Sulla pelle dei venezuelani
Il nocciolo della questione è: il Venezuela ha bisogno degli aiuti umanitari? Mancano davvero le medicine? Il cibo non c’è? La gente sta davvero così male, oppure è solo una diabolica mossa politica?

Un reportage di Barbara Schiavulli da Caracas sul come una crisi economica grave si sia trasformata in una crisi politica interna e internazionale. Barbara Schiavulli è una giornalista freelance di guerra, co-fondatrice e direttrice di radiobullets.com, già inviata in Iraq, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Sudan. Con lei condividiamo una visione un po’ disincantata dell’industria […]

CARACAS – “Un cavallo di Troia”, così sono stati definiti gli aiuti umanitari inviati dagli americani e da altri paesi del blocco occidentale parcheggiati intorno al Venezuela. Qualche centinaia di tonnellate in Colombia, a Cucuta, qualche decina in Brasile, 200 su una nave da Portorico. Altri in arrivo. Il 23 febbraio 2019 in un’operazione senza precedenti, quasi un colpo di Stato per l’amministrazione di Maduro che per giorni interi ha parlato di armi nascoste, come ad esempio di medicinali “contaminati” per far venire il cancro al popolo venezuelano, sarebbero dovuti entrare accompagnati dagli alfieri dell’opposizione, ma questo non è avvenuto.
In Venezuela sono state ore di trepidante attesa, da qualunque parte si stesse: tutti erano incollati al cellulare a leggere tweet, controllare i video, sentire le notizie. Il progetto di chi voleva che entrassero è andato in fumo come quelle scatole che sono state messe a ferro e fuoco sul ponte ancora prima del confine – “dall’opposizione stessa”, dicono i maduristi, “da infiltrati”, rispondono i guaidisti. E ancora una volta le sorti di un paese in ginocchio si giocano sulla pelle della gente. Da una parte Maduro che dice che va tutto bene, che però potrebbe accettare aiuti da Russia e Cina, se proprio qualcosa dovesse entrare. Dall’altra l’opposizione che ha fatto credere a molti che sarebbe stato più facile del previsto far fuori il “presidente”, mettendolo all’angolo, facendolo disconoscere dal resto del mondo, bloccandogli l’accesso ai soldi. E invece il nocciolo della questione di cui nessuno sembra parlare, arrovellandosi intorno al dito invece di guardare oltre, è: il Venezuela ha bisogno degli aiuti umanitari? Mancano davvero le medicine? Il cibo non c’è? La gente sta davvero così male, oppure è solo una diabolica mossa politica?
Negli ospedali pubblici è molto difficile entrare perché all’entrata ci sono i colectivos, delle milizie armate che controllano chi entra ed esce. Per varcare la soglia bisogna avere qualche medico o volontario complice che ti passa un camice, che ti dice cosa dire o non dire e ti supplica fino a quando non prometti che mai farai il suo nome. L’ospedale nel barrio di Catia, un quartiere tra i più poveri e violenti della capitale, è una landa desolata. Il guardiano consiglia ai medici di parcheggiare sul retro per evitare che qualcuno spacchi un finestrino per rubare qualcosa in macchina. L’edificio è fatiscente ma ricorda una struttura che una volta doveva essere bella, ora sembra come tanti edifici a Caracas, lasciato andare, non vissuto, dimenticato. All’entrata gironzolano tra la gente dei cani, prima razzolano nell’immondizia litigando con qualche ragazzo in cerca di cibo che li allontana con cattiveria.
«Eravamo trenta medici, ora siamo in 8, e non ce la facciamo più – dice una pediatra – non è per la mole di lavoro ma per quello che non si riesce a fare, non diventi medico per vedere bambini morire perché non hai materiale per curarli». Hanno spostato l’emergenza al quarto piano perché prima i genitori che vedevano i medici impotenti li aggredivano. Quattro piani di scale li calmano. In questo ospedale non c’è nulla di quello che servirebbe per avere un minimo di cure di base dignitose. Se c’è una complicazione, si muore. Se c’è un’emergenza, si muore. Se si ha fame, si muore. Sette prematuri morti in una settimana.
