Kékeh, il caos delle opportunità
La prima volta che un kékeh ti tradisce è una vera delusione.
L’industria del tabacco è in mano a un vero e proprio – e perfettamente legale – cartello e questa non è per niente una notizia: più o meno è sempre stato così.
L’Africa è da decenni “il continente del futuro” ma, da decenni, subisce una narrazione eurocentrica che non rende onore alla realtà del continente africano.
Fumare uccide. E se proprio non dovesse uccidere è molto probabile che causerà un problema di salute. Il fumo però è anche una commodity altamente remunerativa per il settore del tabacco: globalmente nel 2017 valeva oltre 700 miliardi di dollari [dati Euromonitor], un fatturato che per il 64% proviene dall’Asia e che è sempre più accentrato nelle mani di pochi attori globali.
Nel 2001 il 43% del mercato globale di sigarette era controllato da 5 aziende multinazionali le quali, in appena 16 anni, nel 2017 sono arrivate a controllare l’80,6% del mercato: China National Tobacco Corporation, Philip Morris International, British American Tobacco, Japan Tobacco e Imperial Tobacco si spartiscono oggi guadagni enormi lucrando sui vizi e soprattutto sulla salute della popolazione mondiale. L’industria del tabacco è in mano a un vero e proprio – e perfettamente legale – cartello e questa non è per niente una notizia: più o meno è sempre stato così anche se negli ultimi 10 anni tale situazione si è non solo consolidata ma il cartello è riuscito a ritagliarsi una fetta di mercato sempre più grande.
È la Cina il paese più fumatore del mondo: vale il 42,6% del mercato ed è totale appannaggio della China National Tobacco Corporation (CNTC), società pubblica di proprietà del governo cinese. La quasi totalità della produzione è a uso interno: la Cina esporta infatti appena l’1% delle sigarette che produce e questa è anche la principale differenza con gli altri attori globali. Philip Morris, società americana con sede a Losanna che vende sigarette perlopiù al di fuori degli Stati Uniti, detiene il 14,1% del mercato, opera in 180 paesi del mondo e detiene 6 dei 15 top-brand del tabacco, tra cui Marlboro (il marchio di sigarette più venduto al mondo); British American Tobacco ha sede a Londra, opera in 200 paesi e detiene l’11,8% del mercato; Japan Tobacco ha sede a Tokyo e Ginevra, opera in 130 paesi e controlla l’8,4% del mercato e infine Imperial Tobacco ha sede a Londra, governa il 3,7% del mercato globale e opera in 160 paesi, con tassi di crescita interessanti in Italia, Russia, Giappone e Arabia Saudita. I numeri sono impressionanti: nel 2016 solo in Svizzera (buona parte dei pacchetti in vendita in Italia sono “Made in Switzerland” ma il paese è solo il quindicesimo esportatore al mondo) sono stati prodotti 34,5 miliardi di sigarette, cioè 2 miliardi di pacchetti, cioè quanto basta per soddisfare il bisogno di fumo di poco più di 5 milioni di persone che fumano un pacchetto al giorno. Fatturati alla mano le sigarette svizzere nel settore delle esportazioni elvetico sono terze in classifica dopo il formaggio e il cioccolato.
E il mercato africano, la cosiddetta “economia del futuro”? Uniti assieme i mercati di Cina, Indonesia, Russia, Giappone e Stati Uniti rappresentano oltre il 60% del totale del mercato globale del tabacco e in generale nessun paese africano, oggi, è tra i primi 10 consumatori di sigarette. Ma la tendenza prospetta un futuro rivoluzionario: British American Tobacco sottolinea che dal 2016 il mercato della Nigeria registra una fase di crescita enorme, Japan Tobacco continua a espandersi in mercati emergenti come Egitto e Tunisia e Philip Morris è proprietaria di brand riconosciuti in tutte le nazioni africane. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’80% dei fumatori vive in paesi a basso e medio reddito e questo spiega perché le sigarette in Africa vanno sempre più forti. Per lungo tempo il continente africano è stato sostanzialmente risparmiato dalle malattie correlate al consumo di sigarette ma secondo l’OMS nei prossimi 10 anni il vizio del fumo esploderà: attualmente (dato 2017, l’ultimo disponibile) sono 77 milioni i fumatori residenti in un paese dell’Africa ma entro il 2025 questi aumenteranno del 40%.
