sostenne in un pezzo che si trattava di «un fioccone da scolaretto».
Se A Rivista Anarchica è in un certo senso una rivista generalista che tratta vari argomenti da un punto di vista libertario, da cento anni è in distribuzione anche il giornale della Federazione Anarchica Italiana, «Umanità Nova», fondata da Errico Malatesta nel 1920. Qui non c’è tanto spazio per le divagazioni, ma si detta la linea. La redazione viene nominata direttamente dal congresso della Fai, di cui Umanità Nova è espressione diretta a tutti gli effetti. «Per questo motivo – spiegano i redattori – il giornale non è uno spazio di dibattito aperto a tutti e a tutte coloro che si riconoscono in un generico libertarismo, bensì lo strumento proprio di una struttura militante». Che vuol dire? «Il settimanale ha il compito di fornire il punto di vista degli anarchici federati su quanto accade per il mondo e analizzare la realtà con le lenti del Programma di Malatesta». La decisione su cosa mettere sul giornale avviene il lunedì, quando la redazione si riunisce via Skype e decide chi scrive, chi si occupa della traduzione di pezzi o interviste uscite sulle pubblicazioni anarchiche del mondo e chi cura i contatti con i collaboratori esterni. Il fine settimana poi è dedicato all’editing e all’impaginazione. La stampa avviene il martedì, le spedizioni il mercoledì e ai diffusori arriva il giovedì. Si legge poi sulla gerenza: «Per gli abbonati, se sono fortunati, il giornale è disponibile fra il venerdì e il lunedì successivo».
Ad aspettare la rivista sono per lo più «compagni anarchici, ma anche simpatizzanti in senso ampio con una presenza in sindacati, centri sociali, associazioni, Ong e quant’altro». Da qualche mese, in allegato con il settimanale, vengono distribuiti anche dei quaderni d’approfondimento. Sin qui ne sono usciti cinque: una lunga intervista agli attivisti di Hong Kong a cura di Chrimethinc, un saggio di Alessandro Bresolin sul movimento cooperativistico, due testi critici di Flavio Figliuolo e Enrico Voccia sul rapporto tra fantascienza e anarchia e una breve storia «ad uso delle giovani generazioni» sul 1969, la strage di piazza Fontana e la strategia della tensione a cura del gruppo Michail Bakunin di Roma.
La casa base di Umanità Nova è a Carrara – la capitale italiana dell’anarchismo –, nel vecchio palazzo della Cooperativa Tipolitografica, aperta proprio dalla Fai per dare alle stampe il giornale e le pubblicazioni dei libri delle edizioni Zero in Condotta e La Baronata di Lugano, il cui nome viene dal mitologico casolare svizzero in cui Bakunin e Carlo Cafiero progettarono la fallita sommossa di Bologna del 1874.
La stampa anarchica, per il resto, è una delle più attive e vivaci. Certo, spesso si tratta di fogli scritti alla buona, stampati in maniera semiclandestina e tenuti insieme da sputi, bestemmie e graffette. Sono le fanzine, in parte eredità della stagione punk e in parte erede delle pubblicazioni anarchiche d’inizio secolo. D’altra parte, si sa, è impossibile provare a tenere gli anarchici uniti sotto un’unica insegna e ciascuno ha le proprie cose da dire, quindi in un certo senso è naturale che gli anarchici investano una buona parte del proprio tempo (e dei propri risparmi, visto che si autoproduce più o meno tutto) nell’editoria. Non si tratta solo di «cose di carta», ovviamente. Basta farsi un giro online per trovare centinaia di blog e di pagine riconducibili a collettivi o singoli militanti. C’è spazio per tutto: critica letteraria, proclami, comunicati, rivendicazioni. Parole su parole, perché l’anarchia non si spiega ma si racconta e di materiale ce n’è sempre in abbondanza.
Di solito, comunque, queste avventure durano lo spazio di un sospiro, o poco più. Ci sono «aperiodici» che escono una volta ogni tanto, numeri unici, trimestrali, semestrali, annuali, biannuali. È una questione di tempo più che di voglia, di attitudine più che di vera e propria organizzazione: tenere un conto anche solo approssimativo di tutte le uscite di area libertaria è un’impresa degna del centro di ricerca dell’Istat, da funzionari del censimento. Quasi impossibile. Talvolta, però, questi funghi che spuntano e scompaiono, riescono a sopravvivere a se stessi. E vanno avanti, dritti per la loro strada immaginaria, all’inseguimento della fiaccola che vorrebbe illuminare di libertà un mondo troppo spesso oscuro.
