Ep. 06

Moda e lavoro

Sartorie su scala industriale e disciplina militare.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Il diavolo veste cheap

La moda è un’industria e come tutte le industrie ha al suo interno tante anime diverse.

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We love fashion. But we don’t want our clothes to exploit people or destroy out planet. We demand radical, revolutionary change.
Fashion Revolution Manifesto

Who made my clothes?

“Manca meno di un’ora all’alba, eppure Reshma ha gli occhi spalancati e fissi. Non riesce a staccare lo sguardo dai suoi figli, Anju, Chitra e Sunil, che dormono beati nonostante decine di mosche ronzino sopra le loro teste. Una flebile luce fa capolino dalle fessure delle pareti e illumina la polvere che regna imperante nell’unica stanza della casa, che è insieme cucina, soggiorno, camera da letto e stanza dei giochi. Reshma si alza dal suo materasso sgualcito, passa a fianco al marito e con il suo sari accarezza i piedi dei bambini. A quest’ora, se non altro, il bagno, esterno e in comune con i vicini, è libero e tale rimarrà per una buona mezz’ora.

Accovacciata sulla turca, Reshma non riesce a non pensare a quanto successo il giorno prima sul posto di lavoro, quando tre ispettori sono arrivati a rompere le righe delle migliaia di sarte come lei chine sulle macchine da cucire, imponendo l’evacuazione dall’edificio. Tempo pochi minuti e nel reparto regnava il caos più totale. Ci sono delle crepe profonde, i locali non sono a norma, l’edificio è a rischio crollo, continuavano a dire a voce alta e autoritaria gli ispettori al suo capo. Non possiamo fermare la produzione di centinaia di migliaia di capi, stiamo facendo doppi turni perché siamo in ritardo con gli ordini, urlava lui, disperato come un ragazzino alle prese con la prima delusione d’amore della vita.

È vero, in questi ultimi mesi le commesse sono aumentate, di lavoro ce n’è fin troppo, e per fortuna. Reshma e Sumur, suo marito, fanno turni con orari diversi per riuscire a passare qualche ora con i bambini, ma è soprattutto Sumur a sobbarcarsi i turni più massacranti. Il prezzo da pagare per portare a casa uno stipendio dignitoso, che permetta a tutta la famiglia di avere una razione di cibo quotidiana e un paio di sandali a testa, è alta. Di vestiti ne bastano due a stagione: un paradosso se si pensa che entrambi lavorano nel settore tessile da più di quindici anni. Del resto, a Reshma sua nonna, sua mamma e la vita non hanno insegnato altro: cucire, orlare, rammendare e ancora cucire, fino a che la vista, o la luce, lo permettono. A volte lo sforzo che fanno i suoi occhi per infilare il filo nell’ago le fa pensare di aver bisogno di un buon paio di occhiali da vista. Il che non sarebbe così strano, a 28 anni, visto che molte sue colleghe hanno perso diottrie ben prima dei venti.

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E dire che per vedere quelle crepe, le stesse che hanno tanto indignato gli ispettori e fatto sì che gli otto piani del Rana Plaza chiudessero per un’intera giornata, non ci volevano di certo le lenti. Erano sotto gli occhi di tutti, da mesi, e ogni giorno si facevano sempre più grandi, si allungavano come le radici di un albero ad una velocità impressionante. Quando i macchinari del reparto filatura e confezionamento si fermavano, per qualche ora a notte, si poteva sentire lo scricchiolio delle mura sovraccaricate del peso, delle vibrazioni delle macchine e delle migliaia di lavoratori che affollavano i piani dell’edificio.

La preoccupazione che tormentava Reshma da mesi, quel giorno si trasforma in angoscia. Accovacciata in quel bagno maleodorante e angusto, pensa a come convincere suo marito a non presentarsi in fabbrica, quella mattina. Ma sa bene che il suo fervore attivista si sarebbe trasformato presto in un afflato conservatore: i grandi capi della sua fabbrica avevano minacciato di trattenere un mese di stipendio a chi non si fosse presentato al lavoro quel giorno.

È impensabile un mese intero senza due stipendi, ma forse con uno dei due, proprio il suo da sarta specializzata, si può pensare di tirare a campare. In fondo si tratterebbe solo di un mese, e del proprio diritto a lavorare in un posto sicuro, di non morire sopra una macchina da cucire. Sumur sarebbe stato felice di passare del tempo con i bambini, senza contare che si meritava qualche ora di riposo. Reshma finalmente si decide: quel giorno sarebbe andata da sola al lavoro, fiera e felice di quel sacrificio.

