Ep. 05

La Summer of Love e la fine di un’era

Pace, amore e libertà.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Il lungo viaggio. Storia universale della psichedelia

Non più droghe ma farmaci: l’evoluzione degli psichedelici tra cultura di massa e scienza.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Negli anni Sessanta la penetrazione delle istanze psichedeliche nella società statunitense e – forse soprattutto – californiana, era davvero significativa. Il terreno del resto era fertile: a quelli che erano gli hipster, una corrente esistenzialista nata in aperta contraddizione con l’asfissiante impostazione consumistica americana, si affiancarono i beatsters, vale a dire i Beat.

Si compose una diade di gruppi dissidenti che, seguendo la lezione di Jack Kerouac, potremmo dividere in «freddi» (più inclini al consumo di eroina) e «caldi» (più a loro agio con la marijuana):

«Ci sono due tipi di "beat hipsters": i freddi, dei tizi con la barba che siedono senza muovere un muscolo nei bar, con le loro ragazze scontrose vestite di nero, che non aprono bocca; e i caldi, dei folli dagli occhi scintillanti, innocenti e dal cuore aperto, chiacchieroni, che corrono da un locale all’altro solo per essere ignorati dai freddi… Io penso di appartenere ai caldi»

Anche se inizialmente il modello dei vecchi hipster solinghi e brontoloni era più diffuso, la situazione era destinata a evolversi, e finì per diventare prevalente l’esempio degli irrequieti beat hot, che individuarono come nuovi numi tutelari proprio gli artisti della Beat Generation. I nuovi idoli sarebbero diventati dunque Jack Kerouac, Neal Cassady e Allen Ginsberg, ma il loro esempio era quello di una corsa deflagrante verso un punto di non ritorno. Noti anche come «gioventù bruciata», molti dei Beat videro il loro destino segnato dalla morte prematura di alcuni degli interpreti chiave del movimento culturale – tra cui gli stessi Kerouac e Cassady.

In Un ottimista in Americaun reportage scritto da Italo Calvino in occasione di un suo lungo soggiorno negli Stati Uniti avvenuto proprio in quegli anni, lo scrittore offre un ritratto della Beat Generation in grado di farci capire le ragioni ultime della nascita e della diffusione del movimento tra i giovani statunitensi:

Quando più mi avvicinavo a sentirmi un americano medio, cominciava a prendermi una specie di insofferenza, qualcosa che non mi veniva dalla lettura dei romanzieri e dei sociologi ma da dentro, dal prevedere come si sarebbe potuta svolgere là tutta la mia vita, una specie di angoscia, di vertigine, di fronte alle stazioni di benzina, di fronte alle rivendite di auto usate pavesate di bandierine di carta, di fronte alla banca drive-in con lo sportello al quale puoi svolgere tutte le tue operazioni senza scendere di macchina, come se dietro a tutto questo ci fosse il vuoto, il nulla, e tutt’a un tratto, ecco: avevo capito la beat generation, il no assoluto, il rifiuto di tutto questo, avevo capito la portata – anche quantitativa – come fatto sociale di questo sciamare verso le metropoli di giovani che invece di affrettarsi a trovare il loro posto nel meccanismo della prosperity e delle carriere prestabilite, s’insabbiano in sudici quartieri, si rifiutano di lavorare, abborracciano in modo dilettantesco un’attività letteraria o artistica, e cercano non il successo o il potere, ma un aldilà, un nirvana, cercano con i mezzi che il terreno gli offre – teorie sessuali e pratiche mistiche, jazz freddo, buddismo zen, testi religiosi medievali, sigarette alla marijuana, esercizi yoga – qualcosa che non è una trasformazione del mondo, ma una trasformazione del modo di stare al mondo. È questo il punto. La beat generation non pretende di trasformare il mondo, ma solo di starci dentro a modo suo; perciò la inesorabile macchina schiacciasassi della repressione sociale l’ha finora rispettata.
Italo Calvino
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Arnaud Steckle su Unsplash

Come intuito da Calvino, il modello dei Beat era destinato ad avere successo per intrinseche questioni legate alla composizione del tessuto sociale americano. Non per caso il set di valori della Beat Generation – come il rifiuto delle regole e della società in cui vivono, il desiderio di fuga (rappresentato dal viaggio in macchina, dall’autostop, pensate a On the road), la ricerca di una nuova spiritualità zen e taoista, così come la ricerca della nuova unione dell’io col «tutto» attraverso l’uso di sostanze psicotrope, non era che il lago amniotico di quello che sarebbe stato il nuovo e più grande movimento giovanile conosciuto dalla storia degli Stati Uniti: gli hippy.

