Ep. 1

Torino: pronti all’impatto?

Le Officine Grandi Riparazioni di Torino - Diego Ravier
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Transizione digitale

La transizione digitale è accelerata grazie alla pandemia. E può essere un’occasione per diminuire le disuguaglianze.

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A Torino, le OGR, le Officine Grandi Riparazioni, sono state costruite a fine Ottocento e, con i loro 35mila metri quadrati, sono state per decenni il più grande stabilimento del capoluogo piemontese.

Per un secolo, tra queste mura, venivano riparati i treni. Poi, negli anni Novanta, la deindustrializzazione e l’abbandono.

Ora, dopo un progetto di riqualificazione da 100 milioni di euro sostenuto dalla locale Fondazione CRT, ospitano uno spazio culturale, un ristorante e, dal 2019, anche un centro tecnologico in cui si fa innovazione, ricerca applicata e accelerazione d’impresa: OGR Tech.

Le OGR sono da sempre un luogo simbolo: ieri, della città-fabbrica che Torino è stata; oggi, della città che vuole diventare.

E infatti ora, in questi stessi lunghi locali, si sviluppano videogiochi accessibili anche alle persone non vedenti.

Proprio qui lavorano Arianna Ortelli e Marco Andriano.

Ortelli e Andriano sono due dei fondatori della startup innovativa a vocazione sociale Novis Games, inserita in uno dei tanti programmi per giovani imprese digitali di OGR Tech. «Vogliamo sviluppare la prima piattaforma di gioco completamente accessibile a persone cieche ed ipovedenti», spiega Andriano. «Abbiamo ricevuto 175mila euro di finanziamenti, ma puntiamo a crescere ancora», aggiunge Ortelli.

Quello di Novis Games è solo uno dei tanti modi in cui digitale e sociale si incontrano. È ancora presto per dire se sia uno dei più riusciti, ma sicuramente è vivace e dinamico. Non sempre si tratta di un incontro così positivo. Anzi, a volte, quello tra digitale e sociale diventa un vero e proprio scontro.

La transizione digitale è in corso ed è un fenomeno talmente ampio che questi incontri/scontri sono destinati a moltiplicarsi.

A maggior ragione ora che il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha destinato a questo settore risorse senza precedenti. Di fronte a questi cambiamenti in atto come si comporteranno gli oltre 300mila enti non profit italiani? Sono pronti alla sfida? Oppure si lasceranno sopraffare?

Torino, che lo scorso marzo è stata scelta dalla Commissione Ue per diventare sede del Centro di competenza nazionale per l’innovazione sociale, è un buon laboratorio per provare a capirlo.

Competenze per un nuovo ruolo

Torino Social Impact è una piattaforma nata nel 2017 che oggi riunisce oltre 170 organizzazioni e che, come ha spiegato il portavoce Mario Calderini, vuole «fare di Torino il miglior posto nel mondo per essere un imprenditore sociale». È un’alleanza tra soggetti molto diversi, tra cui una sessantina di enti del terzo settore, che vuole attrarre nel capoluogo piemontese forme di imprenditorialità che sfruttano le nuove tecnologie per risolvere i problemi sociali emergenti, il tutto in maniera economicamente sostenibile.

«La percezione è che l’intersezione tra la storica vocazione all’imprenditorialità sociale della città, la densità di capacità tecnologiche sul territorio e la presenza di importanti investitori finanziari orientati all’impatto sociale, offra significative opportunità di sviluppo in questa direzione», commenta Lorenzo Bandera, ricercatore di Percorsi di secondo welfare.

Da sinistra, Marco Andriano, Arianna Ortelli e Moreno Gregori di Novis Games - Diego Ravier
Da sinistra, Marco Andriano, Arianna Ortelli e Moreno Gregori di Novis Games. Foto di Diego Ravier

Non è un caso, quindi, che una startup come Novis Games sia nata proprio sotto la Mole. E non è nemmeno un caso che tra le attività di Torino Social Impact siano previste anche iniziative per la digitalizzazione del terzo settore. La cooperativa sociale Crescere Insieme è uno degli enti che le ha seguite. «Torino Social Impact fa emergere temi importanti», dice il direttore Mauro Maurino.

«Col digitale noi del terzo settore possiamo promuovere il nostro ruolo in forma nuova», aggiunge.

