Ep. 04

La moda del consumismo

Ha senso parlare di moda in una situazione di emergenza? Esiste un nesso tra moda e pandemia?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il diavolo veste cheap

La moda è un’industria e come tutte le industrie ha al suo interno tante anime diverse.

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Would you reach in the drawer there and give me my purse? A girl doesn’t read this sort of thing without her lipstick.
Truman Capote, Breakfast at Tiffany’s: A Short Novel and Three Stories

È necessario, prima di ogni altra considerazione, pensare alla moda come un’industria. Un’industria talmente vorace che ha plasmato le nostre menti di consumatori fino a farci diventare tutti conniventi di un consumo mordi e fuggi.

Nei giorni in cui le notizie sul Covid-19 si rincorrono ce n’è una su cui vale la pena soffermarsi. Non perché sia necessario trovare la causa a tutti i costi (ammesso che ne esista solo una), ma per trovare una soluzione a lungo termine, lungimirante, sicura per tutti.

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Secondo uno studio condotto nel 2003 sul coronavirus SARS, esisterebbe una correlazione tra pandemia e inquinamento. Lo racconta bene Davide Mazzocco in un articolo su eHabitat.it: “Secondo i dati più recenti dell’OMS, l’inquinamento atmosferico è responsabile di almeno 8 milioni di morti precoci all’anno, causate principalmente da malattie che riguardano gli apparati respiratorio e cardiocircolatorio. Le persone con patologie polmonari e cardiache causate o inasprite da un’esposizione di lungo termine all’inquinamento atmosferico hanno meno possibilità di combattere le infezioni polmonari e, di conseguenza, maggiori possibilità di morire se contagiate dal coronavirus. Ne consegue che un’aria più pulita può rendere meno difficoltosa la situazione dei soggetti più deboli al cospetto del Covid-19 o di altre future pandemie”.

Alla luce di ciò, le considerazioni da fare possono sembrare retoriche e ripetitive, ma non sono così ovvie: consumiamo troppo rispetto ai nostri reali bisogni. Tutti e tutte siamo responsabili, e mai come in queste settimane di quarantena ce ne stiamo rendendo conto. Se i primi giorni di divieti e limitazioni ci sembravano intollerabili, man mano che i giorni e le restrizioni aumentavano, ci siamo rese conto che potevamo farci bastare quello che già avevamo. Quando finirà l’emergenza, il primo desiderio di ognuna di noi sarà di farsi una cena con gli amici, una mezza maratona, un giro per le città e i parchi, una seduta dall’estetista. Non quello di andare a fare shopping. Se qualcuna andrà in un centro commerciale, e di certo saranno in molte a farlo, sarà più per il desiderio di stare in mezzo alla gente e ciondolare da una vetrina e l’altra, che per l’impellente desiderio di spendere soldi in vestiti.

Il Covid-19 ci ha costretti a rivedere le nostre priorità, a fermare l’indigestione di acquisti a cui eravamo abituate. Ci ha obbligato a fare il cambio degli armadi prima del previsto, e renderci conto che se non c’è un’occasione per sfoggiare le centinaia di capi che possediamo, è del tutto inutile continuare a comprarne di nuovi. E anche se tra qualche settimana di occasioni ce ne saranno a iosa, e lo speriamo tutti, forse non è poi così importante avere un abito nuovo.

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Siamo vulnerabili. E facilmente manipolabili

Tra le tante lezioni di vita che ci lascerà l’emergenza Covid-19, quella della presa di coscienza della nostra vulnerabilità è la più importante. Siamo umani e siamo fragili. Di conseguenza molto più manipolabili rispetto ad una situazione di normalità. La vulnerabilità, nel contesto dell’industria della moda (e non solo), ha a che fare con la soddisfazione dei bisogni emotivi primari. Ed è qui che le tecniche di persuasione delle grandi aziende hanno la meglio.

Capire fino a che punto siamo schiave del consumismo e dell’eccesso non è un atto rivoluzionario e ascetico, non significa sposare la filosofia hippie o lo “stile divisa” alla Steve Jobs. Possiamo continuare a giocare e gioire dei capi che indossiamo senza trasformarci in tristi minimaliste dello stile. Comprendere che i nostri bisogni possono essere pienamente soddisfatti da quello che possediamo e che i desideri non si devono per forza esaudire a suon di acquisti, è solamente la via più breve verso una vita più sostenibile e appagante. Per arrivare al traguardo, però, dobbiamo prima capire i meccanismi insiti nel concetto di marca, e come la pubblicità influisca sulla nostra quotidianità. Specie in questo periodo.