Alla metà degli anni ’60 i figli dei fiori erano ormai un movimento sociale diffuso in diversi paesi e costituiva, insieme alla New Left e all’American Civil Rights Movement, lo zoccolo duro della cultura alternativa del decennio. Come i beat, gli hippy respingevano le istituzioni e criticavano i valori della middle class: fermamente contrari alle armi nucleari e alla Guerra in Vietnam, sposavano gli ideali delle filosofie orientali, la libertà sessuale, il vegetarianismo e l’ambientalismo – irrorando il tutto con dosi via via sempre più massicce di LSD. Si può far risalire al 1965 il periodo in cui gli hippy individuarono San Francisco, e in particolare l’area di Haigth-Ashbury, come loro centro nevralgico. In quel momento un manipolo di artisti, capeggiati da Ken Kesey e Owsley Stanley, riuscì a radunare un certo gruppo di giovani col preciso intento di sperimentare diversi tipi di sostanze. Gli happening organizzati in questo modo divennero noti come Acid Tests, e rappresentarono il momento in cui le esperienze comunitarie si fusero con l’uso costante e diffuso di psichedelici, il tutto accompagnato dalla colonna sonora del nascente acid rock e da una disinibizione sessuale che, nell’America perbenista di quegli anni, svolse probabilmente un ruolo chiave nel promuovere tra i giovani il successo delle nuove istanze.

Il 3 gennaio del 1966, proprio in Ashbury Street, venne inaugurato lo Psychedelic Shop – un centro pensato apposta per fornire informazioni sul movimento hippy e fungere da catalizzatore dell’intero quartiere. Mentre il movimento diveniva un fenomeno di massa, il 6 ottobre del 1966 la California dichiarava illegale l’LSD. In risposta alla decisione dello Stato, Allen Cohen e Michael Bowen, fondatori del «San Francisco Oracle», organizzarono il Love Pageant Rally, un raduno dalle parti del Golden Gate Park, per dimostrare la loro contrarietà alla «repressione legislativa del misticismo chimico» nonché la propria innocenza, sostenendo che la loro attività altro non era che una ricerca della «coscienza trascendentale, della bellezza dell’universo, e della bellezza dell’essere». Il Love Pageant Rally fu solo la prima delle adunate in grado di caratterizzare quegli anni. Tra le altre va ricordato lo Human Be-In, organizzato nel Golden Gate Stadium il 14 gennaio del 1967, che con i suoi 20.000 partecipanti fu la prima grande manifestazione pubblica del movimento hippy, accompagnata dalla musica dei Jefferson Airplane e dei Grateful Dead. Il movimento trovò infine il suo culmine con la Summer of Love del 1968, quando il quartiere Haight-Ashbury fu raggiunto da oltre 75.000 persone provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti. Il 13 maggio l’epocale evento venne lanciato dal singolo San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair), scritto da John Phillips dei The Mamas & the Papas e cantato da Scott McKenzie.

La canzone, che raggiunse immediatamente la vetta delle classifiche USA, annunciava quello che sarebbe stato l’apice della stagione dei figli dei fiori.

f you’re going to San Francisco,
Be sure to wear some flowers in your hair,
If you’re going to San Francisco,
You’re gonna meet some gentle people there,
For those who come to San Francisco,
Summertime will be a love-in there…
Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Fenna van Casand su Unsplash

L’inizio della Summer of Love fu fissato per il solstizio d’estate, e durante i mesi successivi concerti, raduni, feste e spettacoli si susseguirono ininterrottamente nel quartiere di Haight-Ashbury, dando vita al più grande evento mai ospitato dalla città. L’uso dell’LSD fu centrale nella definizione dell’identità hippy, e il tentativo della Summer of Love fu quello di combinarlo con tutte le forme di espressione possibili. Tuttavia allo zenit costituito dall’estate del 1968, seguì subito il declino – la festa segnò in quel caso il canto del cigno di un’epoca – anche perché i mesi percorsi dal fremito festante non furono privi di problemi di ordine pubblico (anche legati all’abuso di droghe), che, sfociando in episodi di violenza e piccola criminalità, finirono per temperare l’entusiasmo iniziale. In autunno, quando ormai la maggior parte dei partecipanti aveva abbandonato la città, gli hippy rimasti celebrano al Buena Vista Park il loro stesso simbolico funerale il 6 ottobre 1967 (esattamente un anno dopo che la California mise al bando l’LSD), in un rito chiamato The Death of the Hippie, durante il quale, secondo la ricostruzione del poeta Stormi Chambless, gli organizzatori seppellirono un fantoccio acconciato a figlio dei fiori nei pressi del Golden Gate Park, come segno consapevole della fine di un’era.

