Ep. 3

Una mattina al checkpoint di Betlemme

Le donne narrate in questo racconto – pur con 15 anni di piú – vivono ancora sulla pelle l’ingiustizia dell’occupazione che si ripete ogni giorno uguale.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Waiting for Gaza

2023. 2009, 2005, 1998: una storia senza tempo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Scrissi questo articolo alla fine di agosto del 2009, dopo aver vissuto 9 mesi nei Territori Palestinesi Occupati. Quei 9 mesi di suole consumate mi cambiarono la vita e la prospettiva sul mondo arabo e sulle radici del cosi detto conflitto israelo-palestinese. A quel tempo una versione rimaneggiata e corredata dalle foto del duo Andrea e Magda fu pubblicata sul settimanale Gioia. È riemerso dal mio archivio digitale in queste ore, in cui il Ramadan per i palestinesi è intriso dei morti di Gaza, il diritto internazionale si concentra sul genocidio in atto e molte persone tra noi qui sulla sponda nord del Mediterraneo si accingono a celebrare il tempo della Pasqua, religiosa o laica che sia con tutto il nostro carico di libertà e responsabilità. E forse con il senso di impotenza di fronte ai meccanismi della Geopolitica.
Ho deciso di regalarlo a Slow News, perchè le donne narrate in questo racconto – pur con 15 anni di piú – vivono ancora sulla pelle l’ingiustizia dell’occupazione che si ripete ogni giorno uguale a se stessa. E perché è un articolo che racconta un sistema di oppressione che è la radice di quanto avviene non solo a Gaza oggi ma in West Bank e a Gerusalemme. Un sistema di oppressione che è fondamentale conoscere e riconoscere per non lasciare che il flusso delle news ci annebbi. 
Volutamente nell’articolo non sono state fatte modifiche – per fermarlo nel tempo. E nello spazio. E perchè anche questo ci possa aiutare a fermarci per un momento a pensare. E sentire. 
Virginia Fiume

Politiche di sicurezza e libertà di culto: una mattina al checkpoint di Betlemme

“In Italia qualcuno ti ferma quando vuoi andare in chiesa?”, “Ci sono musulmani nel tuo paese? Prendete in giro le donne perché indossano il velo?”

A farmi le domande sono Rokaya, 15 anni, e Hdaya, 14. Siamo sedute su quello che era lo spartitraffico della strada che un tempo, fino al 2002, collegava Betlemme con Gerusalemme. Ora davanti ai nostri occhi, a tagliare quella strada, si erge un muro alto 8 metri e il terminal del checkpoint “300”, gioielli dell’architettura militare che, secondo le versioni ufficiali del Ministero della Difesa israeliano, garantirebbero la sicurezza dello Stato di Israele. Entrambe le ragazze stanno sedute composte, Rokaya custodisce gelosamente tra le mani una copia del Corano, una piccola versione con la copertina in velluto nero. Entrambe sanno che oggi non riusciranno a raggiungere Gerusalemme e la moschea di Al Aqsa. La loro età è già considerata “pericolosa” secondo i parametri dettati da Israele. E la loro carta di identità verde, che contraddistingue chi vive in Cisgiordania, non permette loro di recarsi né in Israele né a Gerusalemme, se non grazie a permessi speciali rilasciati dalle autorità israeliane. Quando chiedo loro quando è l’ultima volta che sono state a Gerusalemme mi rispondono, rigorosamente in arabo, “due anni fa”. E poi, con occhietti ironici, mi domandano quando è l’ultima volta che ci sono andata io a Gerusalemme, se anch’io, italiana, ho bisogno di un permesso.  

 

