Ep. 01

Rallenta frà!

Tutti, chi più chi meno, chi più spesso chi meno spesso, almeno una volta nella nostra vita abbiamo sentito una voce dentro di noi dirci “Oh, rallenta!”. Con tono alle volte minaccioso. Altre quasi supplice. Se vivi in Europa, negli Stati Uniti o nel resto del cosiddetto primo mondo​​​​​​​ sei dentro al sistema: sei abituato […]

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Downshift

Il fenomeno della great resignation è qualcosa di più complesso di un semplice “rallentare”.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Tutti, chi più chi meno, chi più spesso chi meno spesso, almeno una volta nella nostra vita abbiamo sentito una voce dentro di noi dirci “Oh, rallenta!”.

Con tono alle volte minaccioso. Altre quasi supplice.

Se vivi in Europa, negli Stati Uniti o nel resto del cosiddetto primo mondo​​​​​​​ sei dentro al sistema: sei abituato a correre, a lavorare, a spendere, a consumare. Passi ore nel traffico ​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​, dormi poco e ti alzi presto, devi essere reperibile 24h, sei sempre schiacciato dalle scadenze, dagli esami, dai risultati e dalle aspettative. Vai in ferie pochi giorni l’anno, in posti affollati e stressanti, mangi male e di fretta, sei spesso arrabbiato e frustrato, ti sembra di rivivere ogni giorno la stessa routine e a volte vorresti mollare tutto. Più di una volta hai pronunciato la celebre frase: “voglio lasciare il lavoro…”, spesso seguita dalla più scontata “…e aprirmi un bar in Costa Rica”. Più in generale hai pensato spesso: “voglio cambiare vita”.

Quella voce interiore non è Mark Renton di Trainspotting che ti parla e ti suggerisce di rallentare. È una voce che, in realtà, sentono in molti, sempre di più in effetti, ed esprime il desiderio, più o meno consapevole, di downshifting (letteralmente “scalare la marcia”), in italiano spesso tradotto, in maniera poco calzante, con “semplicità volontaria”.

Il New Oxford Dictionary ha definito il downshifting come il “libero scambio di una carriera economicamente soddisfacente ma evidentemente stressante, con uno stile di vita meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante”. Di fatto il downshifting è una delle declinazioni dello slow-movement e quindi, trattando di lavoro, la colonna portante dello stile di vita lento (slow-living).

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La rivoluzione silenziosa

Nel corso del 2021 stiamo assistendo ad un’ondata di dimissioni volontarie senza precedenti. Negli Stati Uniti l’hanno chiamata Great Resignation mentre in Europa e in Italia si cerca ancora di inquadrare il fenomeno. Centinaia di migliaia di persone stanno abbandonando il proprio posto di lavoro anche se ben retribuito.

Perché?

Mentre alcuni esperti osservatori economici hanno tratto dai dati una conclusione rassicurante che ha a che fare con la salubrità del mercato del lavoro e il rimbalzo dell’economia, c’è chi invece si è fatto un’idea diversa.

«L’ordine e l’equilibrio, per quanto tragici e stressanti tra denaro, simboli, velocità, peso sul cuore, si sono frantumati con la pandemia e le restrizioni. La gente, anche la più distratta, ha potuto misurare un fatto che faceva finta di non capire. Potrebbe tutto dissolversi in una calamità, oggi, neppure domani», commenta Simone Perotti, scrittore e tra le voci più note del downshifting italiano, in uno scambio con Slow News.

La grande bugia secondo cui “tutti possiamo diventare chiunque vogliamo” di stampo anglosassone, soprattutto americano, va spazzata via da una domanda onesta su cosa siamo, che limiti abbiamo, che talenti ma soprattutto quali sono le nostre passioni.
Simone Perotti

Dietro la grande ondata di dimissioni ci sarebbe dunque l’effetto trigger innescato dalla pandemia: le persone, strappate dai ritmi di lavoro serrati e frenetici, chiusi in ufficio e spesso assenti dalla vita familiare, hanno riscoperto la lentezza, si sono ripresi il proprio tempo e non sono più disposte a rinunciarvi o, più in generale, a tornare alla vita di sempre.