Secondo i dati di Tobacco Atlas, pubblicati un anno fa dall’American Cancer Society, tra il 1980 e il 2016 il consumo di sigarette nell’Africa sub-sahariana è aumentato del 52% per effetto dell’aumento della popolazione e questo ha inevitabilmente provocato un aumento del tasso di incidenza del fumo sulla salute pubblica. Osservando i grafici di Tobacco Atlas non si può parlare di “curve di crescita” ma di linee bisettrici, dritte e indicanti una crescita che qualsiasi imprenditore in qualsiasi settore vorrebbe vedere per la propria azienda. Oggi l’intero continente africano conta circa un miliardo di abitanti, entro il 2050 potrebbero diventare 2,5 miliardi; questo, unito all’assenza o alla permissività delle norme sul controllo del tabacco e dei suoi derivati (l’unico paese a essersene dotato e a farle rispettare è il Sudafrica, il Burkina Faso opera esperimenti interessanti), fa del continente africano il luogo migliore dove investire per i big del tabacco. Questo mercato in Africa è come sarebbe in Europa se non ci fossero regole ma si volesse sempre salvare le apparenze: ci sono paesi, come il Senegal e il Marocco, in cui i pacchetti di sigarette in vendita vanno marchiati per legge con fotografie impressionanti, le stesse che si stampano sui pacchetti europei e coprenti il 70% della superficie della confezione ma secondo il capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Salute del Senegal Mactar Ba il 20% dei ragazzi e il 10% delle ragazze senegalesi tra 15 e 19 anni fuma.
Entrare nel mercato è facilissimo: basta sponsorizzare, con grande ambiguità, un politico o un torneo di calcio, un evento culturale o d’affari e il gioco è fatto. Restarci è ancora più facile: cartelloni pubblicitari enormi, ombrelloni a ogni angolo di strada, tavolini e sedie brandizzati in ogni locale, accendini e sigarette distribuiti gratuitamente, scatole di fiammiferi in regalo nei ristoranti, il tutto con un sottotesto chiaro: il fumatore ha enorme successo sociale. La politica esercita un ruolo chiave: in Kenya e Uganda ad esempio British American Tobacco cerca di impedire agli Stati, lo raccontava il Guardian nel 2017, di legiferare norme anti-fumo mentre in Togo, Burkina Faso e Etiopia Philip Morris sponsorizza delle fondazioni anti-fumo con 80 milioni di dollari l’anno ma l’attività di tali enti si ferma all’incasso dell’obolo annuale. In Marocco, nonostante gli standard legislativi europei prevedano dei limiti precisi ai valori di catrame, nicotina e monossido di carbonio, non esistono laboratori pubblici né enti di controllo che vigilano sul rispetto di queste norme.
Giovani e donne (oggi simbolo del “marketing della libertà”) sono il target principale di un prodotto che, in Europa, sarebbe totalmente fuorilegge. Ma andiamo con ordine: la crisi del mercato del tabacco nei paesi che hanno iniziato a dotarsi di normative anti-fumo ha costretto i produttori a guardare altrove, in quei mercati emergenti in cui cresce la popolazione, la capacità di spesa e il Pil. Mentre in Europa il trend si è invertito perché sempre più persone smettono di fumare e sempre meno cominciano, ogni anno il consumo di sigarette in Africa cresce del 3,5%.
Il mercato del futuro, l’Africa, è tale anche per il settore del tabacco, che localmente non produce praticamente niente ma acquista materie prime e secondo un’inchiesta di Marie Maurisse per Public Eye le sigarette importate in Africa sono le più tossiche del mondo. Una Marlboro, pacchetto certificato “Made in Switzerland”, comprata in Marocco fa più male di una Marlboro comprata in Spagna.
