Ep. 04

Non chiamatele erbacce

Fotografare le piante durante i tragitti che si percorrono in città è un modo nuovo e diverso di accostarci alla natura.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Roma selvatica

Un lago, nato dagli scavi del cantiere di un centro commerciale, in meno di trent’anni ha dato vita a un monumento naturale.

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Quando arrivo sul luogo dell’appuntamento la mia certezza di raccogliere abbastanza materiale per scrivere una puntata d questo lavoro vacilla. Rossella Mortellaro, biologa con la passione per la didattica, prossima alla laurea in Scienze dell’Educazione, mi sta aspettando sul bordo di un’aiuola incolta che oggi è solo uno spartitraffico, ma fino al 1982 era il sedime di una diramazione dei binari della ferrovia che, attraversando la parte est della città, collegava il centro di Roma con la Ciociaria. Questa linea oggi è ridimensionata a tratta urbana con capolinea a Centocelle, a poche centinaia di metri dal luogo in cui ci troviamo. La diramazione entrava proprio in questo quartiere popolare e multietnico che, senza aver perso quest’anima, è oggi animato da decine di locali e ristoranti di tendenza. I binari sono ancora lì, e tra i sassi della ferrovia sono cresciuti ciuffi di vegetazione spontanea tra i quali giacciono resti sbiaditi di bottigliette di plastica, imballaggi di ogni tipo e fazzoletti di carta mezzi sciolti dalla pioggia. Questo rettangolo di suolo divide i due sensi di marcia di via Tor de’ Schiavi, che in quel tratto ha la conformazione di uno svincolo per la via Casilina. Siamo al margine sud del quartiere, e oltre le quattro corsie della consolare il cielo si apre sopra il Parco archeologico di Centocelle, 120 ettari di campagna romana scampati all’espansione urbanistica dei quartieri circostanti. Oltre che per la sua valenza naturale, il parco è vincolato dal punto di vista paesaggistico e archeologico per le numerose ville romane rinvenute e per la presenza dell’ex aeroporto militare. La pista dove nel 1909 i fratelli Wright diedero dimostrazione del loro velivolo Flyer è ancora lì.

«La maggior parte delle persone guarda un’aiuola dimenticata come questa e vede solo uno spazio pieno di erbacce. Se ti fermi a osservare con attenzione, però, è possibile scoprire che ci sono decine di specie diverse di piante», esordisce Mortellaro indicando un ciuffo di erbe allungate come la punta di una lancia e con i bordi dentati. «Questa è cicoria selvatica, immagino che la riconoscerai». Annuisco. Mi avvicino e mi accorgo che la superficie delle foglie è ricoperta da una fine peluria che non avevo mai visto sulla cicoria che si raccoglie o si acquista per essere mangiata. Alla sommità di un ramo che si solleva dalle radici c’è un fiore celeste su cui spiccano stami ben visibili per il loro colore blu scuro. «Questa invece è malva», dice due passi più avanti nei pressi di un gruppo di piante basse con foglie segnate da nervature simili alle dita di una mano allargata per afferrare al volo una palla. La malva, come quasi tutte le piante che incontreremo oggi, cresce con facilità anche ai bordi delle strade, nei terreni incolti, tra gli interstizi dei marciapiedi: sono chiamate piante ruderali. La malva è nota fin dall’antichità per le sue proprietà emollienti, antinfiammatorie e lassative, è per questo che sono frequenti le tisane che la contengono. Oltre alle foglie più giovani anche i fiori, rosa con venature violacee, sono commestibili.

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Malva sylvestris. Foto di Ylenia Sina

Avevo contattato Rossella Mortellaro in qualità di botanica dell’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros, un ente che ha fatto del territorio un museo, riconosciuto dalla Regione Lazio. È gestito da un’associazione, fondata nel 2012 da un gruppo di residenti, nata con l’obiettivo di salvaguardare, valorizzare e promuovere il patrimonio ambientale, paesaggistico e culturale del quadrante del Comprensorio Archeologico Casilino Ad Duas Lauros, che va dal Lago Bullicante al luogo in cui ci troviamo ora. L’Ecomuseo non valorizza solo i beni archeologici o naturalistici, che in questo comprensorio sono tutelati dal 1995 da un vincolo del ministero dei Beni culturali – scorci di Agro Romano, il Mausoleo di Sant’Elena e le vicine catacombe, tratti di Acquedotto Alessandrino che si stagliano nei parchi circondati dai palazzi –, ma ha formato anche una comunità che si prende cura del suo territorio, della sua storia, delle sue relazioni, dei percorsi tra le sue risorse materiali e immateriali. Avevo intenzione di chiedere a Rossella Mortellaro di raccontarmi il suo lavoro di censimento degli alberi e delle piante di uno dei parchi della zona, Villa De Sanctis. «Vorrei che la gente si incuriosisse della biodiversità presente in un territorio urbanizzato come questo», le dissi durante la prima telefonata nel tentativo di farle capire il senso del lavoro. Lei mi raccontò di un laboratorio tenuto qualche mese prima in un liceo di Centocelle. «Avrei dovuto elaborare insieme ai ragazzi un progetto di riqualificazione di un’aiuola incolta al margine dell’edificio scolastico. Avremmo dovuto decidere insieme cosa piantare. Davano per scontato che non ci fosse nulla di rilevante. Invece ho proposto ai ragazzi di censire l’esistente: c’erano settanta specie di piante!». Così è nata l’idea di replicare l’esperimento insieme, io e lei. «Potremmo scegliere un percorso e censire ciò che incontriamo lungo i marciapiedi», proposi. «Vediamoci nell’aiuola adiacente a piazza delle Camelie, quella con i binari abbandonati del trenino Laziali-Centocelle», replicò.

