Ep. 04

Costrette a dover scegliere

L’Italia è tra i paesi europei che registrano il divario più grande tra NEET uomini e donne.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Neet. Senza una meta.

Quello dei NEET è un fenomeno complesso: dietro a un acronimo ci sono implicazioni da comprendere e affrontare.

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Ferma.

È così che si sente Sara (nome di fantasia). Una laurea in storia dell’arte e apprendistati in vari musei della sua città: Napoli. Da quando ha smesso di studiare ha collezionato corsi di perfezionamento e attestati di lingua. Ma a 31 anni, senza un contratto, Sara avverte la sensazione del tempo che scorre via, mentre per lei diventa sempre più difficile pensare di poter comprare una casa, o costruirsi una famiglia. «Questa pandemia ha peggiorato ulteriormente la situazione, per noi precari è stato come toccare il fondo. Ma sono pronta a fare di tutto, pur di lavorare. Accetterei anche impieghi faticosi» racconta a Slow News. «Tutto pur di non dipendere da qualcuno. Ho trent’anni, e senza una posizione lavorativa è difficile andarsene di casa e crearsi una propria famiglia. Non riuscire ad avere un lavoro, da questo punto di vista, è un fallimento non solo professionale, ma anche personale»

L’Italia non è solo uno tra i paesi europei con il numero più alto di Neet tra i suoi giovani, ma anche quello che registra il divario più grande tra uomini e donne, come certifica Eurostat: il 35% delle ragazze italiane non studia e non lavora, contro il 24% dei coetanei maschi. Anche se l’inattività femminile accomuna anche gli altri Stati europei, in Italia il fenomeno è più rilevante, e aumenta con l’avanzare dell’età delle ragazze: si passa dal 26,7% della fascia d’età under 25, al 39,4% delle over 35. Segno evidente che la maternità influisce ancora pesantemente sulle possibilità di studio o lavoro delle donne: il 40% delle madri, anche se ha avuto in precedenza esperienze di formazione o lavoro, le interrompe con la gravidanza. E se aumenta il numero di figli, diminuisce ancora di più la possibilità di reinserirsi in un percorso lavorativo.

La pubblicazione digitale La vita delle donne e degli uomini in Europa – un ritratto statistico, elaborata da Istat ed Eurostat, ha evidenziato che, nel 2019, il tasso di occupazione per le donne senza figli è il 54,5%, mentre è il 70% per gli uomini. Con un figlio, il tasso aumenta al 58,8% (media UE 72%) per le donne, e all’80% per gli uomini (UE 87% ). Per le donne con due figli, il tasso rimane quasi invariato al 57,5% (UE 73%), mentre quello degli uomini aumenta all’87,9%. Per le persone con tre o più figli, il tasso di occupazione diminuisce al 46% per le donne (UE 58%), mentre per gli uomini è dell’85,1%.

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Foto – ActionAid

Queste percentuali ci suggeriscono che la cura dei figli e dei lavori domestici grava ancora maggiormente sulle donne. In tutti gli Stati membri dell’Unione Europea c’è una percentuale maggiore di donne, rispetto agli uomini, che si occupa della cura dei figli, dei lavori domestici e della cucina. In Italia, nel 2016, il 97% delle donne tra i 25 e i 49 anni (con figli minorenni) si prende cura dei propri figli quotidianamente, rispetto al 73% degli uomini. Riguardo alle attività domestiche e alla cucina, le differenze sono ancora più ampie: l’81% delle donne cucina e/o svolge attività domestiche quotidianamente, rispetto al 20% degli uomini.

Il muro che impedisce alle donne, più degli uomini, di trovare un impiego, sembra essere riconducibile quindi agli impegni che hanno a che fare con la cura della sfera familiare. Dal punto di vista delle competenze e della preparazione, infatti, le donne registrano risultati migliori degli uomini, come è emerso dall’ultimo rapporto del consorzio Almalaurea, presentato a gennaio 2022, intitolata “Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali”.

Secondo il rapporto, che ha analizzato quasi un milione di risposte, le donne costituiscono quasi il 60% dei laureati in Italia, e registrano performance migliori sia in termini di regolarità negli studi sia di voto di laurea (concludono gli studi in corso il 60,2% delle donne, rispetto al 55,7% degli uomini; il voto medio di laurea è, rispettivamente, pari a 103,9 e 102,1/110). Eppure gli uomini sono più valorizzati sul mercato del lavoro, guadagnano il 20% in più e occupano professioni di più alto livello. La pandemia, poi, ha ulteriormente ampliato i differenziali di genere, soprattutto in termini di tasso di occupazione. E a cinque anni dal titolo, in presenza di figli, il divario di genere si amplifica ulteriormente.

Le donne dimostrano migliori performance pre-universitarie (voto medio di diploma 82,5/100, mentre è 80,2/100 per gli uomini); provengono più di frequente da percorsi liceali (l’80,7%, rispetto al 68,0% degli uomini); prendono parte più degli uomini alle esperienze di tirocinio curriculare (61,4% rispetto al 52,1%) e alle esperienze di lavoro durante gli studi (66,0% rispetto al 64,0%. Ma gli esiti occupazionali confermano le note differenze di genere: nel breve e nel medio periodo il tasso di occupazione registra percentuali a vantaggio degli uomini: tra i laureati di primo livello a cinque anni dal titolo pari all’86,0% per le donne e al 92,4% per gli uomini; tra quelli di secondo livello rispettivamente pari a 85,2% e 91,2%.