Facendo un passo indietro e tornando alle vicende di Leary, possiamo sospettare come ormai – con tutti i processi cui si apprestava ad andare incontro – un sentore crepuscolare fosse evidente anche a lui. Per fronteggiare al meglio tribunali e stampa, tuttavia, Marshall McLuhan gli suggerì di mostrarsi sempre sorridente: «Ogni volta che ti fotografano, tu sorridi. Saluta con la mano, in modo rassicurante. Emana coraggio. Non lamentarti mai, non sembrare rabbioso. Va benissimo se appari esuberante ed eccentrico. In fondo, sei un professore. Ma la pubblicità migliore è un atteggiamento sicuro di te. Devi essere conosciuto per il tuo sorriso». In quel momento saltò fuori lo slogan in grado di segnare un’epoca: «turn on, tune in, drop out», che anni dopo Leary ammise essere stato ideato proprio da McLuhan. Non può essere dimenticato che quel periodo, oltre che il tempo delle adunate oceaniche e della diffusione democratica dell’LSD, fu quello della guerra in Vietnam: le diserzioni aumentavano vertiginosamente e in molti parevano cogliere connessioni dirette tra tutte queste cose. Negli anni seguenti Timothy Leary avrebbe vissuto un’odissea tra carcere, evasioni e picaresche fughe intercontinentali che lo portarono fino all’Austria e al Medio Oriente, prima di venire di nuovo catturato dagli statunitensi a Kabul. Non smise mai di mostrarsi sorridente, benché in fondo il suo attivismo abbia a tutti gli effetti finito per nuocere alla causa della ricerca sulle sostanze psichedeliche, segnando di fatto quella che sarebbe stata una demonizzazione destinata a durare fino a oggi. Tutto sommato uscì meglio dall’esperienza dell’Harvard Psilocybin Project il suo collega Richard Alpert, che nel 1965 lasciò gli Stati Uniti diretto in Oriente, dal quale sarebbe tornato come Ram Dass – il nome con cui lo conosciamo da allora (Richard Alpert / Ram Dass è morto recentemente, il 22 dicembre 2019). Il suo libro Be Here Now, del 1971, fu uno dei vettori principali per l’accesso delle religioni orientali nell’ambito controculturale statunitense (il volume è un vero e proprio caso, essendo un bestseller internazionale mai tradotto in italiano).

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Clem Onojeghuo su Unsplash

È complicato valutare il contributo di Timothy Leary alla storia novecentesca della psichedelia, quel che è certo è che la sua impronta era destinata a cambiare le cose, e a durare. Di fatto coinvolgendo Allen Ginsberg e gli altri scrittori della Beat Generation, ma anche col suo piglio arguto e genuinamente anarchico, Leary contribuì in modo decisivo a portare l’LSD fuori dai laboratori e dai circoli delle élite intellettuali per spingerlo fatalmente nell’alveo controculturale (che d’altro canto è l’unico ad aver saputo tenere in vita la fiaccola iridescente della psichedelia nel cinquantennio successivo). L’idea alla base dell’azione di Leary e Alpert era quella di rendere democratico l’accesso alle sostanze, democratico e privo delle mediazioni mediche ritenute necessarie dagli altri ricercatori. Non si può non sottolineare come una funzione di controllo in una cornice rituale già di suo rassicurante fosse però nel tempo stata elaborata anche da tutte quelle culture che hanno fatto per secoli (quando non per millenni) uso di sostanze psicoattive. Per l’IFIF (l’International Federation for Internal Freedom), ossia l’associazione creata nel 1963 dai due ex professori di Harvard una volta fuori dall’Ateneo, le guide non erano invece necessarie, un approccio che in alcuni casi può risultare oggettivamente pericoloso, mentre in altri contribuisce a far detonare con potenza ancora maggiore il portato sovversivo degli psichedelici (questo approccio avrebbe raggiunto il suo culmine nel 1966, quando Leary riorganizzò l’IFIF nella League for Spiritual Discovery, sostanzialmente un ashram in cui l’LSD era usato a mo’ di sacramento). Il metodo di Leary e Alpert era insomma opposto a quello di chi li aveva preceduti: Osmond, Huxley e Al Hubbard credevano a loro volta che queste straordinarie molecole fossero destinate a cambiare il corso della storia, ma ritenevano più cauto un approccio che partisse dall’alto, e che da lì influenzasse gradualmente il resto della società (un po’ sul modello dei riti eleusini).