Alcuni bambini sono ricoverati, un piccolo con la diarrea se ne sta in piedi tenuto dal padre che non sa cosa fare, non c’è acqua da giorni in ospedale e lui non sa come pulirlo. Delle signore volontarie di una fondazione portano barattoli di latte in polvere appena scaduto regalato dall’azienda produttrice. La dottoressa assicura che è un dono di Dio. Servono 4 barattoli al mese per un bambino che non assume latte materno e molte madri non hanno latte perché non mangiano abbastanza o sono malate. Un barattolo costa 22 mila bolivar, 7 euro, lo stipendio minimo mensile è di 6. Il latte è oro in Venezuela, vale molto più del petrolio dove un pieno per una macchina costa 0,060. «Magari si potesse bere», dice una madre che dondola un bambino troppo magro per la sua tenera età.
All’ospedale universitario di Caracas, una volta fiore all’occhiello della scuola di medicina, sembra di passeggiare in qualche serial dell’orrore dove all’improvviso ci si aspetta una carrozzina sgangherata che cigola per il corridoio con le luci intermittenti. Una donna con un aneurisma che le gira per la testa ci guarda e piange, le servono 1200 dollari e non li ha, servono per l’operazione, i materiali, il medico, perfino la mascherina deve comprare. È bloccata lì da mesi, sua figlia è stata perfino rapinata in un corridoio buio. «La situazione negli ospedali è disastrosa» dice a Slow News un operatore delle Nazioni Unite che ci chiede l’anonimato: «manca tutto, ho girato il paese e qui si riparte da zero, serve che arrivi materiale, se scoppiasse un conflitto, una guerra civile non ci sarebbe modo di soccorrere i feriti. Morirebbero semplicemente».
Il problema è anche a chi arriverebbero gli aiuti, chi controlla e chi, in uno dei paesi più corrotti al mondo, farebbe sì che la roba non venga venduta al mercato nero. Secondo Human Rights Watch che ha pubblicato un rapporto dopo essere andato con un’equipe medica della John Hopkins University che ha visitato sia il confine con la Colombia che quello con il Brasile: «Il sistema sanitario venezuelano è collassato, mettendo a rischio la vita dei venezuelani. Una combinazione tra un sistema sanitario fallito e la mancanza non tanto di cibo quanto di poterlo comprare, ha prodotto una catastrofe umanitaria che può solo andare peggio se non si affronta con urgenza».
D’altra parte non ci sono dati: negli ultimi anni, il governo venezuelano ha fatto di tutto per nascondere la situazione epidemiologica del paese, in un apparente tentativo di occultare l’estensione della crisi sanitaria. Nel 2015, all’improvviso, il ministro della Sanità ha smesso di pubblicare i suoi aggiornamenti settimanali con gli indicatori di salute, una fonte chiave per le informazioni circa il quadro della salute pubblica. Quando la ministra della Salute nel 2017 ha ripreso le pubblicazioni per poche settimane è stata immediatamente licenziata. Il governo ha anche preso misure contro i medici che hanno pubblicamente manifestato preoccupazione per la crisi o tentato di fornire dati. «La nostra direttrice è stata arrestata», ci racconta la responsabile di una clinica di Caracas, «solo perché aveva accettato aiuti umanitari da privati».
