Ep. 02

La battaglia per i boschi urbani è cominciata

Ci sono cittadini che difendono da anni l’area del lago Bullicante per migliorare le condizioni delle aree verdi.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Roma selvatica

Un lago, nato dagli scavi del cantiere di un centro commerciale, in meno di trent’anni ha dato vita a un monumento naturale.

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Alle 17 di un sabato pomeriggio di metà ottobre, la luce del sole che cala verso ovest filtra tra le foglie degli alberi. Sul lago Bullicante sta scendendo un tramonto verde e azzurro striato di giallo. Una cinquantina di persone sta partecipando all’assemblea pubblica “per la costruzione della Rete ecologica di Roma Est”. Ci sono cittadini che difendono da anni l’area del lago Bullicante, comitati e movimenti di quartiere in prima fila per migliorare le condizioni delle aree verdi del quadrante e per creare nuovi parchi, associazioni ambientaliste, realtà sociali. Poco prima la presentazione del libro La terra salvata dagli alberi del professore ordinario di Arboricoltura dell’Università di Firenze, Francesco Ferrini, scritto insieme a Ludovico Del Vecchio, si era trasformata in un momento di formazione.Marco Corirossi, attivista del centro sociale Ex-SNIA, qualche giorno prima dell’assemblea mi aveva detto: «Ci sono voluti trent’anni per fermare l’edificazione sui 14 ettari dell’area dell’ex-SNIA. Ora è il momento di andare avanti: vogliamo un piano di forestazione urbana. Siamo nel mezzo di una crisi ambientale e le conseguenze degli effetti del cambiamento climatico li viviamo già sulla nostra pelle. I movimenti globali per la giustizia ambientale manifestano per chiedere ai governi di affrontare questa situazione, noi riteniamo che le soluzioni vadano rivendicate anche attraverso le battaglie sui territori».

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Roma. Un momento della presentazione del libro La terra salvata dagli alberi al Monumento naturale dell’ex-SNIA. Foto di Ylenia Sina

Il quadrante che va dalla prima periferia est della città verso il Raccordo Anulare, con oltre il 60 per cento di suolo consumato, è tra i più edificati di Roma. Nei quartieri adiacenti al lago Bullicante la densità abitativa supera i 10.500 abitanti per chilometro quadrato con una ‘dotazione di verde minima’ pari alla metà di quanto previsto per legge (9 metri quadrati). Per questo i terreni rimasti liberi vengono visti dai residenti come una risorsa preziosa. «Siamo decisi a chiedere che queste aree vengano usate per soddisfare il bisogno di verde degli abitanti, generare ossigeno, riconnettere i quartieri con un sistema di mobilità sostenibile, tutelare la biodiversità», mi aveva spiegato Corirossi.

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Roma, Prenestino-Labicano. Terreno non edificato e incolto. Foto di Ylenia Sina

Per capire meglio questa rivendicazione bisogna osservare la città dall’alto. Come immaginare un cono bidimensionale: la punta è occupata dai quartieri più vicini al centro – Pigneto, Tor Pignattara, Prenestino-Labicano – e poi c’è la parte che via via si allarga verso est, racchiusa dall’autostrada A24 a Nord e dalla consolare via Casilina a Sud. Se si osserva la mappa satellitare, si vedono due cinture verdi parallele unite a Sud dai 120 ettari di parco archeologico di Centocelle e a Nord da un corridoio, anch’esso verde, che corre lungo il tracciato dell’A24. Insieme formano una sorta di quadrilatero che a sua volta si collega con il più ampio sistema dei parchi cittadino. Se si esce dalla versione satellitare di Google Maps, però, di questo quadrilatero resta soltanto qualche isola, quella dei parchi pubblici. Tutto il resto si divide tra terreni edificabili, parchi pianificati ma mai realizzati e abbandonati, qualche orto urbano privato, scarti.

