Ep. 01

Cosa c’è dietro un acronimo

Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo,ho dentro me tutti i sogni del mondo. (Fernando Pessoa)

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Neet. Senza una meta.

Quello dei NEET è un fenomeno complesso: dietro a un acronimo ci sono implicazioni da comprendere e affrontare.

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Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo,
ho dentro me tutti i sogni del mondo.
Fernando Pessoa

Raffaele vorrebbe svegliarsi tutti i giorni per andare al lavoro, ma un lavoro non ce l’ha. Ha 29 anni, una laurea e una specializzazione. Vive a Bagnoli, periferia a nord di Napoli. Il tempo lo riempie con piccoli lavori saltuari e qualche giornata da cameriere. Non ha un impiego fisso, non può comprarsi una casa né fare progetti per il futuro, un buco nero attraverso il quale non riesce a passare nessun fascio di luce.

Raffaele è uno dei 2,1 milioni di giovani italiani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione.

Per identificarli, è stato coniato l’acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training). Nel 2019, secondo Eurostat, erano il 22,1% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. Con la pandemia, sono diventati il 23,3%, il dato peggiore in Europa, dove la media di ragazzi NEET è del 13,7%. «Non ho grandi pretese, per la mia vita vorrei solo un lavoro che mi soddisfi» dice Raffaele «mi sento letteralmente abbandonato. La nostra età non è rispettata. Mi sento un NEET perché non ho un percorso chiaro davanti a me».​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

Quella dei NEET, in effetti, sembra essere più una condizione che una categoria definita di persone. Possono rientrare in questa tipologia adolescenti che hanno abbandonato la scuola, universitari che hanno perso la motivazione o sono in cerca di opportunità post-laurea, così come disoccupati, immigrati in attesa di collocamento, donne che dopo una gravidanza non hanno più lavoro. Si può diventare NEET anche per una breve fase della propria vita o restarci più a lungo. Il tratto comune è un malessere sociale che si riassume in un senso di inadeguatezza, mancanza di fiducia nel futuro e frustrazione per non sentirsi realizzati.

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Raffaele, 29 anni. Napoli.

Gli studiosi Guido Lazzarini, Luigi Bollani, Francesca Silvia Rota e Mariagrazia Santagati hanno dedicato all’analisi del fenomeno il libro From NEETNeet to need – Il cortocircuito sociale dei giovani che non studiano e non lavorano, frutto di un progetto di ricerca durato 4 anni e ancora in corso.

«Volevamo capire chi fossero i NEET» spiega il sociologo Guido Lazzarini a Slow News «li abbiamo cercati a lungo e abbiamo parlato con loro, anche se trovarli non è stato semplice». Perché chi è senza lavoro e senza occupazione è irraggiungibile, è fuori dalle reti sociali, fuori dalle associazioni. E, anche quando emergono dalla loro irreperibilità, non vogliono parlare. Tuttavia, grazie all’analisi delle storie di vita delle persone che si sono aperte, i ricercatori sono riusciti a individuare quattro tipologie di NEET.

Gli alternativi, coloro che al percorso predefinito di studio e lavoro si costruiscono altre strade con altri strumenti; gli impreparati, chi entra nel mondo del lavoro ma in modo fragile, con poca formazione e poche competenze; gli scartati, le persone più sofferenti, con diplomi raggiunti in modo non brillante e carriere scolastiche segnate da bullismo e abbandono scolastico, e poi gli indifferenti, giovani che subiscono questa condizione, si chiudono, smettono di inviare curricula e cercare lavoro. Sono quelli che hanno chiuso con il mondo, un mondo che non li accetta e non li valorizza.

Ma come si diventa NEET? Come si cade in questo stato in cui il tempo sembra sospeso, indefinito? La ricerca portata avanti da Lazzarini ha dimostrato che «i fattori causativi sono tanti». Povertà educativa, esperienze di fallimenti scolastici, situazioni economiche poco favorevoli.

Ma il problema non è nessun fattore, nello specifico. «Si diventa NEET quando le difficoltà si sommano: è allora che diventano difficili da gestire, e si cade in questo malessere provocato da condizioni oggettive, reali, concrete», ci spiega Lazzarini. Una povertà economica, dunque, ma anche sociale e culturale. In una società sempre più competitiva, in cui i rapporti solidaristici sono rari e il sé trova appagamento solo nell’autodeterminazione, non avere un posto nel mondo equivale a sentirsi inutili, stare ai margini. E l’impossibilità di costruirsi un futuro porta a una sorta di adolescenza prolungata, che dagli studi dell’obbligo si estende fino ai (e spesso oltre) trent’anni.