Fuori dal bagno l’aria è fresca e il sole, nel frattempo, sta sputando all’orizzonte. Reshma si sistema la lunga chioma corvina e sorride grata per quello che le sembra essere l’inizio di un giorno pieno di speranza”.

Quel giorno è il 24 aprile 2013 e Reshma è una delle tante lavoratrici coinvolte nel crollo del Rana Plaza a Dacca, il distretto tessile più importante del Savar, in Bangladesh. Reshma non è personaggio inventato, ma una sopravvissuta a quel drammatico incidente. Viene ritrovata quasi illesa sotto le macerie dell’edificio il 10 maggio, 17 giorni dopo il crollo. Il racconto che ne faccio, invece, è del tutto immaginario: lo scrissi nel 2015 per Out of Fashion, il master di moda sostenibile che stavo frequentando all’epoca. Immaginario, sì, ma non così distante dalla realtà. Perché i vestiti che noi compriamo a poche decine di euro vengono prodotti per lo più da lavoratori e lavoratrici sottopagati, sfruttati e senza alcuna tutela sindacale.

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Il crollo del Rana Plaza è solo l’apice della situazione che tiene sotto scacco migliaia di lavoratori del sud-est asiatico, e l’ennesimo di una serie di incidenti gravi sul lavoro: gli edifici che ospitano le aziende tessili sono talmente fatiscenti che crolli e incendi sono all’ordine del giorno. Il Rana Plaza è stato solo il più clamoroso, non solo in termini di vittime (1.129 mori e circa 2.515 feriti): in quegli otto piani abusivi di un palazzo destinato ad uso ufficio e commerciale venivano prodotti capi delle più note marche di abbigliamento a livello globale. Benetton, Camaieu, Auchan, El Corte Ingles, Gruppo Inditex (che include Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius), Primark, Mango e Walmart sono solo alcuni dei brand che facevano produrre le loro collezioni nelle fabbriche presenti all’interno dell’edificio Rana Plaza.

Più delle metà delle vittime del crollo erano donne, a cui si sommano molti dei loro figli che erano presenti negli asili nido aziendali. Fu un incidente che scosse le coscienze di tutti e fece sì che si attivassero comitati e campagne in tutto il mondo per sostenere la causa delle vittime e dei lavoratori del settore tessile, specie in quei paesi dove non è previsto il sindacato.

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Costa poco ma a quale prezzo?

Oltre alle condizioni precarie e pericolose in cui si trova a lavorare la manodopera tessile di questi paesi, si aggiunge l’aggravante degli stipendi: molto più bassi rispetto alle paghe di altri lavoratori di pari livello nel mondo. E quasi sempre al limite della soglia minima stabilita per legge. È il motivo per cui, nell’ultimo ventennio, la produzione è stata spostata in massa in quei paesi, senza che ci fossero delle competenze specifiche particolarmente rilevanti. Produrre in Bangladesh (o in India, Vietnam, Turchia) costa poco, quindi l’azienda di abbigliamento può mantenere dei prezzi al dettaglio concorrenziali e aumentare allo stesso tempo il profitto.

Quanto costa un capo prodotto all’estero? Ha provato a rispondere a questa domanda l’organizzazione svizzera no profit Public Eye, che nel dicembre scorso ha pubblicato un’inchiesta sui costi di produzione di un maglione di Zara. Per l’esattezza, la felpa “R-E-S-P-E-C-T”. Visto che il colosso spagnolo low cost non ha mai risposto a questa domanda, Public Eye ha provato a risalire alla filiera per avere risposte.

Al netto delle aliquote, dell’IVA e dei differenti prezzi al dettaglio dei paesi in cui è stata commercializzata la felpa, Public Eye ha valutato il prezzo finale 22, 22 franchi svizzeri (IVA esclusa). «Abbiamo scoperto che circa 20.000 felpe Respect prodotte erano state cucite e stampate in Turchia nel 2018. Abbiamo scoperto che Zara non commissiona la produzione delle felpe stesse; il ruolo dell’agenzia di approvvigionamento è svolto da un’altra società, che commissiona le varie fasi della produzione ad altre società. Stimiamo che Inditex abbia pagato all’agenzia 7,76 franchi svizzeri per felpa». Il guadagno dell’agenzia conto terzi è stimato intorno a uno-due euro a felpa.