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Roma, Collatino. Il bosco della ‘zona umida’ di via Grotte di Gregna. Foto di Ylenia Sina

Riportare la natura in città è tra i punti della Strategia dell’Unione europea sulla biodiversità per il 2030 approvata il 20 maggio 2020 dalla Commissione europea. «La recente pandemia di Covid-19 ci insegna quanto mai sia urgente intervenire per proteggere e ripristinare la natura», si legge tra le premesse. Per questo la Strategia invita le città con almeno 20mila abitanti a elaborare entro la fine del 2021 “piani ambiziosi di inverdimento urbano”. A spiegarmi perché le città traggono benefici dalla presenza di foreste urbane è Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area per la protezione delle specie e degli habitat terrestri e la gestione sostenibile delle aree agricole e forestali dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). «Partiamo da un punto fondamentale: al di là degli effetti sull’ambiente, il contatto con la natura contribuisce al benessere delle persone. Migliaia di bambini che vivono in città conoscono i boschi solo attraverso il cinema o la letteratura. Per loro stare nella natura è un momento formativo».

Il progressivo allontanamento dell’umanità dagli ambienti naturali non è un aspetto secondario. Nel 2005 l’educatore Richard Louv, fondatore di Children & Nature Networkcon il termine ‘disturbo da deficit di natura’ ha introdotto un nuovo paradigma clinico per indicare le conseguenze sulla salute fisica e psichica dei bambini. Nel 2018 il Ministero della Salute ha promosso un progetto per diffondere la consapevolezza su come il contatto con spazi verdi e ricchi di biodiversità porti benefici alla salute e allo sviluppo dei bambini.

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Roma, Collatino. Orto urbano all’interno della ‘zona umida’ di via Grotte di Gregna. Foto di Ylenia Sina

Chiedo a Ciccarese in che misura la presenza di boschi urbani contribuisca alla lotta ai cambiamenti climatici: «Riducono l’impatto sulle città degli eventi naturali estremi, come piogge abbondanti e venti molto forti. In estate limitano la cosiddetta ‘isola di calore’ [fenomeno che determina un microclima più caldo all’interno delle aree urbane, ndr], in inverno esercitano un effetto coibentante rallentando la dispersione del calore o fungono da frangivento. Possiamo parlare più di adattamento ai cambiamenti climatici che di mitigazione, termine che nel nostro gergo significa riduzione delle emissioni di gas serra». Ciccarese mi spiega che tutto ciò riduce anche i consumi energetici legati all’uso di condizionatori e riscaldamenti, e di conseguenza abbassa le emissioni in atmosfera. Quanto impatta, invece, la capacità di assorbimento di anidride carbonica e di abbattimento di sostanze inquinanti da parte degli alberi? «Questo aspetto è un po’ sopravvalutato. Le piante contribuiscono a ridurre gli inquinanti nell’aria e assorbono anidride carbonica, ma la capacità di fissazione del carbonio da parte delle foreste urbane, per quanto importante, è trascurabile rispetto al volume di emissioni generate dall’attività umana, in particolare nei grandi agglomerati urbani. In Italia ogni anno una persona emette a causa dei suoi consumi circa 7 tonnellate di anidride carbonica. Molto più di quanto possa assorbire un ettaro di foresta urbana. Gli alberi, inoltre, non continuano ad assorbire all’infinito: quando una pianta ha raggiunto il suo livello massimo di crescita la quantità di carbonio che assimila equivale a quella che sprigiona». Il messaggio è chiaro: per mitigare l’effetto serra in ambienti urbani vanno ridotte le emissioni dell’attività umana. Viceversa, le foreste – e in genere gli ecosistemi naturali e semi-naturali delle zone rurali – che con 11 milioni di ettari in Italia rappresentano la maggiore forma di uso del suolo, hanno un ruolo importante nella mitigazione dell’effetto serra, attraverso la protezione, il restauro e una migliore gestione.