Per farlo dobbiamo fare un salto nel passato. E precisamente nel 1899, quando il sociologo Thorstein Veblen tentò di dimostrare che il consumo quotidiano era diventato un processo di distinzione sociale. Per dare un nome alla sua teoria coniò il termine conspicuous consumption (consumo cospicuo). Veblen considerò che la nascente classe degli agiati industriali del New England imitava gli usi e i costumi degli aristocratici europei. Oggi come allora è una questione di status quo: le classi inferiori copiano lo stile di vita di quelle più alte, cercando la scalata sociale attraverso prodotti di marca riconoscibili. Una borsa di Louis Vuitton, un paio di scarpe di Prada, un giubbotto Woolrich. La differenza è che ora, agli aristocratici, si sono aggiunti vip e influencer a dettare le mode. Se Kate Middleton indossa un vestito bianco e blu di cui si conosce il brand, in tempo zero è esaurito in tutto il mondo. E se non lo si trova della stessa marca, nel giro di due settimane sono disponibili delle imitazioni low cost negli e-commerce. Chiara Ferragni sfoggia un paio di ciabatte col pelo? C’è la corsa all’acquisto, anche se le ciabatte col pelo nessuno le indosserà mai. Michelle Obama si mostra con un abito a quadri bianco e rosso abbracciata a Barack Obama il giorno della rielezione alle presidenziali? Si compra lo stesso abito, anche se addosso a noi sembra una tovaglia da pic-nic.

Siamo influenzate da quello che vediamo e non (solo) perché siamo volubili. Sono dei meccanismi che il nostro cervello mette in atto in modo automatico. Ora come nell’800. Quello che è cambiato è la frequenza degli input e delle pubblicità a cui siamo sottoposte quotidianamente senza nemmeno renderci conto. È cambiata la capacità di spesa, che ci permette di comprare capi che prima le donne si facevano da sole a casa. Una delle scoperte più affascinanti che ho fatto in queste settimane di quarantena, grazie alla Digital Library dell’Unesco, è la rivista di moda Eleganze Femminili dei primi anni del Novecento, che si poneva come scopo quello di essere uno strumento utile e pratico per tutte le donne: al suo interno c’era un’ampia sezione dedicata ai cartamodelli e alle istruzioni su come fare un abito su misura con le proprie mani.

Un altro viaggio nel passato ci fa capire perché siamo facilmente manipolabili. È il 1928, quando il nipote di Sigmund Freud, Edward Bernays, pubblica il suo saggio Propaganda, in cui sostiene che manipolare le menti delle masse, e in particolare dei consumatori, sia cosa buona a giusta. Bernays è il pioniere delle pubbliche relazioni nell’industria e il primo ad applicare le teorie di suo zio sul subconscio a clienti come American Tobacco e General Electric.

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“Dopo la prima guerra mondiale, il sistema di produzione di massa conobbe un notevole sviluppo e milioni di prodotti cominciarono a uscire dalle fabbriche. Le aziende erano terrorizzate all’idea che potesse arrivare il momento in cui i consumatori avrebbero avuto beni a sufficienza, smettendo così di fare acquisti. Fino ad allora la maggior parte dei prodotti si vendeva per necessità. [..] Le grandi aziende compresero di dover trasformare la percezione che gli americani avevano dei loro prodotti. Il ruolo di Edward Bernays fu decisivo”. Lo racconta Adam Curtis, regista del documentario The Century of The Self, in Goodbye Logo, del giornalista britannico Neil Boorman.