Secondo il Bureau of Labor Statistics, negli ultimi mesi del 2021 negli Stati Uniti si sono dimesse quasi 5 milioni persone, la cifra più alta mai registrata dal 2000. In Italia, tra aprile e giugno 2021, si sono registrate 484mila dimissioni (292mila da parte di uomini e 191mila da parte di donne), su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. L’85% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sebbene sia chiaro che non tutte le dimissioni possano essere ricondotte allo schema del downshifting risulta in ogni caso innegabile che molte persone stiano compiendo queste scelte soprattutto perché il 2020 le ha traumatizzate, esaurite e spinte oltre il punto di rottura. Stanche, per dirla con lo scrittore Massimo Lolli, che il lunedì arrivi sempre di domenica pomeriggio.

Si, ma cos’è in concreto il downshifting?

There is no alternative

Di dowshifting, in realtà, si parla da anni. Nel 1994 il Trends Research Institute di New York coniò il termine e durante gli anni a cavallo della grande crisi, tra il 2004 e il 2009, sembrava che il movimento fosse pronto a catturare i cuori delle persone, proprio durante uno degli shock economici più duri dell’ultimo secolo. Fu in quel periodo che nacquero i gruppi dei cosiddetti downshifters, uomini e donne che ricercavano nella filosofia della “semplicità volontaria” una strada per cambiare vita orientandola ad altri valori: “più tempo e meno lavoro” era lo slogan. Una fuga dalla frenesia senza controllo di giornate tutte uguali, un freno per rallentare fisicamente e psicologicamente, fare scelte di vita che permettessero di riappropriarsi di ritmi più umani e godere del momento attuale anziché focalizzare l’attenzione sul futuro. Per un certo periodo venne celebrata persino la “settimana del downshifting”, a fine aprile. Negli Stati Uniti e in Europa (soprattutto in Gran Bretagna ma anche in Italia) si iniziarono a pubblicare libri in materia, uscirono allo scoperto testimonial e volti simbolo. Molte persone in tutto il mondo (16 milioni nel 2007 secondo Datamonitor), dai manager agli impiegati e dagli intellettuali agli ecologisti, iniziarono a sposare la causa del downshifting.

Ciononostante, in quel periodo, la maggior parte della gente, così come dei media, tendevano a guardare i downshifters come si fa con chi vaneggia, con chi ha smarrito la via. D’altronde all’epoca doveva apparire come una sonora bestemmia lasciare la corsa verso il denaro e verso il successo per predicare una vita senza consumi, più rilassata, lenta e naturale, fuori dagli schemi insomma. Il diktat del “There is no alternative” di thatcheriana memoria risuonava forte e chiaro in quegli anni. Quando la crisi finanziaria bussò alle porte di Stati Uniti ed Europa, tutti vennero richiamati al fronte e serrati i ranghi. I downshifters, come gli hippie negli anni ‘70, divennero pericolosi disertori del lavoro e renitenti alla leva del sistema. Perseguivano un desiderio concreto di libertà che poteva essere solo sognato, guai a realizzarlo.

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Tempo e velocità

Ma allora perché ne stiamo ancora parlando? La crisi del 2008 ha rimesso tutti al proprio posto, giusto? I downshifters, così come gli hippie, si sono arresi. Vero?

In realtà no e sono sempre di più le persone che decidono coscientemente di prendere sul serio quella voce che chiede loro di rallentare, di cercare un’altra strada. Uno di questi è proprio Simone Perotti, autore del best-seller Adesso Basta (Mondadori) con cui racconta la sua esperienza di downshifting che più di 10 anni fa lo ha portato a lasciare una posizione lavorativa sicura, ben retribuita e costruita dopo anni di duro lavoro e sacrifici, per “gettarsi nel vuoto” di un’esistenza più incerta, economicamente più modesta ma più lenta, libera, sostenibile e, si direbbe, più felice. «Non si tratta solo di ridurre il salario per avere più tempo libero» spiega Perotti a Slow News. «È necessaria una profonda revisione interiore che preveda un’inversione dei valori attuali. Non dovrebbe essere l’entità di un reddito a definirci o a modulare la nostra libertà. Il lavoro è un mezzo e non il fine. Il sistema ci ha insegnato a trovare la nostra identità nell’occupazione e nei soldi la gratificazione. La grande bugia» continua Perotti, «secondo cui tutti possiamo diventare chiunque vogliamo di stampo anglosassone, soprattutto americano, va spazzata via da una domanda onesta su cosa siamo, che limiti abbiamo, che talenti ma soprattutto quali sono le nostre passioni. È seguendo le passioni che si possono fissare sogni davvero realizzabili, a portata di mano, concreti».