«Non dobbiamo dimenticare che il cambiamento climatico è già in atto ed è importante mettere in campo strategie di adattamento». Le foreste urbane sono una di queste. Anche le specie vanno scelte con cura. «Da questo spesso dipende la buona riuscita dei progetti di riforestazione e la riduzione dei costi di manutenzione e di gestione», spiega Ciccarese. «Prendiamo l’esempio di Roma: all’inizio del secolo scorso sono stati piantati tantissimi pini domestici, molti dei quali oggi sono al termine della loro vita perché si tratta di una specie che raggiunge l’anzianità quando supera i cent’anni, anche se alcuni esemplari del bosco di Fregene superano i duecento. Quando progettiamo un bosco può essere meglio selezionare specie più longeve come le querce, capaci di vivere diversi secoli e meno suscettibili ad agenti inquinanti come l’ozono. Altro esempio. In alcuni ambienti urbani sono preferibili le piante decidue perché le sempreverdi in inverno generano ombra, oppure esemplari che non attirano insetti o non generano allergie». La scelta delle specie va effettuata anche alla luce dei cambiamenti climatici: «La temperatura sta aumentando e anche la siccità. In alcuni contesti è meglio optare per specie frugali. Eucalipti, robinie e pioppi, per esempio, necessitano di molta acqua e per questo potrebbero rivelarsi poco adatte alla vita in città. Per alcune specie, come platani e olmi, bisogna considerare l’esposizione a patogeni che diventano più avversi sulle piante di ambienti cittadini». Parlare di foresta urbana può sembrare un ossimoro, mi fa notare Ciccarese. «Lo stesso termine ‘foresta’ deriva dal latino ‘foris’, che significa ‘fuori’. Qualcosa di esterno alla città, alle mura. Eppure, oggi non possiamo non considerare tutti i vantaggi, in termini di servizi materiali e immateriali, del verde in città. L’IPBES [Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, ndr], piattaforma intergovernativa istituita dalle Nazioni Unite per unire politici ed esperti sul tema della tutela della biodiversità e dei servizi ecosistemici, li chiama benefits». Chiedo in che misura il verde urbano tuteli la biodiversità e quanto sia importante creare corridoi di connessione. «Gli alberi sono essi stessi essenza di biodiversità: in un’area inferiore a un ettaro crescono centinaia di specie arboree ed erbacee. Le aree verdi ne sono anche ricettacolo: funghi, insetti, fauna del suolo, uccelli. La connessione delle aree verdi tutela la biodiversità e fa aumentare il numero delle specie, perché per la fauna è più facile spostarsi e colonizzare nuovi ambienti ma anche perché un’area verde isolata è più soggetta agli stress tipici degli ambienti urbani», spiega ancora Ciccarese.

«Se si comprendessero davvero i benefici degli spazi verdi in città si inizierebbe subito a investire in questo settore»
Lorenzo Ciccarese
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Roma, Collatino. La ‘zona umida’ di via Grotte di Gregna. Foto di Ylenia Sina

Dal 2007 oltre la metà della popolazione mondiale vive in aree urbane. Secondo le Nazioni Unite nel 2050 si arriverà al 68 per cento. In Italia non ci sono megalopoli, ma oltre un terzo della popolazione nazionale, 22 milioni di persone, vive nelle principali aree urbane. Secondo il report del 2017 dell’Istat Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia solo a Torino, Milano, Roma e Napoli vivono quasi il 20 per cento dei residenti in Italia. Nel V Municipio di Roma vivono quasi 250mila persone, una città come Verona.

In questo quadro è maturata la consapevolezza che battersi per una dotazione di verde maggiore e migliore significhi difendere non solo l’ambiente, ma anche la salute degli abitanti. «Tra i quartieri di Pigneto, Torpignattara e Centocelle c’è una fascia di terreni liberi, in parte privati e in parte pubblici, che per i piani urbanistici sono edificabili. Noi chiediamo che vengano trasformati in boschi cittadini», dice Marco Corirossi. È seduto su una panchina di fronte al lago Bullicante, e il lungo percorso di lotta per la tutela di questo monumento naturale torna a più riprese nel corso dell’intervista. «Anche qui dovevano esserci un centro commerciale o appartamenti, addirittura grattacieli, ma negli anni siamo riusciti a far prevalere la salvaguardia del benessere di tutti contro quella della rendita urbana, da sempre motore economico della città. Oggi è necessario che questa inversione di rotta si allarghi a tutto il quadrante. Sull’immaginario della ‘foresta che avanza’ vogliamo porre fine al consumo di suolo».