L’appuntamento è alle nove e mezza di un assolato sabato mattina di inizio ottobre. Non c’è molto traffico, ma il brusio delle automobili che circolano attorno a noi è costante. «Non mi sembra sia molto fiorito oggi», dico guardando il rettangolo lungo e stretto che stiamo per esplorare. Ai miei occhi solo i binari abbandonati conferiscono a questo luogo un senso, seppur legato al passato. «Cosa stai dicendo?», dice Mortellaro con un tono tra l’ironico e l’indignato. L’unica cosa che noto, tra un asse di legno e l’altra, è una bocca di leone dal colore rosa acceso: molti fiori sono già schiusi, ma i boccioli sono ancora di più. Mentre mi ambiento, Rossella Mortellaro ha lo sguardo rivolto in basso, intenta a studiare il terreno. «Questa infiorescenza bianca a forma di ombrello con un fiorellino più scuro nel mezzo è una carota selvatica. Questa invece è portulaca», dice indicando un intreccio di gambi rossastri ornati di foglioline verdi e carnose cresciuti in orizzontale sui sassi. La portulaca la si trova spesso tra le fessure dei marciapiedi, ai margini dei prati incolti o negli orti dove viene considerata infestante. «Le foglie e i getti più teneri sono commestibili, si mangiano crudi come l’insalata o anche cotti». È ricca di acqua, vitamina C, sali minerali e omega 3. Ferma in piedi vicino ai binari, Mortellaro indica con un gesto della mano le specie che sta identificando. «Quella è piantaggine, lì c’è il farinello, quelle sono la salvia minore e il ciombolino comune, questo è finocchietto selvatico». Identifico subito il fusto esile e ramificato della pianta aromatica che in estate produce infiorescenze con piccoli fiori gialli.

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Salvia verbenaca. Foto di Ylenia Sina

La piantaggine è invece una pianta officinale che cresce in tutta Italia, nota fin dall’antichità per le sue proprietà cicatrizzanti, utile a curare le punture di insetti o le ferite. Un esemplare di piantaggine è cresciuto al limite dell’aiuola, a ridosso della strada, dove i binari lasciano i sassi per continuare il loro percorso incastrati nell’asfalto. Sulla cima degli steli, che si stagliano come antenne per almeno una ventina di centimetri oltre la rosetta della base, crescono infiorescenze verdi e bianche a forma di spiga. Il farinello non è molto distante. Anche questa è una pianta spontanea che cresce lungo le strade, nei fossi o nei campi abbandonati. Le sue foglie sono ricche di ferro e si consumano soprattutto cotte. La salvia minore, una pianta aromatica, è cresciuta a ridosso del binario. Per trovare il ciombolino bisogna invece guardare all’ombra di un lembo d’asfalto, là dove il bordo della strada forma un dislivello con il sedime dei binari creando una sorta di tettoia. Il ciombolino, il cui nome scientifico è Cymbalaria muralis perché cresce soprattutto tra le rocce e sui muri di pietra, ma è possibile trovarlo anche in ambienti urbani come in questo caso, è conosciuto per le proprietà diuretiche e cicatrizzanti delle sue foglie. Mi abbasso per fotografarlo e noto che tra le foglioline carnose si vedono dei piccoli fiori con una corolla di petali lilla. Sono simili alle bocche di leone, ma molto più piccoli. Al centro spiccano due protuberanze gialle. Prima di notare i cespugli di mentuccia selvatica ne sento l’odore, simile a quello della menta ma più penetrante. Un’ape temporeggia tra i suoi fiori lilla. Si appoggia delicatamente sul bordo dei petali, infila il capo e poi passa a un altro fiore.

«Agli studenti chiedo sempre di fotografare le piante che ritengono interessanti durante i tragitti che percorrono quotidianamente. Si tratta di un modo nuovo e diverso di accostarci alla natura, imparando a osservare ciò che ci circonda con altri occhi, non più disgustati e infastiditi ma piuttosto incuriositi. Per fotografare devi sforzarti di vedere l’oggetto del tuo interesse. Si tratta di ripensare i margini: le erbacce, come tutte le marginalità – anche sociali – sono scacciate. Cambiando prospettiva, ciò che è diverso ci può apparire come arricchimento». È la lezione di Gilles Clément, inventore del terzo paesaggio, e ammiratore delle piante vagabonde.