Siamo a Milano nel 1986 e due militanti dei Gruppi Anarchici Federati, Amedeo Bertolo e Rossella Di Leo, danno vita alla società cooperativa Antistato, poco più tardi denominata “Elèuthera”, probabilmente la casa editrice più prestigiosa in ambiente anarchico. Lo slogan è semplice – «libri per una cultura libertaria» – e nel suo catalogo, ormai composto da centinaia di titoli, hanno trovato spazio anche autori del calibro di Marc Augé, Noam Chomsky, Kurt Vonnegut, Luigi Veronelli, Ursula Le Guin, oltre ai classici Bakunin, Kropotkin e Proudhon.
«Nella storia dell’editoria italiana – spiega Goffredo Fofi –, Elèuthera costituisce anche un esempio insolito di lavoro di gruppo intergenerazionale. Sulla scia tracciata dalla leadership attenta ed esigente di Amedeo Bertolo, in un momento di grandi concentrazioni editoriali, l’esempio di Elèuthera, dal punto di vista del modo di lavorare e delle scelte è certamente uno dei più convincenti».
Amedeo Bertolo, il fondatore, è peraltro una figura centrale dell’anarchismo italiano. Fu lui, insieme a un minuscolo gruppetto di militanti, che nel 1962 diede vita alla clamorosa operazione che portò al rapimento del vice-console spagnolo a Milano Isu Elias. Lo scopo era di evitare l’esecuzione capitale tramite garrota di un militante antifranchista, Jorge Conill. Il piano del sequestro sembra uscito da un film noir. La sera di giovedì 27 settembre 1962, Isu Elias riceve una telefonata da una persona che sostiene di essere il vicesindaco di Milano Luigi Meda (Dc) per un invito a un pranzo di lavoro al ristorante La Giarrettiera. Tutto normale, tutto molto cordiale. Anzi, di più: il presunto Meda dice che, per non arrecare troppo disturbo, sarà sua cura mandare un’automobile con autista a casa del viceconsole. Il giorno dopo, a mezzogiorno e un quarto, il viceconsole entra in macchina e si trova insieme a quattro persone che, pistola in pugno, lo portano via, verso un casolare a Cugliate Fabiasco, 178 abitanti a 50 chilometri da Milano e 5 chilometri dalla Svizzera.
La liberazione avverrà la mattina del 2 ottobre in seguito a un equivoco. Bertolo aveva contattato il giornalista de Il Giorno Guido Nozzoli per affidargli il viceconsole, ma al loro arrivo a Cugliate Fabiasco i due non trovarono nessuno. Prima di loro, infatti, era arrivato Nino Puleio del settimanale scandalistico ABC, che aveva ricevuto le coordinate del covo grazie a una soffiata. I presenti, credendo che Puleio fosse il giornalista contattato da Bertolo, gli affidarono Isu Elias senza troppe storie. Poco dopo arrivarono anche i carabinieri e arrestarono tutti, tranne Bertolo, che riuscì a scappare a Parigi. Il sequestro, comunque, riuscì a smuovere le diplomazie: le pressioni sul governo di Madrid furono tali che alla fine Conill venne graziato. Il processo ai sequestratori di Elias, in Italia, pure finisce in trionfo: tutti condannati, ovviamente, ma al minimo della pena, con condanna sospesa, liberazione immediata e senza iscrizione nei casellari giudiziari. La Corte, nella sua sentenza, arrivò a riconoscere che il nucleo anarchico aveva «agito per motivi di particolare valore morale e sociale». Conill, dalla Spagna, però non si dimostrò particolarmente grato verso i compagni italiani: divenuto comunista in carcere, nelle interviste avrebbe sempre attribuito la propria salvezza all’intervento dell’allora arcivescovo di Milano Montini, futuro papa Paolo VI, che però pronunciò il proprio appello pubblico a Franco quando già la condanna a morte era stata convertita in trent’anni di carcere.
Un altro che sulle barricate (di carta) c’è salito molto giovane e non è mai sceso si chiama Marcello Baraghini. Romagnolo, classe 1943, nel 1970 ha fondato la casa editrice e agenzia di controinformazione nota come Stampa Alternativa. Pur non potendosi definire anarchico in senso stretto (né militante), Baraghini è forse il più luminoso esempio di libertarismo applicato all’editoria.