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Roma, Collatino. La ‘zona umida’ di via Grotte di Gregna. Foto di Ylenia Sina

Tra i progetti che attivisti e cittadini stanno seguendo con attenzione c’è quello avanzato dall’assessore all’Urbanistica, Luca Montuori, e approvato con una delibera di Giunta dall’amministrazione di Virginia Raggi nel luglio del 2020, chiamato Anello Verde. Il provvedimento unisce un piano di valorizzazione urbanistica del settore dell’anello ferroviario cittadino e delle sue stazioni, in accordo con Ferrovie dello Stato, alla tutela di un corridoio ambientale nel quadrante di Roma Est che dal lago Bullicante arriva al parco archeologico di Centocelle. Se tornassimo a osservare la mappa satellitare, il corridoio rappresenterebbe un lato del quadrilatero descritto in precedenza. Il progetto si propone inoltre di sviluppare la mobilità sostenibile e mettere in relazione il patrimonio archeologico, culturale e sociale esistente. L’approvazione definitiva ancora non c’è, e mentre scriviamo l’amministrazione ha avviato un percorso di partecipazione con cittadini e operatori pubblici e privati coinvolti. Anche una parte di comitati e movimenti della zona si è messa a studiare una propria mappa, ma a prescindere dell’esito del progetto dell’Anello Verde la battaglia per i nuovi boschi urbani della Rete ecologica di Roma Est è già iniziata.

«La vertenza per il riconoscimento del monumento naturale del lago dell’ex-SNIA ci ha insegnato che, anche dopo aver ottenuto il risultato politico con la lotta, dobbiamo sempre rimanere vigili e avere una nostra capacità di progettazione», dice Corirossi sorridendo. «È arrivato il momento di affermare la necessità di un consumo di suolo zero e di piantare migliaia di alberi».

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Roma, Collatino. La ‘zona umida’ di via Grotte di Gregna. Foto di Ylenia Sina

Il progetto dell’Anello Verde non è a ‘consumo di suolo zero’. Nel piano si usa la definizione ‘a saldo zero’. I circa 800 mila metri quadrati di ‘previsioni edificatorie’ contenute nei piani urbanistici non attuati, che l’amministrazione punta a riorganizzare, non vengono cancellati dalla nuova pianificazione ma verranno fatti atterrare altrove. Arriveranno in buona parte all’interno delle aree dismesse degli scali ferroviari di proprietà di Ferrovie dello Stato, soprattutto attorno alla stazione dell’alta velocità di Tiburtina e in alcune aree pubbliche adiacenti. La logica espressa dal progetto è quella di preservare la continuità dei sistemi ambientali da un lato, e densificare i poli già serviti dal trasporto pubblico su ferro dall’altro. Molte delle aree naturali protette di Roma sono nate in questo modo: alla variante urbanistica detta di ‘Salvaguardia’, che ha cancellato le previsioni edificatorie sulle aree verdi più pregiate, ne è seguita una seconda, chiamata delle ‘Certezze’, la quale, rinunciando in parte alla prerogativa pubblica di pianificare le città, ha riconosciuto ai proprietari che le previsioni edificatorie del vecchio piano erano diritti acquisiti permettendo così di costruire in altre zone. Negli anni a venire migliaia di metri cubi di cemento atterreranno sul suolo della Capitale. Era il 1997.

Pochi anni più tardi la necessità di tutelare il suolo sarebbe emersa in tutta la sua urgenza. La tutela del suolo rientra infatti tra le strategie dell’Europa e delle Nazioni Unite in tema di politiche ambientali. Nel 2013 il Parlamento europeo ha messo nero su bianco la necessità di azzerare il consumo di suolo entro il 2050. L’ONU, nell’Agenda 2030, chiede di allinearlo alla crescita demografica e di non aumentare il degrado del territorio. Il suolo ospita gran parte della biosfera, è il luogo in cui vive l’umanità, è paesaggio, è fonte di cibo e di materie prime, al suo interno vengono immagazzinate molte sostanze come l’acqua, nutrienti e carbonio. Il suolo è una risorsa non rinnovabile. Nonostante questo, si continua a costruire.

