Il femminismo arabo: radicale, aperto e internazionale
Ad accomunare le attiviste britanniche ed egiziane, il desiderio di non essere più considerate come presenze invisibili e ingombranti.
Ad oltre sei mesi di distanza dai primi articoli sul caso Weinstein pubblicati sui giornali americani, il tema sembra scivolato via dall’agenda del giornalismo italiano.
Una femminista si ribella all’idea che esistano dei ruoli prestabiliti da una società patriarcale, per cui ai maschi spettano dei compiti e delle responsabilità, alle donne altre.
Parlare di dinamiche di genere, in Italia, è sempre un affare complicato. Anche dopo che il caso Weinstein ha travolto Hollywood, allargandosi immediatamente in tutto il mondo e superando i confini del cinema e dello spettacolo, qui da noi tutto il clamore e l’indignazione di fronte all’abuso sistematico del potere sotto forma di molestie sessuali si sono risolti in settimane di polemiche e attacchi personali contro le donne che hanno avuto il coraggio di parlare.
A più di sei mesi di distanza dai primi articoli sul caso Weinstein pubblicati sui giornali americani — NY Times e New Yorker furono i primi — il tema ora sembra semplicemente scivolato via dall’agenda del giornalismo italiano e l’effetto liberatorio e potenzialmente emancipante di tutto lo scandalo è finito per diventare un affare morale, perdendo tutta la sua radicale carica rivoluzionaria.
Qui su Slow News, però, l’agenda dettata dai quotidiani non ci interessa. O meglio, non ci interessa quella girandola impazzita che chiamiamo «agenda» e che genera tifo e indignazione più che comprensione e analisi. Per questo abbiamo preso un treno e siamo andati al di là delle Alpi, a Locarno, in Svizzera, dove tra 16 e i 18 marzo scorso, il festival ha organizzato una tre giorni per dare spazio alle immagini e le parole di tre donne: Laura Bispuri, Susanna Nichiarelli e Antonella Lattanzi.
Con quest’ultima, scrittrice e sceneggiatrice, abbiamo avuto la possibilità di parlare proprio di questi temi, subito dopo il suo intervento al festival.
«Non credo che ci sia una specificità femminile nella letteratura», attacca quasi sussurrando nel foyer del Gran Rex, mentre in sala va in onda Che fine ha fatto Baby Jane? e continua: «Esistono libri buoni e libri cattivi, esattamente come esistono film buoni e film cattivi ed è veramente importante che smettiamo di focalizzarci solo e sempre sul sesso dell’autore, ma leggere i suoi libri, guardare i suoi film al di là del fatto che sia uomo o donna.
Se proprio devo trovare una differenza, è che, almeno per quanto mi sembra, i film delle donne e i libri delle donne siano guardati e letti meno di quelli degli uomini. Un po’ perché ci sono meno autrici, meno registe, meno sceneggiatrici, di quanti ce ne siano invece del sesso opposto. È per questo che poi vengono organizzati momenti come questi, una tre giorni dedicata alle voci delle donne nel cinema, e forse sono un buon modo per attirare l’attenzione del grande pubblico su film girati da donne, anche se, ripeto, l’ideale sarebbe guardare i film, non pensare a di che sesso sia chi li ha girati e scritti».
Da sempre le donne sono le lettrici più forti, all’interno dell’industria editoriale ci sono tante donne — uffici stampa, editor, grafiche, correttrici — eppure difficilmente queste lavoratrici arrivano ad essere ai vertici, ai vertici ci sono quasi sempre uomini. Come mai forse è una domanda scontata, ma come si fa a cambiare la situazione?
Non so come si fa a cambiarlo. Ma credo che stiamo assistendo, anche se lentamente, a un cambiamento. Per esempio, se guardo a uno dei miei lavori, la sceneggiatrice, ci vedo molte più donne rispetto al passato. Però è chiaro che, in linea generale e quasi in ogni ambito lavorativo, c’è ancora la sensazione che alle donne sia consentito arrivare sempre e solo fino a un certo punto della scala gerarchica, e anche a parità di ruoli — perché qualcuna ce la fa — vengono pagate di meno.
Poi, c’è la questione anche dei figli e se una donna che fa il mio lavoro ne vuole avere sa che non avrà diritto alla maternità ed è molto difficile scegliere cosa fare. Di sicuro non credo che la soluzione sia instaurare delle quote rosa, ovvero scegliere che per forza ci deve essere un cinquanta per cento di uomini e un cinquanta di donne, sembrerebbe un contentino e basta. Serve rendersi conto che le donne possono occupare questi ruoli, cosa che incredibilmente in Italia ancora non capita.
Hai nominato due metriche su cui si valuta di solito l’emancipazione femminile: i soldi e il potere. In un pamphlet recentemente pubblicato da Sur di Jessa Crispin, intitolato Perché non sono femminista, lei si scaglia contro questo vizio di forma. Se lotte del femminismo, dice, servono solo per far arrivare qualche donna ai vertici e, ancor di più, se misuriamo l’emancipazione con le metriche del capitalismo, allora non cambieremo mai il sistema. Sei d’accordo? Può essere una chiave per rivedere il femminismo in un’ottica non esclusivamente «femminile»?