Il passaggio di Timothy Leary nella storia della psichedelia novecentesca è stato quello di una cometa folgorante e irriverente, e senza il suo apporto la vicenda controculturale della seconda metà del secolo sarebbe stata certamente diversa – c’è però da chiedersi anche come sarebbe andata senza di lui, ho il sospetto che più di una tempolinea tra quelle alternative al suo intervento così chiassoso e irruento ci avrebbero portato a delle contemporaneità in cui il Delysid sarebbe da un paio di decenni un farmaco da banco. Tuttavia, fare ipotesi del genere non è altro che un gioco ozioso, alla fine del 1966 il destino era segnato: la Sandoz già dall’aprile di quell’anno ritirava l’LSD dalla circolazione, mentre chiudevano i battenti gli oltre settanta programmi di ricerca ancora attivi. Nel maggio dello stesso anno mentre il senato statunitense si interrogava sul problema dell’LSD, il senatore Robert Kennedy – la cui moglie Ethel aveva beneficiato delle cure di Al Hub-bard all’Hollywood Hospital di Vancouver – provò a sostenere le difese dell’utilità dei programmi di ricerca a base di psichedelici: «Perché se i progetti clinici sull’LSD erano meritevoli sei mesi fa, non lo sono oggi?», domandava Kennedy alle autorità che intendevano cancellarli. E ancora: «Penso che si siano date un’enfasi e un’attenzione eccessive al fatto che l’LSD può essere pericoloso e che può nuocere alle persone che lo usano. […] Forse abbiamo perso di vista che può essere molto, molto utile nella nostra società, se usato in modo appropriato».

Tuttavia non c’era più margine per ricucire lo strappo, dal 1967 l’LSD venne vietato negli Stati Uniti, mentre dal 1968 entrò nella Tabella 1, quella delle sostanze più pericolose, su cui era di fatto impossibile svolgere persino ricerche scientifiche. Scampò alla mannaia del legislatore solo il programma di ricerca del Maryland Psychiatric Research Center di Spring Grove, dove Stanislav Grof, Bill Richards, Richard Yensen e Walter Pahnke continuarono a studiare cure a base di LSD e psilocibina, fino a quando l’autorizzazione di cui misteriosamente godevano venne ritirata nel 1976.

Una interessante valutazione del controverso ruolo storico di Leary è quella che ne fornì Albert Hofmann a Losanna nel 1971, dopo averlo incontrato:

Leary difese la sua attività propagandistica perché riteneva fosse stato il suo ineluttabile ruolo storico far conoscere l’LSD in tutto il mondo. I risultati indiscutibilmente positivi di questa diffusione, aggiunse Leary, in special modo evidenti tra le generazioni più giovani della società americana, avrebbero reso irrilevanti al loro cospetto gli incidenti provocati da un uso sbagliato dell’LSD, tutto sommato un prezzo basso da pagare. Nel corso della nostra conversazione constatai che era falsa l’accusa che lo descriveva indiscriminatamente come l’apostolo delle droghe. Egli faceva una netta distinzione tra le sostanze psichedeliche – LSD, psilocibina, mescalina, hashish – dei cui vantaggi era persuaso, e i narcotici che creano dipendenza – morfina, eroina eccetera – contro il cui uso ripetutamente ammoniva. L’impressione che ricevetti del dottor Leary fu quella di un personaggio affascinante, convinto della sua missione e delle sue opinioni, che difendeva con umorismo ma in modo irriducibile; un uomo pervaso dalla fede negli effetti miracolosi delle sostanze psichedeliche, da cui risultava un ottimismo che lo portava a sottostimare o a ignorare del tutto le difficoltà pratiche, i fatti spiacevoli e i rischi.
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Il filosofo e artista digitale Francesco D’Isa presenta la graphic novel Sunyata, un viaggio onirico alla ricerca di sé illustrato con le intelligenze artificiali.