Secondo il rapporto Il consumo di suolo in Italia 2020 redatto dall’ISPRA e da SNPA (Sistema Nazionale di Protezione Ambientale) Roma è il comune italiano che nel 2019 ha trasformato di più il suo suolo, 108 ettari. Se si parte dal 2012 gli ettari salgono a 500. In termini percentuali Roma è la città con meno suolo consumato in Italia: il 24 per cento. Il suo patrimonio naturale è, però, senza pari in Europa. Roma è anche il comune più esteso d’Italia: 128.530 ettari. Il secondo è Ravenna con poco più di 650 ettari. Nel ventennio a cavallo del nuovo Millennio Roma si è allargata notevolmente: è passata dai 25.285 ettari consumati del 1990 ai 34.068 del 2008 [fonte: Qualità dell’ambiente urbano, VII Rapporto – Ispra 2011]. Una crescita di 450 ettari all’anno non giustificata da un aumento di popolazione, rimasta sostanzialmente stabile.

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Roma. Uno scorcio della Riserva naturale del fiume Aniene. Foto di Ylenia Sina

Il consumo di suolo non è a costo zero: significa perdere servizi ecosistemici come la regolazione del microclima, la purificazione delle acque o l’impollinazione. Il XIV rapporto Qualità dell’ambiente urbano dell’ISPRA stima che tra il 2012 e il 2018 Roma abbia perso servizi ecosistemici per un valore economico che oscilla tra i 24 e i 30 milioni di euro circa.

La promessa di verde in cambio di cemento, in passato, ha illuso parte della popolazione di Roma Est dove il passaggio dell’alta velocità nel 2005 avrebbe dovuto portare in compensazione un sistema di parchi mai realizzato. Ancora oggi dal lago Bullicante una striscia di terra senza edificazioni si fa strada tra i palazzi lungo il tracciato della ferrovia dell’alta velocità e dell’autostrada A24. Prosegue per qualche chilometro fino al parco della Cervelletta, che è parte della riserva naturale della Valle dell’Aniene, un affluente del Tevere, e poi va oltre il Grande Raccordo Anulare. Qui la conformazione di corridoio si perde nella campagna, dove i quartieri, visti dall’alto con una mappa satellitare, sembrano isole. Un coordinamento di comitati cittadini e associazioni si batte perché questa lunga striscia di terra, oggi prevalentemente abbandonata e piena di discariche abusive, diventi un parco naturalistico e archeologico attraversato da un’infrastruttura ciclopedonale di venti chilometri che dal centro arrivi fino al parco archeologico di Gabii, al confine orientale del Comune. Si chiama Parco Lineare Roma Est. Quando chiedo ad Andrea Nataloni, uno dei cittadini attivi su questo progetto, del materiale per studiare il tracciato mi mostra un volantino del 2005, diffuso da TAV Spa e dal Comune di Roma, con una mappa delle opere di compensazione previste per i quartieri coinvolti: parchi, percorsi pedonali, campi sportivi e la promessa di interventi per migliorare la qualità ambientale.

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Roma. Un fico in un’area selvatica nei pressi delle cave di Salone. Foto di Ylenia Sina