Secondo me bisognerebbe in generale avere uno sguardo meno retorico sulle cose, anche su queste, penso alle violenze sulle donne, ai femminicidi. Bisognerebbe iniziare a considerare che le donne che si innamorano di un uomo violento non sono stupide, che c’è qualche altra cosa che muove una relazione di quel tipo. E quindi se si mettono sempre i sessi uno contro l’altro, se si guardano tutte le storie senza mai entrarci, sezionandole soltanto con le solite categorie, rischiamo di restare sempre fermi a una contrapposizione sterile, che poi alla fine non porta a nulla.
Ti faccio una provocazione. Esattamente come la lotta di classe non dovrebbe puntare a sovvertire le posizioni tra dominante e dominato ma a far scomparire le classi, io credo che una vera lotta di emancipazione sessuale dovrebbe mirare non a sovvertire l’ordine costituito dei generi portando le donne al posto degli uomini, ma forse dovrebbe puntare a far scomparire l’importante delle divisioni di genere, arrivando magari a capire che il mondo non si divide in uomini e donne, ma che l’arco sessuale è una lunga linea senza soluzione di continuità fisiologica tra il maschio alfa e la donna alfa. Cosa ne pensi? Arriveremo mai a parlare di generi come ora parliamo di colore dei capelli, ovvero di un dettaglio poco rilevante?
Non so, è molto radicale come pensiero. In fondo io credo che esistano delle differenze nel modo di pensare, di guardare il mondo tra uomini e donne. Dire che non c’è questa differenza è sbagliato. Anche in una coppia lo senti che i procedimenti mentali di un uomo e una donna, però è anche vero che non si dovrebbe poi dividere il mondo lavorativo a seconda dei generi, ma semplicemente secondo talento, qualità e competenza. Naturalmente sotto alcuni aspetti la donna è più debole, come per esempio quello della maternità, quindi su quello c’è poco da fare, siamo diversi e ci vogliono delle regole che tutelino la maternità e che adesso non ci sono.
Quando parli delle differenze all’interno della coppia, da come lo dici sembra quasi che siano differenze biologiche, ma non credi che siano piuttosto culturali?
Sì, ma crescendo ti rendi conto che ci sono processi mentali che differenziano donne e uomini…
A me personalmente fa paura accettare questa cosa e rubricarla come fattore biologico. Non sarebbe quasi come dare ragione a chi dice che, proprio per queste supposte differenze di sensibilità o di processi mentali, le donne non sono in grado di fare alcuni lavori, piuttosto che altri?
Sì, ma l’intelligenza, la competenza e il talento non sono tra le cose dividono uomini e donne, non sono questioni di genere come la sensibilità o il modo di affrontare o non affrontare la vita, che sono cose che a livello lavorativo non contano. Il problema io credo che non sia qui, ma nel fatto che anche nei campi in cui intelligenza e talento contano tanto si continuino a prediligere gli uomini alle donne, come anche quando si parla di potere.
A livello pratico ti vengono in mente cose che si possono fare per iniziare erodere queste dinamiche?
Dare le stesse possibilità e gli stessi salari alle donne che fanno le registe, le direttrici di case editrici, le direttrici di giornali, avere un presidente della Repubblica donna.
Da quando hai cominciato a scrivere hai notato dei miglioramenti?
Direi di sì, sì. Ora ho cominciato per esempio un progetto come sceneggiatrice insieme ad alte due donne, ed è strano, perché qualche anno fa sarebbe stato quasi impensabile. MA mi capita anche che uomini mi dicano che leggono i miei libri perché «non scrivo come una donna». E questa per me è una grande offesa, perché come dicevamo all’inizio, non esiste una letteratura maschile e una femminile.
Dopo tutto il clamore seguito al caso Weinstein mi è rimasta la sensazione di aver perso un’occasione. Mi spiego: qualcosa che c’entrava con il potere è stato preso come se riguardasse invece il sesso e in alcuni casi, penso per esempio a quello di Louis C.K., forse abbiamo confuso la perversione con l’abuso di potere. Cosa ne pensi?
Sì, sono d’accordissimo, il punto è proprio il potere. Questi uomini hanno esercitato il loro potere, ne hanno abusato, e lo hanno fatto attraverso il sesso. In Italia credo che abbiamo proprio perso una grandissima opportunità. Perché negli altri paesi c’è stato un movimento molto maggiore che ha portato ad allontanare parecchie persone dai loro posti di lavoro perché si era scoperto che erano stati responsabili di atti di violenza e sopraffazione molto gravi, mentre qui non è successo praticamente nulla.
Penso anche che però a un certo punto ci sia stata una specie di caccia alle streghe e, in casi come Louis C.K., ma forse anche in quello di Kevin Spacey, non possiamo allontanare tout court una persona dal lavoro che fa, bisogna dare loro la possibilità di pagare per quello che hanno fatto, ma poi tornare a fare lavori in cui erano tra i migliori del mondo, chiaramente in condizioni in cui gli abusi non possano ripetersi. Però sì, se confondiamo sesso e potere rischiamo di prendere abbagli clamorosi.
Una femminista si ribella all’idea che esistano dei ruoli prestabiliti da una società patriarcale, per cui ai maschi spettano dei compiti e delle responsabilità, alle donne altre.
Ad accomunare le attiviste britanniche ed egiziane, il desiderio di non essere più considerate come presenze invisibili e ingombranti.
Si tratta di pratiche di polizia che consentono controlli preventivi mirati a persone di etnie considerate “a rischio”.
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