Troppo radicale, potrebbe obiettare qualcuno; bello ma impraticabile, direbbe qualcun altro. Di certo il percorso non è facile: «Ci vuole coraggio, ma non quello che usiamo per affrontare la vita quotidiana, il coraggio di scegliere, di cambiare e di assumere su di noi la responsabilità della nostra storia», spiega Perotti, descrivendo il percorso che, da manager di successo in Italia e all’estero, lo ha condotto a vivere del lavoro delle proprie mani come marinaio e scrittore. O, più semplicemente, come downshifter. Senza aver mai fatto marcia indietro, oggi Simone Perotti vive con circa 9.000 euro l’anno, senza sprecare, inquinando il meno possibile, riutilizzando ogni oggetto, aggiustando tutto, viaggiando in maniera asincrona, fuori dai flussi, risparmiando senza ridurre la propria libertà. Da dieci anni non va in ufficio, non ha uno stipendio ma scrive professionalmente, «libero di trattare le storie che sento e che voglio, fa niente se non vanno per la maggiore». Finalmente libero di vivere la sua passione per il mare, navigando per il Mediterraneo.

Il fatto è che la via del “compromesso”, così come era stata presentata durante la prima Era del downshifting, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, da scrittori come John Drake e Carl Honoré, si è rivelata quasi subito inadeguata e oggi insufficiente. Nel libro Downshifting, Drake propone semplicemente l’idea di lavorare meno (o meglio, per meno tempo) per diminuire lo stress, recuperare affetti, coltivare passioni e rafforzare le relazioni. Anche lo scrittore americano, come Perotti, parla da una prospettiva diretta tratta dalla propria esperienza personale ma guardandosi bene dall’affrontare di petto la questione filosofico-esistenziale che giace al sicuro sotto la superficie. Gli elementi che di fatto guidano la riflessione dei guru del primo downshifting sono due: il tempo e la velocità.

«Nessuno, in punto di morte, ha mai rimpianto di aver lavorato troppo poco», scrive Drake. Tuttavia, del lavoro non si può fare a meno, giusto? Dunque lavoriamo sì, ma meno. Stabiliamo quindi delle priorità: basta reperibilità totale, basta rimandare le vacanze, basta inseguire le tre P dell’infelicità, ovvero Potere, Proprietà e Prestigio. Diminuiamo le ore, passiamo al part-time o al telelavoro. Addirittura cambiamo occupazione. Il reddito perso risulterà solo investito in ciò che ci rende davvero felici: la nostra famiglia, le nostre passioni.

Honoré va un poco oltre. Nel 2004 nel suo volume Elogio della lentezza, lo scrittore canadese propone di recuperare quel tempo necessario da dedicare alla felicità rallentando, mettendo un freno a quella corsa senza sosta che sono le nostre vite. «Viviamo una vita veloce, piuttosto che bella. Acceleriamo anche i momenti più belli e piacevoli», afferma Honoré. Se dunque attraversiamo la vita, invece che viverla, si chiede lo scrittore, come possiamo essere felici? L’assunto che Honoré tenta di decostruire è di fatto uno dei capisaldi del capitalismo contemporaneo: il tempo è denaro. Se il tempo non lo usi, lo perdi e pertanto sei costretto a velocizzare ogni aspetto della tua vita per produrre di più, consumare di più, lavorare di più. ​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​Tale assunto prevede di conseguenza la stigmatizzazione della lentezza considerata nella società moderna quasi un tabù, un attributo dalle connotazioni negative. L’aggettivo lento va a descrivere una persona pigra, svogliata, arrendevole, spesso persino stupida. La conclusione, così come per Drake, anche per Honoré si riduce ad una: per non farsi scivolare la vita tra le mani bisogna lavorare meno, non smettere ma rallentare.