«A distanza di quindici anni nulla è stato realizzato». Incontro Nataloni insieme a Carlo De Falco, presidente dell’associazione ambientalista Gruppi Ricerca Ecologica (GRE) Lazio, nel parcheggio di via Spencer, ai margini del quartiere Collatino, uno dei più densamente edificati lungo il tracciato. È una giornata limpida e dall’asfalto sale un calore che passa dai piedi e avvolge il corpo. I pochi avventori posteggiano e si dirigono verso i palazzi. Nella recinzione che delimita il parcheggio c’è un’apertura che va nella direzione opposta. Porta a una strada che conduce a un cancello. È aperto e, attraversata la soglia, uno sterrato che si infila tra campi incolti, canneti e giovani alberi di ailanto raggiunge un prato coperto dall’ombra di un bosco. Camminiamo lungo un sentiero tra un fitto e variegato sottobosco e pioppi dai tronchi coperti di edera e arriviamo a degli orti. In alcuni il verde delle foglie degli ortaggi continua senza interruzioni quello del sottobosco, in altri tra la coltivazione si vede la terra nuda. Una donna incuriosita dalla nostra presenza si avvicina. Dice di coltivare in questa zona da una trentina di anni. Se la prende con i nuovi arrivati che tagliano il bosco per coltivare gli orti e con un nuovo insediamento informale, sorto pochi mesi dopo lo sgombero di un altro. Lo si intravede dietro il canneto. «Anche se non mancano le piante infestanti, siamo in un’area umida dove è forte la presenza di specie autoctone, come lecci, querce e pioppi, tipiche del paesaggio romano», dice De Falco. «Qui l’acqua di falda non è molto profonda e nei fossi sgorga dal terreno. Il laghetto non c’è più. Fino a pochi anni fa l’area era stata data in gestione a un’associazione, ma oggi è abbandonata come molte altre lungo quello che dovrebbe diventare il Parco Lineare Roma Est. Nel 2019, come GRE, abbiamo mappato decine di discariche a cielo aperto». Ce n’è una anche di fronte a noi: un cumulo di infissi di legno e mobili rotti, uno scaldabagno dai bordi arrugginiti e il retro di un frigorifero corroso dal tempo. In un report sul Parco Lineare Roma Est del 2018 il nodo locale del WWF parla di un’area “meritevole di tutela” e di “risorsa preziosa per la biodiversità”. Oltre alle “specie arboree tipiche delle aree umide” erano state avvistate specie di uccelli come l’usignolo di fiume, il picchio verde, il beccamoschino, il codibugnolo, il fagiano. «Avere aree simili vicino a casa ti cambia la vita», commenta Nataloni.

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Roma, Torre Spaccata. Terreno non edificato e incolto. Foto di Ylenia Sina

Il tratto in cui ci troviamo si sarebbe dovuto chiamare Parco della Serenissima: 36 ettari di terreno stretti tra l’autostrada A24 e la ferrovia, all’interno dei quali c’è la zona umida che ho visitato insieme a Nataloni e De Falco, ma sono presenti anche resti archeologici vincolati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. «Si tratta di 160 metri di via Collatina antica, una villa romana, un tratto sotterraneo dell’antico Acquedotto Vergine che alimenta ancora oggi Fontana di Trevi», spiega Emilio Giacomi, esponente di Italia Nostra Roma. «Il parco della Serenissima fa parte di una fascia più vasta che da Casal Bertone, nei pressi del lago Bullicante, dove si attende fin dal 2003 la realizzazione del parco archeologico Tiburtino, arriva fino al parco della Cervelletta nella Riserva naturale della Valle dell’Aniene. Il Piano territoriale paesistico regionale in questa fascia prevede un ‘parco archeologico naturale‘ mentre il Piano regolatore la considera una componente secondaria della rete ecologica. Tutto questo fa parte a sua volta del tracciato del Parco lineare Roma Est». Nulla di tutto questo è stato realizzato, tanto che Italia Nostra Roma ha scritto due lettere nel 2020 a Roma Capitale per chiedere un intervento urgente.

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Roma, Salone. Campo incolto. Foto di Ylenia Sina

Cinzia Paolino dell’associazione Sguardoingiro è tra le persone più attive nel comitato Parco LineaRE, dove RE sta per Roma Est. «Se immagini che dal 2005 poteva esserci un parco naturalistico e archeologico, questa parte di città oggi avrebbe un altro aspetto. Invece c’è una terra in buona parte abbandonata con discariche a cielo aperto e baraccopoli, e lo dico considerando il problema doloroso di dare una casa a queste persone».

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Roma. Il Parco archeologico di Centocelle. Foto di Ylenia Sina

Paolino si ricorda di quando era piccola: «Cercavi sempre di terminare qui le tue passeggiate, perché vivevi costantemente tra i palazzi e quella natura ti permetteva di guardare lontano». Mi parla del passato e io le chiedo se quella del Parco Lineare Roma Est non rappresenti invece una visione per il futuro. «Non mi sento lanciata nel futuro, anzi forse più nel passato», inizia a rispondere.

Si prende un attimo per pensare e poi prosegue: «Quel che è certo è che questo parco si deve assolutamente realizzare, altrimenti questa parte di città, così, muore».

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