Sono le 8 di mattina del penultimo venerdì del mese di Ramadan, il cielo è azzurro e ci sono già 30 gradi.  Nello stesso momento folle di palestinesi musulmani si stanno accalcando ai tre checkpoint (Qalandya, Betlemme e Iz’ayeem ) lungo il confine tra Israele e la Cisgiordania che sono aperti per permettere al flusso dei fedeli di accedere a Gerusalemme e recarsi a pregare alla moschea di Al Aqsa, nel cuore della città vecchia. La moschea è il terzo luogo sacro dell’Islam, può contenere fino a 5,000 fedeli ed è situata vicino al luogo dove la tradizione islamica vuole che Maometto sia asceso al cielo nel 621 d.C. Di fianco si staglia il Duomo della Roccia, la famosa cupola d’oro che nell’immaginario collettivo è emblema di Gerusalemme e che per i musulmani è come San Pietro per i cattolici.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Passo almeno un’ora seduta con le due ragazze e una vecchia signora, Aysha, che sorride dolcemente ogni volta che mi sente farfugliare nel mio arabo stentato. Quando parlano tra loro la parola che riconosco maggiormente è “yahudia”, che vuole dire “ebrei”. Probabilmente si interrogano sui soldati che controllano l’accesso al checkpoint e sui criteri che adottano per far passare le persone. Nei giorni normali può passare dall’altra parte del muro solo chi ha un permesso, per motivi di studio, di salute, di lavoro. Ma il mese di Ramadan è un mese speciale, è il mese della purificazione per i musulmani: dall’alba al tramonto non si mangia, non si fuma, non si hanno rapporti sessuali e bisogna fare di tutto per astenersi dal litigare, mentire e calunniare. E bisogna pregare, possibilmente recandosi in uno dei luoghi sacri. Per l’occasione vengono promulgate regole speciali per permettere ai palestinesi musulmani di andare a Gerusalemme. Mi interrogo su quali siano questi criteri osservando la folla intorno a noi. Di solito si entra nel checkpoint dopo un percorso recintato che conduce nel piazzale interno, racchiuso su quattro lati dal muro e dalle reti di recinzione. Si accede all’area “metal detector”, dove tutti passano sempre almeno tre o quattro volte, avanti e indietro. Di solito il sottofondo a queste operazioni è una voce femminile che urla in ebraico, probabilmente invitando gentilmente le persone a passare più volte e a spogliarsi di tutto quello che potrebbe essere un’arma: scarpe, cintura, collanine. Infine si raggiungono i gabbiotti, dove i soldati e le soldatesse israeliani controllano il documento, il permesso (cartaceo se temporaneo, magnetico se “di lavoro”) e le impronte digitali dei palestinesi che vogliono passare.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Oggi è tutto più caotico e confuso. Sono stati installati dei blocchi di cemento che creano due corridoi esterni, uno per la fila degli uomini e uno per la fila delle donne. Due piccole folle si accalcano. Sottile e relativamente ordinata quella degli uomini, ondeggiante e rumorosa quella delle donne. Mi sono introdotta tra loro, sentendomi nuda circondata dai loro veli e dai loro cappotti lunghi e abbottonati, nonostante il sole già a picco sulle teste. Si fanno aria sventolando la plastica delle loro carte di identità, la maggior parte sono verdi, ma ci sono alcune donne più anziane che hanno ancora il documento rosso, precedente alla stipula degli accordi di Oslo. Un piccolo arcobaleno in coda sotto gli occhi attenti dei soldati israeliani. Continuiamo a fare tre passi avanti e dieci passi indietro, in una sudata danza collettiva. Davanti a noi, ritto su un blocco di cemento, un soldato con un cappello alla pescatora e un megafono continua  a urlare “kullu iga lawara”, arabo per dire “andate tutti indietro”. Sopra le nostre teste, sui tetti di alcuni dei negozi che un tempo erano sulla strada principale tra le due città più turistiche di Israele e della Cisgiordania, rimasti chiusi dopo la costruzione del muro, sono appollaiate decine di soldati. Alcuni si riparano dal sole grazie a un ombrellone verde, altri ci osservano stringendo in pugno il loro mitragliatore M16. Sotto di loro le donne stringono le carte di identità e più in là gli uomini al massimo giocherellano col missbaha, un filo di palline, simile al rosario cristiano, che li aiuta nella preghiera a tenere il conto delle 33 volte in cui devono ripetere il nome di “Allah e di Maometto il suo profeta”. 