Quei pochi dati che si riescono a trovare mostrano un quadro dove alcune malattie come la difterite, la malaria, la tubercolosi sono aumentate ed è quasi impossibile trovare antiretrovirali per la cura delle persone con l’Hiv. Sono cresciuti i livelli di malnutrizione e la mancanza di igiene, essendo i prodotti per la cura delle persone diventati troppo costosi e a causa della mancanza di acqua, e ciò ha reso i venezuelani più esposti alle infezioni e alle complicazioni. Sono tornate anche malattie che erano state eliminate grazie ai vaccini. E ora le vaccinazioni sono diminuite in alcune aree del Paese. Secondo l’Organizzazione Pan, dal giugno 2017 fino al settembre 2018 ci sono stati 7300 casi di morbillo, tra cui 64 decessi. Tra il 2018 e il 2015 il Venezuela aveva avuto un solo caso di morbillo, nel 2012. Il focolaio si è diffuso anche in Brasile con 10mila casi sospettati di essere legati al Venezuela. Tra il luglio 2016 e il settembre 2018 sono stati registrati 2000 casi sospetti di difterite, 1200 sono stati confermati e 200 persone sono morte, contro un periodo dal 2006 e il 2015 dove non è stato registrato nessun caso di difterite in Venezuela.
Il numero di casi sospetti di malaria ha subìto un aumento crescente da quasi 36mila nel 2009 a più di 406mila nel 2017, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. La malaria al momento è presente in 9 Stati venezuelani su 25. Secondo gli esperti questo è dovuto alla riduzione del controllo delle zanzare, alla mancanza di medicine per trattare la malattia, alle attività minerarie illegali che agevolano la nascita di zanzare creando pozze d’acqua. Il numero di casi di tubercolosi è aumentato da 6mila nel 2014 a 7800 nel 2016, con un picco di più di 10mila casi nel 2017 e un tasso di 32,4 malati ogni 100mila persone, il più alto negli ultimi 40 anni.
Il Venezuela è l’unico paese del mondo sviluppato con un gran numero di pazienti con l’Hiv che hanno un trattamento discontinuo a causa della mancanza di antiretrovirali. L’87% delle 79mila persone registrate per ricevere trattamenti antiretrovirali dal governo non riceve alcun trattamento e il numero di nuovi casi diagnosticati è aumentato del 24% tra il 2010 e il 2016, con 6500 nuove diagnosi nel 2016. Ma il numero dei malati è probabilmente più alto visto che ormai molti centri sanitari non sono più in grado di effettuare il test Hiv.
I dati più recenti del Ministero della Salute venezuelana che riguardano la mortalità infantile e materna, risalgono al 2016 e dicono che la mortalità materna è aumentata del 65% e quella infantile del 30% in un solo anno. Fino a due anni fa, quando il governo ha deciso di fermare l’importazione di cibo per pagare i debiti di Russia e Cina, la gente trovava i supermercati vuoti, essendo la produzione agricola nazionale scesa al 20%. Ora il cibo si trova ma è carissimo in un Paese dove l’inflazione ha superato il milione per cento: questo ha fatto sì che, secondo le Nazione Unite, i venezuelani abbiano perso nel 2018 in media 11 kg a testa, assumendo più carboidrati che proteine. Molti vivono con un pasto al giorno fatto di Yuca, mais e sardine. Per chi riceve i Clap, scatole date al governo a sei milioni di persone ogni settimana, almeno in teoria, ha accesso a farina, riso e fagioli neri. La Caritas Venezuela, che monitora la situazione nutrizionale e fornice aiuti umanitari ai bambini delle comunità povere a Caracas e in diversi Stati, parla di moderata e grave malnutrizione tra i bambini sotto i cinque anni cresciuta da un 10% nel febbraio 2017 ad un 17% nel marzo 2018, un livello che è indice di una crisi in base agli gli standard dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Sempre secondo la Caritas il 48% delle donne incinte, molte delle quali non si fanno vedere da un medico prima di partorire, sono malnutrite.
