Ep. 01

Venezuela, due per nessuno e niente per tutti

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Venezuela19

Un reportage di Barbara Schiavulli da Caracas sul come una crisi economica grave si sia trasformata in una crisi politica interna e internazionale. Barbara Schiavulli è una giornalista freelance di guerra, co-fondatrice e direttrice di radiobullets.com, già inviata in Iraq, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Sudan. Con lei condividiamo una visione un po’ disincantata dell’industria […]

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

CARACAS – Gli ospedali pubblici lavorano solo quando un paziente può pagare. Partorire costa sui 2000 Euro. Un isterectomia 7000 Euro, nella spesa sono compresi i guanti di lattice, le mascherine, i camici per l’equipe chirurgica, l’ossigeno, l’anestesia e tutto quello che serve. Visto che il Bolivar non vale niente, neanche l’assicurazione medica copre alcunché. Ci sono delle cliniche private per lo più religiose, dove invece lo stesso intervento costa 500 Dollari. Sono posti semplici, senza fronzoli, ma ancora efficienti e puliti. Le medicine arrivano da donazioni private perché anche se ora ci sono tonnellate di materiale medico in Colombia al confine con il Venezuela, bloccato dalla guardia bolivariana perché il presidente Maduro ha detto che non accetta l’elemosina, in realtà questo paese che arranca sopravvive sugli aiuti privati, una sorta di rete umanitaria clandestina internazionale fatta da molte organizzazioni che mandano cibo e medicine. «Ogni mese distribuisco quello che ora sta al confine in attesa» racconta Oscar [non è il suo vero nome], un ingegnere che ha deciso di mettere a disposizione il suo tempo e i suoi spazi per raccogliere aiuti umanitari da distribuire alle cliniche private o alla Caritas, quelle pubbliche non è possibile perché il governo controlla. L’Italia è il paese che manda più medicinali degli altri paesi europei: «Spediamo 1100 kg al mese di medicine che ci vengono donate» racconta Assunta di Pino, vicepresidente dell’Associazione italo venezuelana Ali Onlus. Lo devono fare di nascosto con un basso profilo, usando corrieri privati.

«Tutto quello che ci arriva in più» spiega la direttrice amministrativa della Clinica Dispensario di Padre Machado a Caracas «lo diamo sottobanco a un ospedale pubblico, ma se si sapesse molte persone verrebbero licenziate, è rischioso ma non abbiamo mai avuto dubbi, i pazienti prima di tutto». Cancro, asma, disfunzioni ai reni, tubercolosi, malaria, sono diventate malattie terminali. Perfino i nati prematuri non hanno speranze, in alcuni ospedali vengono riposti in scatole di cartone e lasciati al loro destino.

L’acqua nel paese è razionata, non perché non ci sia, ma perché non viene fatta alcuna manutenzione, tutto costa, quello che si rompe non si aggiusta, se ne fa semplicemente a meno. Solo benzina ed elettricità non costano nulla.
A Caracas l’acqua sgorga dai rubinetti alle 7 di sera per mezzora, la gente in casa si lava, pulisce, raccoglie riserve. Chi può permetterselo si è fatto mettere un contenitore in casa, o si è fatto costruire un pozzo in giardino, gli altri si adattano. Fuori dalla capitale è anche peggio, ci sono cittadine dove l’acqua arriva una volta a settimana.

Nello Stato di Miranda, a Les Teques la capitale, suor Isabella ha aperto il piazzale del convento ai poveri: «Due anni fa abbiamo deciso di cucinare un pasto a pranzo per i poveri della città, erano anziani, soprattutto persone sole, preparavamo 80 zuppe calde al giorno e ci siamo dette che quando saremmo arrivate a 100 ci saremmo fermate». 24 mesi dopo preparano ogni giorno a pranzo 1100 pasti, un pentolone di zuppa con un po’ di carne e verdure per gli adulti, un altro meno liquido per dar la sensazione di sazietà ai bambini, e un altro a base di latte per i biberon di quelli più piccoli. Cucinano con la legna in un angolo del giardino perché il gas non si trova. Il mangiare viene tutto da donazioni private, Stati Uniti e Europa soprattutto. La fila è chilometrica, donne con bambini avvinghiati, uomini giovani e vecchi alcuni con vestiti ancora buoni, altri laceri. Ci sono barboni ma anche gente che ha ancora una casa, ma ha perso il lavoro. «Ho quattro figli, non ho un lavoro, non so davvero come fare» mormora una donna che stringe un bambino al collo, tra le mani la sua scodella di plastica che come tutti vuole riempire per poter mangiare qualcosa.

«Non riceviamo niente dal governo eppure il tribunale è da noi che manda i bambini maltrattati»; la direttrice di una casa per bambini maltrattati sorride quando si vede arrivare quattro scatoloni pieni di biscotti, cereali e latte dal Portogallo. Ci sono 12 bambini con lei, tre fratellini sono stati picchiati e bruciati con le sigarette dai genitori, altri du sono arrivati malnutriti, altri vengono lasciati perché i genitori non riescono a badare loro. Lei guadagna cinque Euro al mese ma non ha mai pensato di lasciare.