In Italia, chi proviene da una famiglia con basso livello di istruzione ha il 200% di probabilità in più di diventare NEET (Eurostat, 2016), ma ad essere determinanti sono anche la geografia e il genere. Una donna del Sud ha il 56% di probabilità in più di diventare NEET rispetto a una giovane del Nord. Se è vero, quindi, che il primo fattore a incidere è lo stato economico-sociale della famiglia d’origine, «il divario tra il Nord e il Sud del Paese è drammatico. Abbiamo un’Italia spaccata in due», dice Francesca Silvia Rota, ricercatrice del CNR che ha partecipato al lavoro From Neet to need, a Slow News. «La situazione al Sud è ancora più allarmante, se non ci fossero le condizioni che permettono ai giovani di rimanere a casa con i genitori o pagarsi un affitto a basso costo, avremmo intere generazioni che rischiano di stare per strada». Come riporta la stessa Rota nel suo studio, l’Italia, oltre ad essere il paese europeo dove i Neet sono più numerosi, è anche quello con la maggior parte di regioni problematiche: Sardegna, Campania, Puglia, Basilicata, Molise hanno tutti una percentuale di NEET superiore al 25% (Eurostat, 2017). In Sicilia e Calabria si arriva anche al 35%.

E con il Covid la situazione si è ulteriormente aggravata: dopo un lento trend di crescita, il 2020 ha segnato una battuta di arresto della percentuale di occupati. I primi ad aver perso il lavoro, nei primi mesi della pandemia, sono stati proprio i giovani e i precari. Secondo i dati rilevati da Openopolis, la quota di occupati tra i 15-24 anni ha subito un calo vertiginoso tra febbraio e marzo 2020, pari a -2,6 punti. Una tendenza «in parte correlata alla maggiore frequenza, tra i più giovani, di contratti di lavoro precari, a tempo determinato o in ogni caso meno stabili e più facili da interrompere, rispetto alla media», scrive la Fondazione.

«Con la pandemia le possibilità sono state ancora di meno», racconta Raffaele, che ora aspetta con ansia il concorso per la scuola: è iscritto alle graduatorie di supplenza di terza fascia, e spera di poter superare la prova. Altrimenti, «proverò a fare stabilmente il cameriere, in alcuni ristoranti mi sono trovato bene» dice«anche se si lavora spesso in nero, troppo e senza sicurezze».

Raffaele non è ottimista per il suo futuro: «Nessuno si occupa dei giovani, e siamo in tanti nella stessa situazione. Quando ti trovi in un momento come questo, e non riesci a vedere di meglio, ti abbatti. Ma io non voglio questo, non voglio abbattermi, vorrei di più dalla mia vita»”.

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Dino, 34 anni. Napoli.

Anche Dino, 34 anni, è di Napoli. È stata la pandemia a farlo tornare in Campania dopo tre anni trascorsi in Spagna a specializzarsi in urbanistica e paesaggio. Con Raffaele, ha partecipato al progetto OccupAbility, promosso dal Comune di Napoli a gennaio del 2021 e rivolto a un gruppo di dieci NEET.

Attraverso corsi online e incontri in presenza, in collaborazione con l’Associazione NapolinMente, i partecipanti hanno potenziato le loro competenze trasversali ma, soprattutto, hanno scoperto di non essere soli. «Nell’anno della pandemia non c’è stata nessuna possibilità di lavoro, nulla. Partecipando a quel progetto almeno ho capito che non ero l’unico in quella situazione», spiega Dino. Un anno e mezzo “strano”, passato a pensare a come reinventarsi, mentre «tutto il mondo ti cade addosso».

«Quando mi sono laureato in architettura tutte le speranze erano state già spazzate via dalla crisi del 2008. Poi sono andato fuori, come tutti. Prima in Germania, poi in Spagna». L’alternativa per rimanere in Italia era Milano, «ma anche negli studi importanti vieni pagato 500 euro al mese, con turni esagerati. E con le spese non ci rientri». Chi va avanti, dice Dino, lo fa perché ha alle spalle una famiglia che può aiutarlo.

Se le possibilità sono poche, quindi, a coglierle sono soprattutto i giovani che possono permettersi master e specializzazioni di alto livello. L’Università, da sola, non è più la porta di accesso a un posto di lavoro qualificato e retribuito.

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