Ep. 03

«Il femminismo è radicale, se no è capitalismo»: intervista a Jessa Crispin

Un’intervista con l’autrice di Perché non sono femminista?, l’attivista statunitense Jessa Crispin

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Feminism(s): la rivoluzione è plurale

Una femminista si ribella all’idea che esistano dei ruoli prestabiliti da una società patriarcale, per cui ai maschi spettano dei compiti e delle responsabilità, alle donne altre.

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Dopo il più grosso scandalo che abbia mai investito lo show business, quello partito dalle denunce di molestie verso Weinstein e poi propagatosi in tutto il mondo, a diversi livelli e a diverse intensità, il movimento femminista ha vissuto un momento strano. Da una parte, grazie all’attivismo di alcune intellettuali e a grandi movimenti di piazza, pare essersi rafforzato, dall’altra, se dobbiamo invece guardare a come si è diffusa la protesta sui social network e nella opinione pubblica internazionale, quello stesso movimento, ingrassato nelle fila e massificato nei contenuti, sembra invece aver perso per strada una vera carica radicale e rivoluzionaria.

In questo contesto, qualche mese fa la casa editrice Sur ha pubblicato un libro decisamente interessante intitolato Perché non sono femminista?, scritto dalla attivista Jessa Crispin, un personaggio decisamente interessante, radicale per davvero, il cui lavoro, oltre che dare voce a una posizione che per il femminismo mainstream potrebbe risultare scomoda, ha una potenza ideologica fenomenale e sul serio rivoluzionaria.

«L’idea base del femminismo è migliorare la condizione delle donne in generale,» inizia a dirmi per rispondere a una prima, generica domanda su cosa intenda lei per femminismo e su quali siano i problemi del movimento di questi anni. Parla veloce, ma spezzettata, come se continuasse a riflettere nel frattempo. «Ma il problema di questa nuova ondata di femminismo», continua dopo una di quelle pause strozzate, «è che la sua definizione di donna mi sembra un po’ troppo stretta».

Che cosa vuol dire? Qual è la loro definizione delle donne?
La loro definizione di donne è molto semplice: intendono riferirsi solo alle donne che sono in grado di migliorare il proprio stato di vita, che possono pensare di essere indipendenti, che sono ambiziose e via dicendo. È evidente che questa definizione lascia fuori le donne più povere, le donne migranti, le donne che non hanno accesso ai social media e così via. Queste ultime sono emarginate quasi completamente dal discorso femminista.

Perché questa chiusura?
Perché tendono a non capire che il discorso femminista riguarda tutte. E io credo che dipenda quasi tutto dall’ego e dall’individualismo. Quindi, tornando a quello che invece penso io, la mia definizione di femminismo è che non esista nessun femminismo fino a quando non parleremo della situazione di tutte le donne, e quando lo faremo ci renderemo conto che preoccuparsi della condizione e dell’emancipazione di tutte le donne significa considerare la condizione di ogni persona al mondo. Non possiamo certo pensare di migliorare la condizione delle donne senza migliorare la condizione di tutti.

Dal tuo discorso emerge un femminismo molto diverso da quello degli esordi, ai tempi delle sufragette, per esempio. In che momento è cambiato?
Penso che sia partito tutto con la cosiddetta seconda ondata, è lì che abbiamo assistito alla definitiva rottura tra una parte radicale e un’altra più mainstream, penso per esempio alle versioni di Betty Friedan o Gloria Steinem, che si occupavano prevalentemente di lavoro. Sai, l’influenza di Betty Friedan sul femminismo è stata gigantesca, ma ciò nonostante non mi sembra che ci sia alcuna intuizione in nessuno dei suoi lavori.

Mi spieghi meglio?
Lei partiva dalla considerazione che la maggior parte delle donne ai suoi tempi fossero oppresse perché si annoiavano, perché non avevano nulla da fare e perché erano costrette nel ruolo di casalinghe e di madri, ma non sapeva altro. Nel senso, era la sua condizione: era una moglie a una madre e si annoiava. Non le era permesso lavorare, o perlomeno non la incoraggiavano a farlo. Per questo si mise a lottare per fare in modo che di poter usare le sue abilità e di poter avere una vita sociale, che sono poi due dei principali focus di un femminismo che nel corso degli anni si è deteriorato, quello che si basa sulla convinzione che se miglioro la mia vita allora sto migliorando anche quella delle altre.

E invece non funziona così, giusto?
No, ovviamente no. Perché è soltanto un altro capitalismo, un altro patriarcato che ci porta un mondo che abbiamo già davanti agli occhi. Non è una rivoluzione, è solo invidia.