«Stampa Alternativa nacque nel ’70, fu affondata nel ’76 attraverso un mandato di carcerazione [per apologia all’obiezione di coscienza e all’aborto, ndr] a mio carico e si sciolse – racconta in un’intervista rilasciata qualche tempo fa a Luca Pakarov –. Ricominciò ma nell’89 credevamo di essere di nuovo sconfitti con l’ascesa in campo del “delinquente naturale” [Berlusconi, nda], come lo definisce il Tribunale di Milano, che aveva ristretto le regole delle librerie indipendenti. Per avere il catalogo Mondadori sacrificarono noi».
È proprio nel 1989 che nacque la collana più famosa di Stampa Alternativa, la Millelire, definita dalla Garzanti come l’etichetta che «ha rivoluzionato il mercato editoriale». Si tratta di minuscoli opuscoli stampati su carta di bassa qualità, impaginati con una grafica spartana e venduti, va da sé, al prezzo di 1000 lire. Si stima che negli anni ’90 le vendite abbiamo sfondato quota venti milioni di copie.
«Mettemmo talmente paura che si scatenò l’ira di Dio – ricorda sghignazzando Baraghini –. Ci azzopparono con strumenti subdoli, situandoci in uno stato di crisi che si è conclusa 4/5 anni fa con la liquidazione della storica casa editrice. Il concorrente [Newton Compton, ndr] utilizzò l’arma del dumping con la collana 100 pagine a 1000 lire, non si sa come, o meglio ho un sospetto: vendeva sottocosto. Più vendeva e più ci rimetteva. Al contrario di noi non scopriva nulla, prendeva lo Shakespeare scolastico con vecchie traduzioni magari ritoccate. Ma quel tipo di traduzione non faceva brillare il contenuto e andava a deperimento. Inoltre reintrodusse il diritto di resa anche di una sola copia per titoli che costavano mille lire! I librai e gli insegnanti che potevano adottarlo come libro scolastico abboccarono, non abboccarono però i lettori. Il mercato è ottuso, vuole solo redditività, non gli interessa il lettore: perché vengono pubblicati certi pornografi incapaci di scrivere? I libri oggi devono costare almeno 12 euro, sennò non producono profitto».
Il mercato. Una storia complessa, soprattutto per chi è anarchico. Come sopravvivere in un mondo in cui ogni cosa è mercato? Alla fine della fiera, ogni volta che si stampa qualcosa un occhio ai conti bisogna sempre darlo, perché la carta ha un costo, la tipografia pure, così come la distribuzione, anche se spesso avviene con il caro vecchio metodo della spedizione postale. Ecco, come si fa? La risposta, in realtà, non esiste. O meglio, esiste solo se si decide di opporre l’improbabile all’impossibile. In altre parole, si sceglie banalmente di indebitarsi e poi vedere come vanno le cose. Ovvero, chiedere periodicamente ai compagni di sottoscrivere, di aprire il portafogli per salvare (e mandare avanti) la baracca. E funziona, spesso e volentieri. Un esempio, in questo senso, è la rivista marchigiana Malamente, trimestrale di «lotta e critica del territorio» stampato in quattrocento copie al costo di tre euro a numero. Per chi decide di distribuirla, l’unico impegno è di rimandare indietro un euro a copia, meno del costo in tipografia. Ovviamente il conto corrente è perennemente in rosso. La scorsa primavera, in pieno lockdown, Malamente ha deciso di rivolgersi ai suoi lettori per raggiungere mille euro e rimettere in pari il bilancio. «Non ci siamo mai preoccupati di tenere in ordine i conti, di sollecitare i rinnovi, di recuperare con fermezza i crediti sparsi qua e là. Né tantomeno vogliamo cominciare a farlo adesso – spiegano dalla redazione –. Anzi, proseguiamo sorridendo sulla strada fallimentare di vendere la rivista a un prezzo che copre a malapena stampa e spedizione». La raccolta fondi, tanto per la cronaca, è stata un successo.
A un certo punto, però, viene naturale chiedersi a cosa serva tutto questo. Che senso abbia andare avanti se ogni volta bisogna lottare con tutte le proprie forze per imprese di cui si accorgono in pochi. Per quale motivo tante persone impieghino quantità consistenti del proprio tempo a erigere barricate di carta sempre più alte. Interrogativi legittimi, ma lo stesso discorso si poteva fare ai monaci che ricopiavano i testi sacri durante le calate dei barbari. E forse, alla fine, rispondere è più facile del previsto: non si scrive per questi tempi, ma per i prossimi. Un dettaglio, tutto sommato, per chi viene da altri tempi e verso altri tempi spera di andare.
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