Allora, gli aiuti servono? «Senza dubbio» dice a Slow News un medico che, insieme ad altri, ha manifestato nei giorni scorsi per far entrare i medicinali oltre al confine. «Finora – ci spiega – andiamo avanti con gli aiuti privati. È una specie di miracolo pensare che c’è gente che dall’altra parte del mondo ci invia pacchi di roba, non è abbastanza, ma ci fa tirare avanti, giorno dopo giorno, e ci dà la forza di non arrenderci, di sapere che non siamo dimenticati». Piccole gocce nel mare, tonnellate di medicine e aiuti che ogni giorno arrivano dall’estero. Una rete di “angeli trafficanti” che si sono uniti in associazioni e fondazioni e, facendo rischiare la prigione a chi riceve gli aiuti e poi li distribuisce, manda avanti il Paese.
«Ogni mese ormai da tre anni – ci racconta Feliciano De Santis, un venezuelano di origine italiana, abruzzese – distribuisco quella quantità di materiale che ora sta al confine e per cui si fa tanto baccano». Tutto in sordina, basso profilo, il più lontano dalla vista delle autorità: «Non ti devi far beccare dalla polizia, altrimenti ti sequestrano tutto e poi lo rivendono al mercato nero e tu finisci in prigione, ma non posso non farlo». È un ingegnere, un gigante buono che un giorno ha capito che il suo contributo doveva essere più attivo: «Non è una questione politica, religiosa o altro, si tratta di decidere se accettare di guardare la gente che muore di fame o di malattia o se rimboccarsi le maniche e per quanto poco possa essere, fare qualcosa. Non ho paura di aver deciso».
L’80 per cento dei medicinali che distribuisce Feliciano viene dall’Italia. L’Organizzazione Ali Onlus, che ha più di 20 centri in Italia, si affida a volontari che raccolgono le medicine e le spediscono. Altre arrivano da Germania, Stati Uniti, Portogallo.
De Santis distribuisce alla Caritas, a cliniche, ad ambulatori dove medici e direttori sanitari hanno deciso di infrangere la legge in nome della salute di chi ha bisogno. Alla farmacia della Caritas, dove portiamo 32 scatole di medicinali italiani che dureranno non più di due o tre giorni, la coda comincia alle 5 di mattina, centinaia di persone che non possono permettersi le medicine al mercato nero passano ore in fila con la ricetta tra le mani. 120 di loro saranno aiutati. «Soprattutto medicinali per la pressione, antibiotici, anti-convulsioni e insulina», ci spiegano mentre giriamo tra gli scaffali dove un signore si preoccupa che è un po’ disordinato: c’è di tutto, dai familiari nomi italiani a farmaci tedeschi, portoghesi, americani. I malati più frequenti sono anziani e bambini. Sono infinite le malattie che affliggono le persone, da quelle di un momento a quelle croniche, difficile immaginare di non potere fare niente, di non poter entrare in una farmacia e risolvere il problema. Malattie ordinarie che diventano incurabili. Diarrea, malaria, Parkinson, cancro, trattamenti come la dialisi, qualsiasi cosa può essere mortale.
«Facciamo un inventario, classifichiamo le medicine che arrivano e tutto quello che è in più lo diamo di nascosto a un ospedale pubblico. Non potremmo perché se ci scoprono la galera è certa ma il nostro lavoro è aiutare la gente sempre, non smetteremo di essere medici» ci dice una preoccupata la dottoressa Lorena Blanca della Clinica cattolica Padre Machado.
In alcune zone come sul confine a Tachira (vicino alla Colombia) o a San Elena (vicino al Brasile) dove ci sono costantemente scontri tra gente e colectivos (le milizie armate) gli ospedali non sono in grado di gestire nessun tipo di emergenza. Nella zona al confine del Brasile della gestione sanitaria è stata incaricato un militare, come per commoditiy come il petrolio, l’oro, il cambio valuta e la produzione alimentare.