Ma gli uomini sono avvantaggiati anche sulla tipologia contrattuale, con una percentuale maggiore di contratti a tempo indeterminato (64,5% per le donne e 67,4% per gli uomini). Per le donne, invece, prevalgono i contratti non standard, ossia principalmente alle dipendenze a tempo determinato (17,0% per le donne e 12,2% per gli uomini), e sono occupate – più degli uomini – nel pubblico. Settore in cui i tempi di stabilizzazione contrattuale sono notoriamente più lunghi in molteplici ambiti, tra cui, ad esempio, quello – tipicamente femminile – dell’insegnamento. Anche dal punto di vista degli obiettivi lavorativi, nel 2020 le laureate dichiarano un maggiore interesse per la stabilità del posto di lavoro (+11,0 punti percentuali), l’utilità sociale (+10,4 punti percentuali), la coerenza con gli studi (+9,4 punti percentuali) e l’indipendenza o autonomia nel lavoro (+8,9 punti percentuali). Gli uomini, invece, ricercano maggiormente la possibilità di guadagno e il prestigio ricevuto dal lavoro.

Nel 2017, rispetto a dieci anni prima quando la percentuale delle donne di ruolo nei diversi gradi di scuola era dell’80,6%, la percentuale era aumentata di oltre due punti, arrivando all’82,7%

«Guardando la platea dei Neet la prima osservazione che balza agli occhi è che mentre fra i maschi il tasso di Neet tende a scendere con l’avanzare degli anni, la componente femminile, all’interno della categoria giovani Neet, cresce con l’età. Quindi meno rilevante tra i 15 e 19 e più ampia verso le età centrali.  Le motivazioni quindi possono essere diverse, e vanno dal background familiare e di contesto, alla sfera della rappresentazione personale, alle condizioni di ingaggio del mercato del lavoro» spiega a Slow News Valentina Cardinali, esperta di tematiche di genere e Responsabile della Struttura Mercato del lavoro INAPP (Istituto nazionale per le politiche pubbliche). «Proprio perché l’età media al primo figlio per le donne è intorno ai 30 anni, la condizione di maternità incide sicuramente, ma attenzione a stabilire relazioni di causa effetto».

Secondo Cardinali, quindi, a pesare sull’inattività delle donne è soprattutto l’incertezza economica, la minore remunerazione, contratti più fragili e discontinui. Una condizione che predispone quindi le neomamme a lasciare il lavoro. «L’assenza di un welfare reale di supporto, sia in termini di servizi che di accessibilità economica degli stessi, una cultura della condivisione dei carichi di cura tra uomini e donne che non è ancora paritaria, induce le donne, in quanto soggetto in media economicamente più debole in famiglia e culturalmente considerato ancora come titolare della funzione di cura, a dover spesso pagare la scelta tra lavoro e non lavoro», argomenta la studiosa.

A dimostrare questa tendenza è anche il periodo di post lockdown, in cui la ripresa progressiva del lavoro è stata prevalentemente riservata agli uomini. Nel 2020 più di 30mila donne si sono dimesse volontariamente in presenza di figli da 0 a 3 anni, contro i circa 9mila padri. A due anni dall’inizio della pandemia la situazione non si è ancora stabilizzata e la lenta ripresa dell’occupazione femminile avviene in forme precarie ed a orario ridotto. Il Gender policies report dell’INAPP, mostra come oltre il 60% dei contratti delle donne è precario e il 49, 6% di tutte le nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6 % degli uomini.

Cardinali spiega che anche il concetto di inattività, che riguarda uomini e donne, ha peculiarità e motivazioni diverse tra i due sessi. «L’inattività maschile continua ad essere prevalentemente motivata da esigenze personali e di studio o formazione, pensione o disinteresse al lavoro anche per motivi di età. Segue lo scoraggiamento, l’attesa di esiti di passate azioni di ricerca di lavoro ed in ultimo i motivi familiari» dice a Slow News l’esperta

«Per le donne, al contrario, il principale motivo della condizione di inattività sono i motivi familiari, seguiti da studio, formazione professionale; quindi pensione e scoraggiamento. In ultimo, l’attesa di esiti di passate azioni di ricerca. Tale dato fa desumere, per la componente femminile, che è nettamente diminuita l’inattività strutturale legata alle opportunità offerte dal mercato del lavoro e non mediata da valutazioni personali sulla necessità od opportunità di lavorare. Quella che invece permane ed è anzi aumentata è l’inattività femminile indotta da fattori esogeni non strettamente riconducibili alla configurazione del mercato del lavoro e alla sua strutturazione di opportunità, ma propri del contesto familiare e di prossimità su cui incide il care burden».