Molti invece lo fanno, vendono quel tutto che non vale più niente, una casa che negli anni Novanta valeva 500 mila Dollari ora ne vale 80 mila. Chi ha qualche risorsa prende un aereo e vola via, cerca di andare in posti dove poter lavorare per poter mandare soldi a chi resta indietro. Altri vanno al confine con la Colombia, il Brasile, armati dei loro bagagli e dei loro ricordi. Il paese della musica non c’è più, il paese del sogno socialista, il paese dove i poveri avrebbero dovuto essere il punto di partenza di una nazione che migliorava, non quello di arrivo. 3 milioni e mezzo di fuoriusciti, dicono le Nazioni Unite parlando di 5 milioni entro 2020. Da far concorrenza alla Sira o all’Iraq in un paese dove la guerra non c’è. Fino a che ci sono stati i soldi tutte le teorie politiche funzionavano, quando sono spariti anche solo perché il prezzo del petrolio che crollava, i nodi sono venuti al pettine e se poi si aggiunge la corruzione endemica, il narcotraffico, decisioni economiche sbagliate, la ricetta della crisi è pronta per essere cotta. «In alcuni momenti Maduro ci ha anche provato ma dietro di lui ci sono forze più grandi» dice Garko La Laguna, un economista: «In Venezuela i prezzi raddoppiano ogni 19 giorni e tutti i soldi che entrano arrivano dal petrolio che comprano gli Stati Uniti». Ironia della sorte, il paese che galleggia sul petrolio lo regala a Russia e Cina per ripagarsi i debiti, 150 miliardi di Dollari, e i soldi in contanti che entrano, entravano fino a che la compagnia petrolifera statale non è stata sanzionata, venivano dagli Stati Uniti, che lo raffinano e in parte glielo rivendono.

Poi a gennaio 2019 come nelle migliori storie, c’è stato un allineamento di eventi come negli ultimi anni non era mai accaduto: coincidenze, tempismo, volontà, gli storici decideranno, sta di fatto che i venezuelani hanno un sussulto, dopo le proteste del 2017 e con la morte di 150 persone, le divisioni interne dell’opposizione, i colpi di mano politici di Maduro, le fughe dal paese, gli esili forzati e gli arresti. Juan Guaidò, un giovane di 35 anni spuntato dal nulla, riesce a raccogliere il discontento, la paura, la stanchezza in un ultimo afflato e il paese scende di nuovo in piazza, sempre diviso in due, da una parte chi vuole un cambiamento, dall’altra chi non lo vuole. Da una parte Guaidò con l’85 per cento di consensi, sempre se si vuole credere ai sondaggi, dall’altro Maduro che chiede pazienza e che fa lunghi discorsi in Tv. «Gli americani gli hanno stretto il nodo intorno al cappio» afferma l’analista politico Luis Vincente Leòn «nel momento in cui hanno chiuso il rubinetto hanno fatto sì che il paese non avesse più entrate. Avrà la Russia la forza di accollarsi un paese che ha 30 milioni di abitanti?».

Per capire bisogna fare un passo indietro e giocare con i tempi e le leggi, Costituzione venezuelana alla mano: nel marzo 2013 il presidente Hugo Chavez, paladino del socialismo realista, muore di cancro e Maduro erede politico e vicepresidente prende il suo posto. I venezuelani sono perfettamente consapevoli che Maduro non ha il carisma e non è intriso delle speranze di Chavez ma lo appoggiano e un mese dopo questi vince le elezioni. Negli anni successivi il prezzo del petrolio precipita, l’inflazione esplode, nel dicembre 2015 l’opposizione ottiene la maggioranza al Parlamento (Assemblea Nazionale) e questo fa sì che per il governo legiferare diventi difficile se non impossibile e la crisi economica non aiuta, porta il Venezuela ad avere debiti per 150 miliardi di dollari con Cina e Russia. Maduro taglia le importazioni dell’80 per cento per pagare i debiti, cibo e medicine scompaiono dal Paese. Esplodono le proteste, 150 manifestanti vengono uccisi tra il marzo e l’agosto 2017, poi con un colpo di scena Maduro crea l’Assemblea Costituente lealista per sostituire quel Parlamento che non controlla. Tutti la chiamano “Assemblea costituente fraudolenta”, e i parlamentari non sanno cosa fare, sono stati sostituiti da altri, così come la Corte Suprema che boccia ogni richiesta o denuncia dell’opposizione.