Perché non ci sono medicine? «Perché me lo chiedi – dice quasi intimorita la dottoressa Blanca, temendo di dover criticare il governo – quello che succede è che in Venezuela non abbiamo più aziende farmaceutiche, si sono spostate in posti economicamente più sicuri. Il governo dovrebbe importare le medicine delle stesse aziende dall’estero in dollari ma non ci sono i soldi per farlo. Quando l’economia andava bene non c’erano problemi ma negli ultimi quattro anni è stato un inferno, nessuno vuole transazioni in bolivares che non valgono niente; il governo allora si è rivolto ai cubani ma per quanto questi abbiano un ottimo sistema sanitario non hanno sempre i medicinali di ultima generazione che ci servono».
Man mano che ci si allontana da Caracas la situazione sembra peggiorare, lungo la strada ci sono piccole cascatelle di acqua e gente armata di secchi cerca di portarne un po’ a casa. A Caracas c’è acqua per mezz’ora un paio di volte al giorno ma ci sono posti dove l’acqua non si vede anche per una settimana. E gli ospedali non fanno eccezione. Per non parlare delle interruzioni di energia elettrica.
A Les Teques, nello Stato di Miranda, sono due i posti che riceveranno aiuti: uno è un centro per minori, ce ne sono 12 che hanno subito violenza o sono stati abbandonati o sono orfani. Tre fratellini sono stati maltrattati e i genitori hanno spento le sigarette su di loro, poi la madre scoperta a trasportare droga nello stomaco è stata messa in prigione e il giudice ha mandato i piccoli al centro. Altri due sono arrivati denutriti e ora zampettano per la casa sorridenti e affettuosi. Cristina, una bambinetta, ha la mamma haitiana che non riesce a mantenerla e così anche lei è finita lì. Nelle scatole c’è riso in polvere, scatolette, cereali, latte in polvere. I bambini si rimboccano le maniche, aiutano a portare dentro la colazione dell’indomani. Ricevete qualcosa dal governo? «No – risponde la direttrice che guadagna sei dollari al mese – qui andiamo avanti solo con le donazioni e il buon cuore della gente». Sempre a Les Teques un convento di suore ha deciso di aprire le porte ai poveri. Hanno cominciato due anni fa cucinando 80 pasti al giorno per gli anziani, ora ne preparano 1200 ogni giorno, in pentoloni. Tre tipi di zuppa, una per gli adulti, una per i bambini, e il latte per i neonati.
«So che a volte possiamo sembrare cattive – ci spiega una categorica Lucia Marchino dell’Associazione Mani par Vergas – ma se qualcuno viene senza ricetta allora niente medicine. Non vogliamo che le queste vengano rivendute. Se non possono permettersi un medico perché costa troppo fare le analisi noi ne consigliamo alcuni che le fanno gratuite e non crediate che così siamo sempre al sicuro, ci sono persone talmente disperate che, per quanto malate, rivendono le medicine per fare due soldi». Siamo nello Stato di Vergas, a La Guaira dove il mare si affaccia verso i Cairaibi e sembra un po’ di stare in vacanza se non ci si guarda indietro. La signora Marchino ha un centro, una sorta di dispensario, ogni giorno riesce a distribuire medicine a 90 persone, circa l’80 per cento delle medicine arriva dall’Italia.
«La generosità degli italiani ci commuove e ci dà speranza». Il figlio di Lucia è il dottor Juan Olivares, responsabile degli aiuti che l’opposizione ha tentato di far entrare in Venezuela da Cucuta. Proviamo a chiamarlo ma la linea è molto disturbata. «Faremo il possibile per far entrare gli aiuti perché servono, ci serve tutto, speriamo bene». Ci sono armi nelle scatole? «Riderei, se non fosse tragico quello che mi chiedi».
Un reportage di Barbara Schiavulli da Caracas sul come una crisi economica grave si sia trasformata in una crisi politica interna e internazionale. Barbara Schiavulli è una giornalista freelance di guerra, co-fondatrice e direttrice di radiobullets.com, già inviata in Iraq, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Sudan. Con lei condividiamo una visione un po’ disincantata dell’industria […]

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