La cooperativa, nata a fine anni Settanta, si occupa di minori, anziani e migranti e ha da poco lanciato il progetto Edugamers for kids 4.0, tutto incentrato su una nuova figura educativa specializzata che crea connessioni tra l’esperienza dei videogiochi e le altre esperienze di vita. «Dobbiamo usare la tecnologia per includere», dice Maurino riferendosi sia ai beneficiari delle attività della cooperativa sia agli stessi soci lavoratori. «Le nostre basi sociali sono spesso fragili e rischiano di rimanere ai margini della transizione digitale. Pensiamo, per esempio, alle operatrici sociosanitarie, in larga parte straniere, che lavorano per la nostra cooperativa».

Mauro Maurino di Crescere Insieme - Diego Ravier
Mauro Maurino di Crescere Insieme. Foto di Diego Ravier

Le difficoltà però non mancano. «Il terzo settore va al rallentatore in un mondo come quello del digitale che va velocissimo», riassume il direttore. I problemi possono essere economici, ma anche culturali. «A volte, gli operatori sociali hanno paura che la relazione, al centro del nostro lavoro, venga mediata troppo dal digitale», spiega ancora Maurino.

Vi è poi il tema delle competenze, «spesso assenti».

Qui la questione non riguarda solo il privato sociale, ma l’intero paese.

Il Desi 2021, l’indice composito che misura il grado di digitalizzazione degli stati Ue, pone l’Italia al ventesimo posto su ventisette paesi. Nel complesso, il nostro paese ha guadagnato cinque posizioni rispetto alla rilevazione dell’anno precedente, ma per quanto riguarda le competenze è nettamente sotto la media europea, fanalino di coda continentale prima solo di Romania e Bulgaria. La Banca d’Italia, inoltre, ha calcolato che esistono differenze regionali enormi, con la Sicilia ultima che fa quasi sette volte peggio del Lazio, primo. Il Piemonte è al quarto posto, ma anche qui i più fragili rischiano di restare indietro. Con i passi avanti compiuti negli ultimi anni dalla pubblica amministrazione, diversi servizi sono diventati accessibili on line, con grandi benefici per la maggoranza, ma anche con la possibilità di escludere chi non ha le competenze, e magari era già in difficoltà.

Dati e impatto

«Ai nostri soci facciamo formazione sul digitale, per esempio sull’identità digitale SPID. È utile per noi, come organizzazione, ma anche per la collettività», dice Cristina Morinilli, Compliance e ICT manager di Stranaidea.
Mentre parla nell’ufficio al primo piano della sede della cooperativa, alla periferia di Torino, la luce del tramonto le illumina il volto e, al pianterreno, brillano le tute giallo fosforescenti di decine di lavoratori che, concluso il loro turno, lasciano l’edificio.

Stranaidea è una cooperativa sociale plurima che conta 300 lavoratori e che si occupa sia di servizi per minori, famiglie e persone disabili sia di verde, rifiuti e cimiteri. Insieme ad alcuni dipartimenti del Politecnico di Torino, sta lavorando a un sistema informativo digitale integrato che, spiega Morinilli, «offrirà un’unica interfaccia per tutti gli operatori. Sarà un modo per guidare il lavoro e avere dei dati da remoto in qualunque momento».

Cristina Morinilli di Stranaidea - Diego Ravier
Cristina Morinilli di Stranaidea. Foto di Diego Ravier

Mentre Crescere Insieme, con Edugamers for kids 4.0, ha usato il digitale per innovare uno dei suoi servizi, Stranaidea lo sta utilizzando per cambiare i processi della cooperativa.

«Per fare innovazione organizzativa la digitalizzazione è una leva importante», conferma Morinilli.

Il digitale, a suo parere, aiuta la cooperativa nel rispondere alla domanda: come restiamo competitivi? «L’obiettivo del percorso che stiamo facendo – aggiunge – è misurare il nostro impatto in modo più rigoroso. Vogliamo narrare la nostra mission anche attraverso dei dati attendibili. A tutti i nostri stakeholder vogliamo spiegare che il nostro lavoro non solo è fatto bene, ma ha una ricaduta positiva sulla collettività». L’idea è che, spiegando meglio quello che si fa e quanto vale, si possano attrarre nuovi clienti sensibili.