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Portulaca oleracea. Foto di Ylenia Sina

Mentre Mortellaro parla, una donna attraversa la strada e si accorge di noi. Senza smettere di camminare ci riserva un veloce sguardo indifferente, poi si allontana lungo un marciapiede accidentato. Mi accorgo che è la prima persona che noto da quando sono lì tra le piante. Guardando l’aiuola nella sua complessità colpiscono i cespugli più alti. «Quello è un trifoglio bituminoso», dice indicando un cespuglio alto poco meno di un metro con infiorescenze viola. Questa specie, caratteristica del Mediterraneo, prende il nome dall’odore di bitume che emanano le sue foglie. Tra i cespugli più alti c’è anche l’Inula viscosa, alta una cinquantina di centimetri. Sui rami degli esemplari esposti al sole si sono schiusi decine di fiori gialli. «Anche questa è una pianta comune, tipica del clima Mediterraneo come quello di Roma», racconta Mortellaro. «Da molti è considerata una pianta infestante per la sua capacità di adattamento. Quelle che stiamo identificando, in realtà, sono quasi tutte piante molto comuni, ma riconoscerle significa capire la biodiversità che ci circonda. La biodiversità a portata di mano».

Ormai stiamo esplorando questo rettangolo di suolo da quasi un’ora. L’ombra dei palazzi che divideva lo spazio in due parti è arretrata silenziosamente di qualche metro. Realizzo che ho raccolto abbastanza materiale e interpreto il silenzio di Mortellaro come la fine del nostro censimento. Stava solo osservando. Ai suoi piedi, appoggiata al binario arrugginito, c’è un ciuffo di Parietaria judaica, una pianta che, come indica anche il nome, cresce facilmente sui muri. «È conosciuta soprattutto perché il suo polline genera reazioni allergiche in molte persone». Mortellaro indica poi l’euforbia macchiata, una pianta di origine nordamericana oggi diffusa in molte parti del mondo, cresciuta in orizzontale tra i sassi. È tossica e il suo lattice irrita la pelle. Ha lo stesso andamento orizzontale anche il tribolo comune, fiorellini gialli e frutto a forma di palla con aculei, noto per le sue proprietà afrodisiache. Continuiamo l’esplorazione senza percorrere troppi passi. Riconosco la rucola selvatica, si vede spesso nei parchi di Roma. Rosette di verbasco sinuoso, con le sue foglie ovali e dentellate ricoperte da una fitta peluria che le fa sembrare di velluto, sono cresciute qua e là. È una pianta tipica delle coste mediterranee ma è diffusa in molte parti d’Italia. È conosciuta per le sue proprietà emollienti e in passato veniva utilizzata per alleviare le malattie respiratorie.

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Verbascum sinuatum. Foto di Ylenia Sina

«Questo invece è amaranto». È una pianta originaria dell’America centrale e in Italia è considerata avventizia, termine che in botanica si utilizza per indicare piante che si diffondono «con mezzi propri» in aree ristrette ma dalle quali presto scompaiono. I semi di alcune delle specie di questo genere erano molto apprezzati per le loro proprietà nutritive dagli Atzechi e dai Maya e ancora oggi vengono consumati bolliti come se fossero cereali. Non è il caso che abbiamo di fronte. «Esperto di questa specie è stato Alfredo Cacciato, uno dei principali raccoglitori dell’Herbarium Romanum conservato nel Museo Erbario dell’università La Sapienza di Roma. Cacciato ha raccolto molti esemplari in questa zona a cavallo degli anni ‘50 e ‘60, anche lungo i marciapiedi e i binari del tram». Chiedo se anche a Cacciato sia stata intitolata una strada del quartiere. L’odonomastica della zona in cui ci troviamo, infatti, è stata dedicata fin dalla sua nascita negli anni Venti del ‘900 a nomi di fiori e di alberi. Dall’aiuola in cui mi trovo, per esempio, vediamo piazza delle Camelie. «A partire dal 1953 le strade iniziarono a essere intitolate anche ai botanici. Cacciato, però, non c’è. Questa invece è una storia che va riportata nella memoria del quartiere. È il bello di riconoscere le piante. Ognuna ti apre un mondo».

Il racconto sul lavoro del botanico Cacciato ha interrotto la nostra esplorazione. Ormai sono quasi le undici e la temperatura mi costringe a togliere la giacca. Mentre sono impegnata in questa azione Mortellaro nota un’altra specie. «Questa è erba morella». Il suo nome scientifico è Solanum nigrum che appartiene allo stesso genere delle piante di patata e di pomodoro le cui foglie sono tossiche. Tra le foglie ovali spiccano dei fiorellini bianchi a forma di stella. Dove i binari si dividono, tra le due linee di ferro ramato, i fiori gialli di un grespino frangiato sono piegati da un lato alla ricerca del sole. «Questo invece è un astro squamato. È una specie di origine americana oggi diffusa anche nel Mediterraneo e in quasi tutte le regioni italiane», dice indicando un’esile pianta ramificata con dei piccoli fiori bianchi ancora chiusi sulla sommità di ogni ramo. Si insedia facilmente su terreni di recente formazione. Puoi chiamarla pioniera. «Ma non è un’erbaccia».

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Antirrhinum majus. Foto di Ylenia Sina

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