Per Valentina Cardinali, quindi, l’Italia è un Paese in cui è «ancora molto diffusa una cultura organizzativa stereotipata rispetto al genere, che racconta di una serie di pratiche discriminatorie all’accesso e alla progressione di carriera di risorse femminili su cui si effettua un investimento parziale, poiché, in quanto probabili future madri o comunque titolari di una funzione di cura ad ampio spettro, non sembrano garantire quella produttività ritenuta necessaria con la presenza fisica e temporale».

Le donne fanno di tutto per prendersi cura dei parenti più piccoli, menomati o anziani, facendo sacrifici personali, spesso a caro prezzo della propria salute e del proprio benessere. “Burden of care” è un concetto che descrive i problemi fisici, emotivi, sociali e finanziari che possono essere vissuti dai caregiver familiari.

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Foto – ActionAid

Tuttavia, secondo l’esperta, per aiutare le giovani Neet a uscire da questa condizione non sono necessarie politiche rivoluzionarie, ma piuttosto un passaggio culturale che cambi la mentalità organizzativa del lavoro e un investimento sulle competenze delle giovani donne. Più difficile da attuare il primo punto; sul secondo, invece, associazioni e progetti sono già al lavoro con iniziative che mirano a coinvolgere attivamente i giovani nella definizione e costruzione del proprio progetto di vita. Tra questi, c’è anche Lavoro di squadra, un’iniziativa di ActionAid attiva dal 2014 che ha l’obiettivo di promuovere l’empowerment dei Neet che vivono in contesti periferici: un percorso motivazionale che valorizza le competenze dei giovani e mira a costruire con loro progetto formativo. In questi anni, il progetto è stato realizzato a Torino, Alba, Milano, Bari e Reggio Calabria

«Una delle prime attività che facciamo è far conoscere i servizi, anche gratuiti, che offrono la città e il territorio», racconta Vittoria Pugliese, che coordina per ActionAid lo sviluppo strategico sull’empowerment delle donne che hanno subito violenza, con focus sulle ragazze Neet; due ambiti che spesso coincidono, perché una ragazza Neet è più vulnerabile e «può subire violenza o, viceversa: se vittima di una violenza può succedere che una donna smetta di lavorare o studiare». Vittoria Pugliese spiega che «è molto difficile intercettare le ragazze. Ci siamo chiesti più volte perché. Alcune volte le ragazze non possono partecipare al progetto o lo abbandonano perché devono occuparsi della cura della famiglia». Il rischio, quindi, è che anche dopo aver coinvolgo le ragazze, il progetto si interrompa «perché hanno il fidanzato geloso o perché restano incinta durante la realizzazione delle attività». Secondo l’esperienza di Pugliese «sta aumentando la percentuale di ragazze con gravidanze precoci, e questo influisce sul percorso formativo e lavorativo delle ragazze. Perché sono donne che poi non rientrano nel mercato del lavoro».

Ma dopo anni di lavoro con i giovani Neet in tutta Italia, Vittoria Pugliese può anche affermare che «dando spazio a questi giovani, il tasso di riattivazione è molto alto: i giovani tirano fuori i loro talenti. Si iscrivono a corsi di formazione, fanno esperienze di volontariato o servizio civile. Quello che noi facciamo è semplicemente valorizzare le loro competenze».

L’obiettivo del progetto ActionAid è principalmente quello di valorizzare le soft skills, per aumentare l’autostima e presentarsi ai colloqui in modo diverso. «Il sentimento che attraversa i Neet è la sfiducia, aumentata ancora di più con la pandemia» dice Pugliese. «Le ragazze non sono meno intraprendenti, ma hanno meno accesso alle opportunità. Noi vogliamo rendere consapevoli i giovani dei loro diritti». Il contesto sociale, quindi, è l’elemento che pesa di più, e inizia a gravare sul futuro dei più giovani fin dal periodo scolastico.

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Foto – ActionAid

Joyce ha 25 anni e vive in provincia di Milano. Dopo il diploma si è iscritta alla facoltà di ingegneria, ma si è subito resa conto che non era il suo percorso. «Ero convinta da sempre che fosse la mia strada, ma quando i risultati non sono arrivati ho cominciato a sentirmi una fallita. Dovevo scegliere se continuare l’università in maniera testarda o avere il coraggio di lasciare» racconta a Slow News. «Grazie al progetto di ActionAid ho capito che avevo delle capacità che non credevo di avere. Noi ragazze ci siamo ritrovate in contesti simili al mondo del lavoro e ci siamo messe in discussione. Anche dal punto di vista dei limiti: ho capito che anche se non so fare una cosa, posso imparare a farla. Questo mi ha dato molta speranza».

Per Joyce il problema è anche la mancanza di orientamento a scuola. «In quinta superiore la cosa più importante è superare l’esame di maturità, non si pensa al futuro. Io sapevo solo che mi piacevano la tecnologia e l’informatica, ma non sapevo di più», dice. Anche secondo Vittoria Pugliese, «è fondamentale garantire l’orientamento nelle scuole, un orientamento che non si focalizzi sulle caratteristiche dei lavori o dei percorsi di studi ma che valorizzi le capacità, le competenze e i desideri dei giovani, che non vengono ascoltati».

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