A Stranaidea preferiscono non fare nomi, ma alcuni grandi marchi hanno affidato loro delle commesse proprio per questo motivo.

Parlando di digitale con lavoratori e volontari del terzo settore, dati e impatto sono due parole che ritornano spesso.
L'interno di OGR Tech, a Torino - Diego Ravier
L'interno di OGR Tech, a Torino. Foto di Diego Ravier

Innanzitutto, perché è la legge a prevederlo. Come chiesto dalla riforma del Terzo settore (legge n. 106/2016), infatti, un decreto ministeriale del 2019 ha approvato le Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore. Questa valutazione non è obbligatoria, ma può essere chiesta dagli enti pubblici ad alcune condizioni, un fatto che sta influenzando fortemente le scelte degli enti non profit, soprattutto di quelli che hanno molti contratti con le pubbliche amministrazioni.

Poi, possono esserci anche valutazioni legate ad altre fonti di finanziamento, come tutto il grande capitolo della finanza ad impatto sociale, che, posizionandosi a metà strada tra la filantropia e gli investimenti tradizionali, coinvolge investitori privati per finanziare attività che soddisfino bisogni sociali.

Infine, c’è anche una questione di reputazione. Dopo inchieste come Mafia Capitale, attacchi come quelli subiti dalle Ong che salvano vite nel Mediterraneo e casi mediatico-giudiziari come quello di Bibbiano, alcuni operatori sociali pensano che raccontarsi in maniera più oggettiva, dati alla mano, possa essere un modo di riguadagnare una credibilità percepita come in calo o, ormai, perduta.

Quale che siano le ragioni, valutare l’impatto sociale di un ente del terzo settore non è immediato.
Servono dati, che a loro volta, per essere raccolti e analizzati, richiedono strumenti appositi. Molto spesso digitali. Processi e pratiche che in molte aziende private sono diffusi e conosciuti, in molti enti del privato sociale sembrano novità più recenti o conquiste ancora da raggiungere, soprattutto per chi lavora con la pubblica amministrazione. Per questo è interessante il progetto ComuniCare, nato da una co-progettazione tra l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe) per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta e numerosi enti del terzo settore, tra cui la Cooperativa Animazione Valdocco.

Calcolare la recidiva

Partito nel 2018, il progetto favorisce il reinserimento sociale di persone che hanno avuto una condanna definitiva e che sono sottoposte a misure restrittive al di fuori del carcere, come gli arresti domiciliari. «Le attività proposte sono numerose e variegate: a realizzarle sono 32 enti del terzo settore e dieci enti pubblici», spiega Max Ferrua, responsabile ricerca e sviluppo della Valdocco. «Fin dall’inizio della co-progettazione è emersa la necessità di strumenti digitali e così abbiamo sostituito le schede cartacee con un form digitale», aggiunge Paola Fuggetta, assistente sociale dell’Uiepe.

Un cambiamento solo all’apparenza piccolo che ha portato diversi vantaggi per tutti gli enti coinvolti. «I principali sono il risparmio di tempo, la possibilità di verifica in itinere e una maggiore attenzione al budget», commenta Tiziana Elia, un’altra assistente sociale coinvolta. Per la parte digitale, è stato usato il software Airtable: «è uno strumento semplice, funzionale e a basso costo, che ci consente di raccogliere i dati in maniera strutturata, legandoci al concetto di impatto», aggiunge Ferrua.

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Max Ferrua, della Cooperativa Animazione Valdocco. Foto di Diego Ravier

Il progetto, infatti, prevede che i dati raccolti servano per sviluppare insieme all’Università di Torino uno studio sulla recidiva. Le ricerche sul tema in Italia sono scarse e datate. Secondo uno studio del 2007, la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere supera il 68 per cento, mentre scende al 19 tra chi sconta una pena alternativa. Avere dati più recenti e magari territoriali sarebbe prezioso per far capire l’importanza dei percorsi di reinserimento e delle misure alternative nell’evitare che le persone condannate tornino a compiere reati.

«Sarebbe fondamentale per spiegare alla cittadinanza l’utilità delle attività che facciamo», conclude Fuggetta.