Nel maggio 2018 Maduro anticipa le elezioni presidenziali che avrebbero dovuto tenersi a dicembre, molti dei leder di opposizione sono in prigione o in esilio forzato, gli altri boicottano. L’affluenza è bassa e Maduro vince. Il Parlamento non riconosce le elezioni ma niente cambia, ognuno continua a lavorare come se l’altro non ci fosse. Poi il 5 gennaio 2019 Guaidò viene eletto presidente dell’Assemblea Nazionale. Per caso questo ragazzo che viene da un quartiere povero, che balla la salsa, che ha lavorato per pagarsi gli studi e fin da giovane ha fatto politica viene nominato seconda carica dello Stato. «Non perché sia un talento o particolarmente intelligente», dice Leòn, ma perché era al posto giusto al momento giusto. Da quando l’Assemblea Nazionale ha avuto la maggioranza, ovvero da quattro anni, un accordo interno alla coalizione aveva stabilito che ogni anno il presidente del Parlamento sarebbe cambiato e sarebbe stato il leader del partito successivo in ordine di importanza. Quest’anno toccava a Volontà Popolare, un partito di centro non molto grande, non particolarmente influente e con quasi tutti i suoi dirigenti in prigione o espatriati. Era rimasto solo Guaidò e il suo essere nessuno che è piaciuto a molti. Cinque giorni dopo la nomina di Guaidò, Maduro giura per il suo secondo mandato davanti alla Corte Suprema, invece che al Parlamento come richiede la Costituzione. Il Parlamento, che da maggio denunciava brogli, urla ancora di più e decide che se Maduro non è legittimo allora c’è o un vuoto di potere o un’usurpazione e, secondo la Costituzione, in questo caso specifico assume i poteri il presidente del Parlamento. Guaidò il 23 gennaio non si autoproclama presidente ad interim, piuttosto si assume una responsabilità concessa dal Parlamento davanti a una folla immensa che è scesa in piazza. E a quel punto lanciata la palla, ha cominciato a ruzzolare diventando una valanga, nessun paese prima di allora si era accorto del Venezuela e ora i governi di mezzo mondo riconoscono Guaidò presidente. Alcuni chiedono elezioni subito, altri vogliono Maduro via, altri cercano fantasiose mediazioni, ma quello che è certo è che il Venezuela non è più quello di prima. E si spacca ancora una volta.

«Nelle ultime due settimane ci sono stati 40 morti e 900 arresti di persone prese a caso, il messaggio è intimidire, soprattutto nei barrios dove i poveri stanno smettendo di sostenere Maduro, che se non li controlla con la fame proverà a farlo con la paura» afferma Afredo Romero, direttore di Foro Penal, un’organizzazione per i diritti umani che si occupa di prigionieri politici. Le lacrime delle madri di ragazzi strappati dalla strada mentre tornavano a casa e che ora si ritrovano in una cella senza cibo, acqua, picchiati e abbandonati, non mentono. In carcere anche 78 militari, selezionati perché i servizi di intelligence sanno di dover tenere a bada l’esercito. Un poliziotto guadagna al mese quando basta a comprare due petti di pollo e una scatola di uova, ma meglio di niente se si ha una famiglia a cui badare.

«Lavoriamo per togliere la maschera a un socialismo che ha mentito e tradito la gente» dice Roman Camacho, un giornalista che due anni fa è stato colpito dalla polizia a una gamba durante una protesta: «È dura perché ci arrestano, ci seguono, spaventano le nostre famiglie». Esistono anche qui due tipi di copertura giornalistica, quella della televisione, dove Guaidò non viene mai nominato nei telegiornali, o quella dei giornalisti che rischiano dicendo cose che non si vogliono sentire. Dal 23 gennaio 12 giornalisti stranieri sono stati arrestati e poi rispediti a casa. «Per fortuna c’è internet dove ancora si riesce a far trapelare quello che sta succedendo, ma la propaganda è fortissima» ripete Camacho che aspetta un figlio e ha paura del suo futuro.

Onechot invece non teme più nulla. «Quando vedi la morte, poi tutto ha una visione diversa». Tutti conoscono Onechot, uno dei cantanti reggae più famosi del Venezuela. Nella sua prima parte della vita faceva rap, metallica, cantava con cattiveria, poi nel 2012 un proiettile alla testa gli cambia la vita. Gli hanno detto che non avrebbe più parlato e tantomeno cantato, invece non solo canta come se non ci fosse un domani e lo fa sulle note del reggae, ma fa parte di quella che chiamano Resistenza: «La mia missione è contribuire alla democrazia con la mia musica, infondendo un pensiero positivo anche se qui non è facile, penso che bisogni toccare il fondo per sapere cosa conta davvero e questo vale anche per il Venezuela. Eravamo ricchi, egoisti, questa crisi ci ha fatto tornare persone generose, solidali, ora dobbiamo solo tornare un paese normale. Detesto Trump, probabilmente qui lo detestano tutti e so che dove hanno messo mano gli americani hanno fatto solo danni, ma non abbiamo alternative se non ci aiutano, siamo fottuti lo stesso. Non si tratta di scegliere tra nero o bianco, ma tra vita o morte».

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