In Europa infatti le autorità hanno introdotto lo standard chiamato 10-1-10: 10mg di catrame, 1mg di nicotina e 10mg di monossido di carbonio. Uno standard che nessuna delle sigarette acquistate in Marocco e testate da Public Eye rispetta, indicando valori più alti anche del 50% per ogni componente. E ciò che è più grave è che il consumatore marocchino questo non lo sa: i valori indicati sui pacchetti infatti sono gli stessi previsti per il mercato europeo. Abbiamo contattato Japan Tobacco International chiedendo loro di commentare i risultati di Public Eye su brand come Winston e Camel e la risposta è stata questa: «Tutti i prodotti legati al tabacco comportano rischi per la salute» ma nel caso specifico «nessun metodo standardizzato può replicare le abitudini dei consumatori». Quindi? Abbiamo cercato di capire questo come possa giustificarsi di fronte all’evidenza di sigarette che contengono quantità diverse di composti chimici da quelle indicate sull’etichetta ma non abbiamo ottenuto risposta. Abbiamo allora provato a contattare Philip Morris, chiedendo come mai una Marlboro prodotta in Svizzera e venduta in Africa contenga più catrame di una Marlboro prodotta in Svizzera e venduta in Europa: «È fuorviante concentrarsi sulle concentrazioni di catrame» ci ha risposto l’azienda, spiegando che questo non è un indicatore di rischio preciso. Abbiamo provato allora a spostare l’attenzione sulla concentrazione di nicotina e la risposta è stata che i valori «sono conformi ai requisiti ISO 8243» che consentono anche una piccola discrepanza tra ciò che si indica in etichetta e ciò che si fuma. L’importante, per le norme svizzere, è essere in regola con le fabbriche: lavoratori, linee di produzione, impianti che siano i più “verdi” possibili, tutto deve essere allineato alle leggi elvetiche, che tuttavia relativamente ai controlli sul prodotto lasciano a desiderare. Soprattutto sugli stock destinati all’estero. La legge elvetica stabilisce che lo standard 10-1-10 va rispettato e che chiunque produca sigarette ha l’onere di dimostrarne la conformità ma secondo il portavoce dell’Ufficio Federale della Sanità Pubblica svizzera (UFSP) Adrien Kay «le cifre dichiarate sui pacchetti non vengono controllate in Svizzera» e quindi tocca affidarsi alla buona fede del produttore.
L’Africa è da decenni “il continente del futuro” ma, da decenni, subisce una narrazione eurocentrica che non rende onore alla realtà del continente africano.
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La rivalità tra Francia e Regno Unito non si è mai sopita e il caso moderno del Camerun è emblematico.
Quanto valgono i migranti del mondo? Questa domanda sembra una boutade, una provocazione, un vezzo. Ma guardando la realtà, guardando i numeri, non è nulla di tutto ciò.
Verso la metà di aprile sui social network più in voga in Marocco è partita una campagna volta a promuovere un boicottaggio di alcuni prodotti di larghissimo consumo come il carburante dei distributori Afriquia, le acque minerali Sidi Ali e i latticini di Centrale Danone.
Dal 3 luglio 2018 il sindaco della capitale della Tunisia è, per la prima volta, una donna. E questo è un fatto assolutamente rivoluzionario: si chiama Souad Abderrahim, ha 53 anni ed è a capo di un’azienda farmaceutica.
Secondo la filosofia Ubuntu, un’etica filosofica antica dell’Africa sub-sahariana, «io sono perché tu sei»: in lingua bantu ubuntu significa «benevolenza verso l’altro» e descrive in una parola una regola di vita basata sul rispetto e sulla compassione, nel senso più classico del «patire con».
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Du Bois è stato di fatto un precursore, uno dei pionieri del Rinascimento Africano.
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Tra il 2022 e il 2023 è in corso una guerra per rendere il cacao veramente sostenibile: cioccolato o morte.
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Vista dall’estero è un modello, un caso di studio e un vanto per la città di Milano, solo che vista da Milano praticamente non esiste
Quasi soltanto a parole, o in qualche report finanziato da progetti europei. Nella realtà le cose sono ancora molto indietro
È un progetto italiano finanziato dall’Europa, mette insieme AI, analisi dei dati e progettazione urbana ed è già a disposizione del Comune di Milano