Fondi, anche europei

Crescere Insieme, Stranaidea e Valdocco sono realtà che, pur con tutti i loro limiti, hanno consapevolezza dell’importanza del digitale. Ne hanno acquisita di ulteriore partecipando a I3S, un progetto nato nell’ambito di Torino Social Impact e portato avanti dalla Fondazione Torino Wireless, una partnership pubblico-privata che lavora molto con enti non profit.

«La consapevolezza il settore ce l’ha. Anche perché, per il digitale, la pandemia è stata un acceleratore», dice Donatella Mosso di Torino Wireless. Secondo Alessandra Brogliatto, di Confcooperative Piemonte Nord, «circa il 40 per cento delle nostre cooperative è consapevole che la tecnologia è fondamentale nel lungo periodo. Poi, quelle che concretizzano sono solo una parte».

Per concretizzare questa consapevolezza servono fondi, competenze e tecnologie.

Che, per gli enti del terzo settore, spesso, sono punti dolenti.

A Torino, i fondi sono arrivati dalla Camera di commercio e da fondazioni bancarie come Compagnia di San Paolo e Fondazone CRT, ma non bastano sempre per tutti i bisogni e, soprattutto, non tutti i territori hanno istituzioni così ricche e attive. Anche per questo, secondo Brogliatto, i fondi europei svolgono un ruolo «fondamentale». «Son risorse complesse da gestire, ma accelerano processi altrimenti molto più lenti», dice.

Alessandra Brogliatto di Confcooperative Piemonte Nord - Diego Ravier
Alessandra Brogliatto di Confcooperative Piemonte Nord. Foto di Diego Ravier
Donatella Mosso di Torino Wireless - Diego Ravier
Donatella Mosso di Torino Wireless. Foto di Diego Ravier

«I fondi della politica di coesione Ue sono una spinta per la digitalizzazione dell’Italia», commenta Nicola De Chiara di OpenCoesione. Tra i progetti attuati e monitorati del ciclo di programmazione 2014-2020, il cinque per cento dei fondi (europei, ma anche nazionali) delle Politiche di coesione sono stati destinati all’agenda digitale, secondo la classificazione di OpenCoesione: sono più di 2,8 miliardi di euro. Nei sette anni precedenti, erano stati 2,2 miliardi.

Sono cifre che riguardano principalmente il FESR, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, ma la digitalizzazione è un tema talmente ampio e trasversale che l’hanno sostenuta anche altre voci del bilancio Ue, come il Fondo Sociale Europeo (FSE), utile soprattutto per le competenze. Il Piemonte, per esempio, combinando 20 milioni di euro di fondi FESR e FSE, ha varato la strategia regionale per l’innovazione sociale Wecare, che prevede anche azioni legate al digitale.

E poi c’è il nuovo, enorme capitolo di Next Generation Eu.

Il programma europeo per la ripresa post pandemica finanzia il PNRR italiano, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, all’interno del quale la digitalizzazione ha un peso molto forte.

Il PNRR destina alla missione Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo più di 40 miliardi, pari al 21 per cento dell’importo totale. Per la Transizione 4.0, sono stati stanziati oltre 13 miliardi di euro. La misura, si legge sul sito del Governo vuole incentivare gli «investimenti privati in attività che sostengono la digitalizzazione» e «consiste in un regime di credito d’imposta e copre le spese da richiedere nelle dichiarazioni dei redditi tra il 1° gennaio 2021 e il 31 dicembre 2023». In particolare, viene promosso l’acquisto di beni materiali e immateriali 4.0 (macchine di produzione controllate da sistemi informatici, 3D, intelligenza artificiale, software per la gestione aziendale), la formazione, le attività di ricerca e sviluppo. Si tratta pur sempre di investimenti, ma è qui che gli enti del terzo settore, insieme alle tante PMI italiane, potrebbero trovare risorse insperate.

Contaminazione e interdisciplinarità

Quando si parla di competenze e tecnologie, il discorso si fa più complesso e sfumato. Molti enti non profit non hanno al loro interno né le prime né, soprattutto, le seconde. E quindi, se vogliono fare progressi in campo digitale, devono aprirsi. Stranaidea ha lavorato col Politecnico di Torino; Crescere Insieme sta dialogando con alcune aziende di videogiochi; Valdocco ha una collaborazione con la facoltà di design dell’Università di Torino per un progetto dedicato a persone affette da sclerosi multipla.