 

Dopo al massimo venti minuti mi gira la testa. Sarà il caldo, la calca, la sete o la fame ma decido di lasciare la folla e di abbandonare il mio proposito di fare la coda con i palestinesi per recarmi a Gerusalemme. Punto decisa uno degli osservatori dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari), contraddistinto dal suo gilerino blu con le lettere UN sulle spalle. Si chiama Abed ed è originario di Hebron, una delle città della Cisgiordania con la maggiore presenza di musulmani praticanti. Infatti solo da lì oggi al checkpoint sono arrivati 45 pullman di fedeli. Insieme ai suoi colleghi, palestinesi e internazionali, Abed è qui per osservare e raccogliere dati sul numero di persone che passano i checkpoint e per accertarsi che tutto fili senza violenze o discriminazioni da parte dei soldati nei confronti delle persone ammassate sotto il sole e all’interno del terminal del checkpoint. “Durante i venerdì del Ramadan ci sono delle regole speciali per garantire l’accesso dei fedeli a Gerusalemme” mi spiega “le donne che abbiano più di 45 anni, gli uomini over 50 e i bambini under 12 in teoria possono passare senza permesso. Tutti gli altri, quattro giorni prima del venerdi, devono chiedere un permesso al DCO (District Coordination Office) che ha l’autorità burocratica su di loro. L’ufficio, ovviamente sotto le autorità e le competenze israeliane, il giovedì comunicherà loro se hanno ottenuto il consenso per recarsi a Gerusalemme o meno. Per chi ha meno di 30 anni, non è sposato e magari è stato in carcere anche solo una volta, anche solo per detenzione amministrativa, è praticamente impossibile ottenerlo. La motivazione con cui il permesso viene rifiutato è sempre la stessa, un generico motivi di sicurezza”. Quando gli chiedo perchè intorno a noi ci siano tanti adolescenti, giovani che di tutta evidenza non corrispondono ai parametri che mi ha appena illustrato mi risponde in modo molto chiaro: “Già solo il fatto di tentare di arrivare alla moschea è una dimostrazione di purezza e di adorazione nei confronti di Dio. Inoltre, non accettare le limitazioni dell’occupazione è una forma di resistenza. A loro non importa essere rimandati indietro, basta averci provato. E poi c’è sempre un 2% di persone che ce la fa a introdursi anche senza permesso. Se non vengono ripescati dai soldati dall’altra parte, magari quando sono già sull’autobus 124 che porta alla Porta di Damasco, è fatta”. Mentre parliamo Abed si dimentica di me, una signora anziana viene portata via su una barella dagli infermieri della Mezzaluna Rossa. È boccheggiante nel suo abito tradizionale, lungo e nero, con i ricami colorati sul petto.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Verso mezzogiorno le maglie del checkpoint si allargano, la folla si snellisce e anche se l’orario della preghiera è passato le donne cominciano a correre verso il terminal. Forse raggiungeranno comunque Gerusalemme, saranno parte di quei 190,000 che per un giorno potranno raggiungere la loro Al Quds, la città santa da cui sono separati da muri, checkpoint e soldati. 

 

Il tutto è parte delle politiche di Difesa e di Sicurezza che a Israele complessivamente costano, secondo il Budget del 2009 del Ministero della Difesa, 48, 6 miliardi di shekel (circa 8 miliardi di euro). Significa che ognuno dei 7,4 milioni di cittadini israeliani, bambini compresi, spende per la sicurezza del suo stato 7,851 shekel all’anno (1,570 euro all’anno).

 

Mentre mi allontano dal checkpoint ormai deserto lancio un ultimo sguardo ai soldati che scendono dal tetto, che rimuovono le transenne che hanno trattenuto i diecimila corpi di uomini e donne palestinesi nel corso della mattina dietro alla motivazione “motivi di sicurezza”.

 

La maggior parte di loro sono ragazze e ragazzi di 20 anni, che appena finite le superiori si ritrovano coscritti in uno degli eserciti più imponenti del mondo. L’unico con il servizio di leva obbligatorio, tre anni per gli uomini, due per le donne. Uno dei pochi a non accettare l’obiezione di coscienza, perché la sicurezza viene sopra tutto. A volte, spesso, anche sopra alla dignità delle persone.

Questo articolo e le foto sono stati regalati a Slow News da Virginia Fiume, che ha vissuto gli eventi raccontati nell’agosto 2009. Qui si trovano tutte le immagini scattate quel giorno.

Slow News, via email
Lasciaci il tuo indirizzo e ricevi gratuitamente solo le parti di Slow News che ti interessano:

TAG:

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Stai leggendo
Waiting for Gaza

2023. 2009, 2005, 1998: una storia senza tempo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Tutti gli episodi

1
3
Altri articoli Guerra