Quello che la pubblicità e il marketing fanno al nostro inconscio è un lavoro puntuale e meticoloso che dura da più di un secolo: le tecniche di persuasione si sono affinate sempre di più, al punto che non saremmo in grado di riconoscere un mondo senza brand. Questo lento e inesorabile processo di lavaggio del cervello si è acuito con il consumismo e, in anni più recenti, con l’avvento del fast fashion. La globalizzazione, in tal senso, ha fatto sì che ogni nostro desiderio si possa tramutare in meno di un secondo in un acquisto, molto spesso senza spendere più di qualche decina di euro. Ed è proprio questo consumo incessante che ha generato un’ulteriore emergenza, quella climatica. Che a sua volta è connessa all’emergenza sanitaria in atto e che vedrà il suo impatto in altre macro aree negli anni a venire. È l’effetto farfalla, la teoria per cui ogni singola e micro azione a lungo termine ha conseguenze più grandi – e in questo caso devastanti – su un intero paese o ecosistema. Èd è il motivo per cui è importante essere consapevoli del peso di ognuno di noi in questo complesso processo. Capire che tutte siamo assoggettate – in modi e intensità differenti – alle marche è il primo passo per innescare un cambio di rotta.

Dopo aver visto il quando, passiamo al come. Come è possibile discernere le scelte virtuose da quelle dettate dalla pubblicità inculcata? Non è semplice né immediato, ma si può iniziare col capire come funziona il nostro cervello e come possiamo proteggerci dalle trappole del marketing.

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Dobbiamo forgiare una mentalità nuova, i desideri dell’uomo devono sovrastare i suoi bisogni.
Paul Meyer Mazur, 1927

“Dobbiamo far passare l’America da una cultura del bisogno a una cultura del desiderio. Bisogna addestrare le persone a desiderare altri oggetti ancor prima che quelli vecchi siano consumati del tutto”. Lo diceva nel 1927 Paul Meyer Mazur, banchiere e partner di Lehman Brothers (la stessa società che andò in bancarotta e innescò la crisi economica globale nel 2008). Questa teoria è tuttora valida, ed è la stessa su cui si basa l’intero sistema produttivo globale. Lo scopo del consumismo è quello di farci desiderare di avere sempre di più e la globalizzazione ha fatto sì che questo desiderio venga realizzato in tempi sempre più ristretti.

Se prima era necessario aspettare sei mesi per avere a disposizione un capo visto in passerella durante una delle tante settimane della moda, ora abbiamo a disposizione una collezione nuova a settimana direttamente nei negozi e la possibilità di avere immediatamente l’abito dei desideri nello shop online dei maggiori marchi. Una delle lamentele che più spesso si sente tra gli addetti ai lavori è che il ritmo frenetico del settore moda è oramai insostenibile. Designer e creativi costretti a lavorare a collezioni cruise, prêt-à-porter, capsule collection e alta moda senza sosta, tutto l’anno. Non esiste più la stagionalità, solo un’unica stagione delle vendite, che deve essere costantemente in crescita, con produzioni sempre più veloci per soddisfare la domanda. Il consumatore non è più disposto ad aspettare mesi prima di avere un capo. Del resto, la fast fashion ci ha insegnato ad avere capi nuovi ogni settimana.

L’industria della moda a basso costo ha ulteriormente ridotto la distanza tra il desiderio e il possesso, non solo in termini di tempo: se prima le maison del lusso erano una chimera per la maggior degli acquirenti, ora sono a disposizione anche della fascia medio-bassa. Basta aspettare le collezioni a edizione limitata dei marchi low cost firmate da designer famosi. Il primo a vedere un mercato potenzialmente enorme fu H&M nel 2004, quando uscì con una collezione di 30 pezzi firmata da Karl Lagerfeld a prezzi da fast fashion. La collezione andò esaurita in un solo giorno in tutto il mondo. A Parigi in poche ore. Da allora le collaborazioni del colosso svedese con marchi o designer famosi si susseguono a un ritmo costante: Moschino, Giambattista Valli, Versace, Roberto Cavalli, Lanvin. Giusto per citarne alcuni. E ogni volta è un tutto esaurito a poche ore dall’apertura delle vendite, con scene deliranti e code a partire dalla sera prima davanti ai negozi.

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Cosa c’è di così speciale in queste collezioni? Nulla, se non il design e le stampe, che sono creati dallo stilista della casa di moda in questione e riadattati a una produzione a basso costo. La qualità dei tessuti non cambia, così come non cambia il luogo della produzione: i paesi del sud-est asiatico, dove i capi vengono confezionati da lavoratori sottopagati e non tutelati. H&M ha semplicemente sfruttato un desiderio diffuso di vestiti firmati.