«Contaminazione e interdisciplinarità sono fondamentali», commenta Morinilli, che è arrivata a Stranaidea dal privato, in veste di consulente esterna. «Il non profit deve dialogare e collaborare col profit, per mettere a valore le differenze e le complementarietà», aggiunge.

Una sfida non facile, ma ambiziosa e cruciale. Anche a livello nazionale.

Il progetto I3S, tra i suoi obiettivi, ha proprio quello di far incontrare e conoscere organizzazioni del terzo settore e aziende ICT, per favorire la nascita di un mercato di digitale e tecnologia rivolta al sociale.

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L'interno di OGR Tech, a Torino - Diego Ravier

Per Lorenzo Bandera di secondo welfare, «il digitale può essere uno degli strumenti con cui rispondere a bisogni sociali crescenti, a maggior ragione dopo che la pandemia ha acuito le disuguaglianze già presenti nel nostro Paese e colpito duramente molti enti non profit». «Dopo la fase più dura del distanziamento sociale, in cui molte realtà del terzo settore hanno corso per riconvertire i loro servizi grazie, appunto, al digitale, ha iniziato a crescere la consapevolezza di come serva un cambio di approccio su questo tema. Chi era già avanti ha accelerato, altri sono partiti, altri ancora stanno cercando di capire come poter iniziare», riflette il ricercatore.

Di esempi interessanti se ne iniziano a osservare diversi, non solo a Torino, ma in varie parti d’Italia.
E, spesso, grazie ai fondi della politica di coesione Ue.

A Viareggio, la Cooperativa Sociale Crea ha sperimentato l’uso di robot nell’assistenza a persone con disabilità. A Macerata, il Faro Sociale sta implementando intelligenza artificiale e big data nelle terapie per bambini con disturbi dello spettro autistico. A Bergamo, la cooperativa Kaleidos ha lanciato la piattaforma di telemedicina Net-Medicare mentre, nel milanese, la cooperativa Stipes ha aperto un centro di ricerca per tecnologie digitali in educazione.

«Mi sono emozionato»

«Il privato sociale è un mondo ampio ed eterogeneo. Il punto centrale sarà capire quante e quali delle sue organizzazioni saranno capaci di usare strumenti e competenze digitali per seguire la loro mission», riflette Bandera. Maurino di Crescere Insieme aggiunge: «il terzo settore è prezioso perché è dentro i problemi. Siamo capaci di individuarli, ma non sappiamo proporre soluzioni digitali. Servono esperti con cui lavorare».

È quello che, nel loro piccolo, stanno facendo gli startupper di Novis Games.

Marco Andriano, ipovedente e volontario di Apri Onlus, ha conosciuto Arianna Ortelli quando il progetto di fare videogiochi accessibili era ancora agli inizi. «In una prima fase, volevamo realizzare una console che consentisse di giocare anche a chi non vede. Marco ci ha aiutato a definire meglio la mission», ricorda Ortelli. L’idea di partenza rischiava di essere ghettizzante e così si è virato verso la creazione di strumenti per rendere i videogiochi già esistenti accessibili a tutti.

I componenti di Novis Games in riunione all'interno di OGR Tech, a Torino. Foto di Diego Ravier
I componenti di Novis Games in riunione all'interno di OGR Tech, a Torino. Foto di Diego Ravier

«Il terzo settore ci garantisce il punto di vista delle persone ipovedenti, è fondamentale», spiega Andriano, che nel frattempo è entrato stabilmente a far parte della startup. Novis Games collabora tutt’ora con Apri Onlus e anche con l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti per alimentare una comunità di persone che testano i loro prodotti con critiche e consigli.

Non è sempre facile.
Da quel che raccontano i giovani imprenditori, si capisce quanto tecnologia e terzo settore siano mondi ancora molto diversi e distanti, per tempi e soprattutto culture. Unirli però può avere esiti sorprendenti.

«Non avevo mai avuto la possibilità di usare un videogioco», confida Andriano.
«La prima volta, mi sono emozionato».
Per questo, per quanto lungo e complesso, l’incontro/scontro tra digitale e sociale ha senso.

Perché può cambiare la vita delle persone. A Torino, e non solo.
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