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Si calcola che mediamente per confezionare una felpa come il modello in questione di Zara siano necessari 30 minuti di manodopera. Prima del prodotto finito e confezionato, il capo passa per svariate mani e altrettanti macchinari. Nel caso specifico della felpa RESPECT, il cotone (venduto come organico) arriva dall’India, quindi una banale felpa prodotta in 20mila pezzi, non solo passa attraverso le mani di moltissimi lavoratori, ma anche da un continente all’altro. Senza contare la logistica, che deve distribuire il prodotto in tutti i paesi in cui sono presenti i negozi di Zara. Alla fine della catena di produzione, quanto rimane in tasca ai lavoratori che confezionano le felpe? E quanto ci guadagna Zara?

«Sulla base dei nostri calcoli, ipotizziamo che la fabbrica abbia dovuto pagare 1,10 euro per felpa sotto forma di costi salariali». Neanche lontanamente vicino a uno stipendio base di sussistenza. No, nemmeno per la Turchia, dove per un operaio tessile il minimo salariale netto mensile, obbligatorio per legge, è tra i 310 e i 387 euro. Come è possibile? È possibile solo se i lavoratori tessili vengono pagati in nero o fanno straordinari non pagati.

«Secondo le nostre stime, ogni felpa genera profitti per 4,20 euro, più del doppio rispetto a tutti i lavoratori coinvolti nel processo di produzione. Al netto delle imposte, resta un utile netto di 3,27 franchi svizzeri».

«Per noi, “Rispetto” nel settore della moda significa che tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di materie prime, nella fabbricazione del tessuto o nella cucitura degli indumenti possano vivere adeguatamente con i loro salari e che coloro che controllano la catena di approvvigionamento non abusino del loro potere. [..] Inoltre, le persone devono mostrare solidarietà e uscire dal loro ruolo di consumatori passivi. Devono chiarire che il rispetto del diritto umano a un salario di sussistenza non può essere una questione di prospettiva: deve essere rispettato».

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Siamo tutti responsabili

La distanza, in questo caso, fa sì che la questione non ci tocchi mai da vicino: accade in Bangladesh, non a casa mia. In realtà è vero il contrario: accade in tutto il sud-est asiatico, d’accordo, ma anche nell’est Europa e in molte regioni italiane, dove i lavoratori tessili vengono sottopagati e costretti a condizioni lavorative disumane. Fashion Revolution in questi anni di attività è riuscito a creare partnership internazionali, a fare pressioni sulle grandi aziende di moda perché migliorino le condizioni dei loro lavoratori e a influenzare le politiche del lavoro dei paesi in questione. L’impatto più importante però è quello sulle persone comuni, su chi quegli abiti li acquista ogni giorno: con la campagna Who Made My Clothes (sui social la trovate con l’hastag #whomademyclothes), Fashion Revolution ha portato un tema spinoso in un contesto di puro svago, come viene considerato quello della moda.

Il titolo di quest’ultimo numero della serie prende il nome proprio da questa campagna, che ricorre ogni anno in occasione dell’anniversario del crollo del Rana Plaza: chi fa i miei vestiti? Chi li produce? Qual è la filiera che sta dietro all’etichetta dei miei capi? Non è una provocazione, semmai una petizione universale che chiede alle grandi e piccole aziende di moda di essere trasparenti, in tutte le parti della filiera produttiva. Non basta comprare o produrre una t-shirt in cotone organico per dirsi sostenibili: se quella stessa maglietta viene confezionata da lavoratori sottopagati e sfruttati, noi siamo complici tanto quanto l’azienda che la produce. Il motivo è semplice e ce lo spiega alla perfezione Carry Somers, co-fondatrice del movimento sul sito.

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«Quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo».

Riducendo consapevolmente i nostri bisogni di beni di consumo, dovremo vendere meno del nostro tempo per guadagnare denaro. Avremo più tempo per noi e potremo dedicarci alle cose che ci rendono felici.
Neil Boorman, Goodbye Logo

Il cambio di paradigma che ci auspichiamo parte da ognuno di noi. Non esiste una sola via verso la sostenibilità: è un tema complesso e sfaccettato e come tale non ha una risposta assoluta e univoca. Non esiste una sola moda sostenibile, esistono tanti modi per essere sostenibili, che variano in base alle nostre necessità e ai nostri gusti personali. Il primo passo è quello di comprare meno e meglio, come sostiene Neil Boorman in Goodbye Logo: “Un consumo sostenibile non significa cambiare una Range Rover con una Prius. È, invece, la scelta do consumare solo quando è necessario. La soluzione, a mio parere, è uno stile di vita basato volontariamente sulla semplicità. Non dobbiamo far altro che scalare una marcia e scegliere una versione meno complicata della nostra vita”.

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