Non sentiamoci stupide, è solo che lavorano le nostre menti in modo subdolo e puntuale da che siamo nate. Esiste un filone del marketing che studia specificamente il nostro bisogno emozionale e fa leva su quello. Si chiama branding emotivo e si basa su quattro bisogni emotivi, comuni a tutte e tutti:

  1. Autorealizzazione
  2. Amore e affetto
  3. Stima come genitore ed educatore
  4. Altruismo

In altre parole, compriamo sempre più scarpe, borse e vestiti spinte dal desiderio di avere il controllo sulla nostra vita, avere più fiducia in noi stesse, ricevere amore e affetto, occuparci del benessere nostro e dei nostri figli, sentirci utili per gli altri. In apparenza del tutto legittimo, finanche giusto, non fosse che questo continuo desiderio di soddisfare i nostri bisogni emotivi scatena al contempo molte emozioni negative: invidia e disperazione (tutte sono più belle/in forma/meglio vestite di me), solitudine (non sono degna/non mi merito di stare bene), frustrazione (non riesco a dare ai miei figli ciò di cui hanno bisogno), senso di colpa e vergogna (i miei desideri sono futili rispetto ai veri problemi della vita).

Siamo così bombardate da messaggi subliminali e input diretti che non sappiamo nemmeno più il motivo per cui abbiamo comprato l’ennesimo paio di jeans. Sapere che la componente razionale interviene solo in minima parte nelle decisioni d’acquisto, forse, può aiutare. Significa che se decidiamo di andare a fare shopping o di fare un giro sul nostro e-shop preferito in un momento in cui siamo particolarmente fragili o facilmente suggestionabili, il risultato è che con tutta probabilità compreremo cose inutili o della taglia sbagliata. Vale anche la regola contraria: se acquistiamo sull’onda emozionale ed entusiastica, ne otterremo capi che rimangono nell’armadio a prendere polvere con ancora l’etichetta attaccata.

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La verità è che creare un armadio su misura e sostenibile è un processo lento e molto razionale. A volte sembrerà di rinunciare ai propri desideri o alla propria libertà di acquisto, di fatto mette alla prova molte abilità. Significa parare i colpi e rendersi immuni dal bombardamento quotidiano di immagini, pubblicità, slogan, post ammiccanti. Mettere insieme, pezzo per pezzo, il nostro guardaroba ideale va a formare una percezione che è quella su cui si ostinano così tanto le aziende: la cosiddetta brand image. Con la differenza che in questo caso la marca siamo noi e ci basiamo sulle nostre aspirazioni, desideri e bisogni per dare al mondo un’immagine coerente di noi stesse. Creare l’armadio ideale e sostenibile significa prendersi del tempo, imparare a conoscersi, ad accettarsi, essere consapevoli del nostro valore e potenziale. Le marche basano il loro valore sulle promesse che ci propongono. Facciamo in modo di fare quelle stesse promesse a noi stesse.

Se in queste settimane di sconforto e solitudine abbiamo bisogno di un oggetto che ci faccia stare bene, puntiamo tutto sul rosso: un rossetto scarlatto non ci deluderà. Esiste anche un indice, il Lipstick Index, su cui si basa l’industria cosmetica e che è comprovato dalle vendite del settore. Più che un indice di riferimento è una vera e propria teoria, secondo cui in momenti di crisi (economica, politica, sanitaria) le donne compensino paura e frustrazione con i rossetti rossi (o i rossetti in generale). Fu il presidente di Estée Lauder, Leonard Luder, a rendersi conto dell’impennata delle vendite dei rossetti dopo l’11 settembre 2001 e a coniare il termine Lipstick Index. Dati alla mano, le vendite di questo cosmetico sono sempre stati maggiori nei momenti storici critici e si può facilmente comprenderne il motivo: mettere un rossetto color porpora ci rende sicure di noi stesse, belle, dirompenti. È un prodotto emotivo e d’impatto, sta bene a tutte e costa poco. È democratico e non conosce distinzioni sociali: le suffragette lo indossavano come simbolo politico e di emancipazione.

Da oggi iniziamo a usarlo anche in quarantena: con le labbra rosse chi noterà il colorito spento e la ricrescita?

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