 

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Questa dinamica c’entra con una sorta di massificazione del femminismo?
Sì, c’entra, certo. Ma l’idea che possa esistere una versione universale del feminismo e che tutti debbano e possano essere femministi è qualcosa di abbastanza nuovo. Se tutti fossero femministi vorrebbe dire che il femminismo non avrebbe alcun significato. Perché molte persone, incluse molte donne, traggono beneficio dal modo in cui va il mondo. Quindi, anche se capiscono benissimo che è ingiusto, non hanno la minima voglia di cambiare perché sanno che qualsiasi cambiamento potrebbe mettere a repentaglio anche la loro posizione. Fin tanto che in questa sistema ci riescono a vivere non faranno nulla per smantellarlo. Non credo che ci sia molta empatia nel femminismo contemporaneo. Credo che sia troppo concentrato sull’ego, sull’individualismo, sull’avere successo in un mondo capitalista piuttosto che cambiarlo, sul prendere il posto del patriarcato piuttosto che smantellarlo.

I parametri del femminismo sono quindi ancora quelli del patriarcato, successo, soldi e potere, perché? E quali sono i parametri da seguire?
Credo che il motivo principale sia il fatto che, per la maggior parte, il femminismo contemporaneo non ha mai cercato di sganciarsi dalle metriche del Successo, del Potere e della Ricchezza. C’è molta retorica su questi aspetti. Per esempio mi è capitato di leggere un saggio orribile di una signora americana che sembrava essersi accorta improvvisamente che il mondo è ingiusto, come se lo fosse da un paio di giorni. Questa tizia scriveva la sua versione totalmente arrivista del sessismo e a un certo punto ragliava piagnucolando robe del tipo “bisogna abbattere il patriarcato”, ma senza fornire alcuna spiegazione strutturale su come agisce il sessismo e lo squilibrio di potere nel mondo dell’arte e della letteratura. Il punto sembrava essere che lei non riusciva ad avere successo. E quindi la sua versione della necessità di distruggere i patriarcato si riduce semplicemente al fatto di permettere alle donne di avere più potere. Ma solo che così non si risolverebbe nulla.

Quindi, tornano alla domanda, perché il femminismo usa le stesse metriche del patriarcato?
Perché è quello che le donne, o almeno la maggior parte di loro, vogliono. Non vogliono la distruzione delle gerarchie, non vogliono un nuovo bilanciamento di potere: voglio avere successo. Hanno visto per secoli gli uomini fare i soldi, prendere il potere e avere successo, e ora, invece di aver capito che il successo, i soldi e il potere sono gli elementi da combattere, vogliono la stessa cosa.

Quali sarebbero le metriche giuste?
Non so, cose che abbiano a che fare con il fatto che le persone siano felici o meno, che siano sane o meno, che misurino quale sia la loro qualità della vita, quale sia la situazione delle solidarietà e delle comunità nel mondo… È rispondendo a questo tipo di domande che, per me, si può fare una rivoluzione femminista di successo.

Quindi il sesso non è il cuore del problema, ma è il potere. Il femminismo quindi dovrebbe unirsi con altre forme di lotta per l’emancipazione e se sì, come?
Sì, non credo proprio che possiamo evolverci e portare avanti una lotta senza una comprensione profonda del fatto che la lotta debba essere generalizzata. Al punto in cui siamo io credo che le donne abbiano abbastanza potere: sono alla guida di alcuni dei paesi più importanti del mondo, amministrano gigantesche società e via dicendo. La parità perfetta arriverà per forza, prima o poi. Ci sono abbastanza porte aperte nel mondo per ottenere la cosiddetta “gender equality”, ma il problema è che non basterà quella per rendere il mondo un posto migliore. Se quindi non vogliamo limitarci a ricreare questo mondo di ingiustizie dobbiamo capire che non riguarda solo noi, che non riguarda solo le donne bianche, educate e occidentali. Dobbiamo capirlo, a meno che non ci vogliamo accontentare di vivere in un mondo in cui siamo tutti sempre più stronzi, cosa che ogni tanto mi viene da pensare leggendo cosa scrive molta gente su Twitter o su Facebook. Se vogliamo invece metterci a pensare al perché così tante donne sono rimaste fuori dai nuovi movimenti femministi, allora dobbiamo pensare a come e al perché la loro situazione non sia cambiata di una virgola negli ultimi anni, e anche al fatto che lottare per migliorare la loro condizione sia alla fine equivalente a lottare per il bene di tutti, perché è chiaro che stiamo tutti soffrendo il gioco di un solo sistema.