Manca un passo in più. Un enorme, destabilizzante sguardo oltre la balaustra di sicurezza.

Né Drake né Honoré hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di mettere in pratica, ciascuno con la propria rivoluzione personale, un cambio di paradigma. I due scrittori propongono un downshifting saldamente situato all’interno del sistema vigente, fatto di piccoli aggiustamenti e qualche tirata di freno. D’altra parte, there is no alternative.

Ma che succederebbe invece se, sporgendosi troppo dalla ringhiera, ci si dovesse chiedere: “la vita che faccio mi rende felice? Mi sento realmente libero?”.

Si precipita nel vuoto.

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Libertà

Dov’è la libertà nell’uscire tutte le mattine da casa alla stessa ora, percorrere a passo d’uomo strade intasate per lavorare 10 o 12 ore al giorno in modo sempre identico? Come giustifichiamo il sentimento di sentirci persino privilegiati, anziché schiavi?

Per i puristi del downshifting come Simone Perotti la via del compromesso non esiste. Nel percorso di preparazione alla sua nuova vita, progettato, studiato e costruito nell’arco di 12 anni e raccontato nel suo libro, l’autore descrive a chiare lettere quanto il senso riscoperto della libertà rappresenti la chiave del processo e, se lo vogliamo, della felicità.

«La libertà ha due facce. C’è quella da e quella di».

Una vita libera da rabbia, frustrazione e stress per un’esistenza insoddisfacente fatta di ritmi ed azioni necessari ma non piacevoli è agognata da tutti. Diverso discorso va fatto per la libertà di vivere appieno le proprie passioni, appropriandosi del tempo per innaffiare le radici di ciò che rende felici. Dobbiamo chiedercelo intimamente: se fossi libero, cosa mi piacerebbe fare della mia vita?

Tale domanda (e ovviamente la risposta) è propedeutica ad ogni scelta relativa al downshifting.

Qui il punto non è lasciare il lavoro ma affrontare una profonda revisione interiore, cercare equilibrio e armonia. Senza questo, rimarrà tutto identico, avremo cambiato solo luogo, mestiere, budget.
Simone Perotti

Il prezzo che paghiamo con il lavoro così come lo conosciamo, spiega Perotti, «è quello di impedirci di fare altro». Dobbiamo capire cosa, guardarci dentro e afferrare saldamente ciò che sentiamo possa riempire davvero la nostra vita, che sia dedicarci agli altri oppure girare il mondo in barca a vela. Poi, usarlo come scudo.

Finché si sogna il downshifting non c’è pericolo, anzi. Il sogno di una vita più felice è esso stesso un prodotto consumabile, vendibile. Tentare di realizzarlo, però, implica una sfida ad un sistema che si difende e che sa essere «durissimo con chi lo rifiuta». Uscire da esso non è concepibile né tantomeno tollerabile. È allora che lo scopo ritrovato della libertà fungerà da armatura, quando gli sguardi e le parole di paternalistica compassione si trasformeranno rapidamente in risentimento ed antagonismo per tradursi infine in aperte accuse di ammutinamento.

Eppure, la realtà che abbiamo sotto gli occhi ci dice che ci sarebbe ben poco da difendere di tale sistema. Il concetto secondo cui la qualità ha bisogno di tempo è abbastanza condiviso tra la gente ma è difficilmente applicato alla vita delle persone e spinge sull’acceleratore, velocizza tutto e stigmatizza culturalmente la lentezza come sinonimo di pigrizia e arrendevolezza. Spesso perfino stupidità. Il downshifting prova a smascherare questa contraddizione in termini e si candida come modello di vita alternativo per tutti coloro disposti a dare ascolto a quella voce interiore che chiede di rallentare per vivere la vita senza attraversarla.

Downshifting significa rallentare sì, ma per svoltare.

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Rallenta frà!

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