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Come possiamo continuare a portare avanti un’idea radicale in questo periodo di populismi?
Credo che la ragione per cui il populismo ha occupato alcune delle posizioni radicali sia dovuto al fatto che i radicali li hanno abbandonati. Non c’è stata una sinistra visionaria e organizzata per decenni. Quella che c’è stata si è ridotta a posizioni deboli e rendite di potere e questa credo che sia un’esperienza che condividiamo tutti nel mondo occidentale contemporaneo. Per esempio, stavo parlando con una giornalista polacca che mi ha raccontato della sua attività politica e mi spiegava di come la maggior parte della sinistra in Polonia sia capeggiata da uomini che sono stati accusati di molestie: marciano per il diritto all’aborto, ma poi molestano le donne nei loro gruppi politici. Questo è il livello di ipocrisia.

Come ne usciamo?
Non so cosa si può fare fino a quando la sinistra non farà i conti con questa cosa. Come non so come la sinistra potrà andare avanti se non si accorge che non si tratta solo dei diritti delle donne, o solo di quelli dei trans, o solo di quelli dei rifugiati, ma di quelli di tutti. Occorre mettere questo davanti a tutto. Però poi senti che questa storia della giornalista polacca capita anche negli Stati Uniti, in Canada, e in tutto il mondo occidentale, un mondo in cui la sinistra è sempre più a pezzi: una sinistra ipocrita che è più interessata a mantenere il potere che a cambiare il mondo per davvero.

Come possiamo cambiare davvero la situazione?
Be’, cacciandoli, cacciandoli tutti. Ci stavo pensando anche quando parlavo con la giornalista polacca a come si può mettere a posto tutto questo. E sai, l’unica vera soluzione è fare delle purghe. Non come quelle che faceva Stalin eh? Basta rimuovere questi personaggi dal potere in qualche modo.

Ma cambierebbe tutto se al posto di quegli uomini di merda mettessimo delle donne?
Non lo so, effettivamente anche le donne potrebbero essere stronze tanto quanto gli uomini, quindi non lo so come dovrebbe funzionare. Mi immagino che debba esserci qualcuno capace di avere un pensiero visionario — una persona, o un gruppo di persone — e che quando la gente li ascolta e condivide quello che pensano si possano mettere a seguirli cambiando pian piano il mondo tutti insieme. Il problema però è che non vedo molti visionari a sinistra, vedo solo un sacco di gente che cita Marx a sproposito in situazioni che non lo richiedono affatto, ma scusami, non ho intenzione di infilarmi in un discorso su Marx…

Di quali personaggi politici ti fidi? Ce ne sono?
Politici no, non ce ne sono. Però ci sono scrittori o attivisti, il primo nome che mi viene in mente è quello di Chelsea Manning, per esempio, che è passata attraverso un vero e proprio inferno ma continua a resistere e a combattere. O ancora, i sopravvissuti delle sparatorie di Parkland, attivisti contro le armi che sono solo dei teeneager, ma sono incredibili. Il problema è, in generale, che abbiamo troppo bisogno che arrivi qualche leader che ci dica esattamente cosa dobbiamo fare e come dobbiamo comportarci, così da non avere responsabilità.

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Che ruolo ha avuto la presidenza Obama in questa dinamica?
Io credo che la sinistra americana si sia letteralmente disintegrata sotto la presidenza Obama, proprio perché tanto se ne occupava lui, si occupava di tutto, anche se intanto continuavano i bombardamenti dei droni, le deportazioni di massa, i casini di Wall Street, la persecuzione dei whistleblowers e via dicendo. Insomma, non è che sia cambiata in realtà poi molto la politica americana. Anzi, c’è una grande linea di continuità tra George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump.

Quindi Trump non è una anomalia?
La gente fa finta che lo sia, ma non è così. È soltanto una progressione sulla stessa linea di quello che stava accadendo prima. Per questo era inevitabile. E quindi sì, credo che una parte della colpa di tutto questo sia la pigrizia della sinistra, che si è limitata a mettere una persona a capo di tutto e lasciandogli tutto il potere, mentre noi potevamo limitarci a twittare qualche cazzata o scrivere i nostri pensierini su Facebook senza fare in realtà nulla per cambiare le cose.

Come possiamo cambiare strada, se non immediatamente, almeno nei prossimi decenni?
Credo che sia come dici tu, ci vorrà almeno un secolo per uscirne, perché a noi donne e uomini di questi giorni non piace affatto sacrificarci per un futuro che possiamo solo immaginare, è una dinamica anche comprensibile all’interno del percorso di secolarizzazione delle nostre vite. Smettendo di credere alle false promesse delle religioni di condizioni migliori dopo questa vita, noi ora vogliamo che il paradiso sia in questa vita e non vogliamo rimandare nulla a un futuro che non sappiamo nemmeno se esisterà. È per questo che abbiamo perso l’idea del sacrificio.

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