Ep. 02

Un esercizio di memoria

Wilhelmine abita nel cuore di Don Bosco, nel quadrante sud-est di Roma.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Quando morirò

In Italia il Parlamento non si è mai espresso sulla normativa riguardo l’eutanasia, nonostante sia stato chiamato più volte a farlo.

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Nonostante il suo nome suggerisca ampie pianure olandesi o fredde città tedesche o austriache, Wilhelmine abita nel cuore di Don Bosco, nel quadrante sud-est di Roma. Don Bosco è noto per essere uno dei quartieri più popolari della città. In mezzo ai palazzoni che abbracciano la via Tuscolana si susseguono uno dopo l’altro centri sociali, frutterie, vecchi negozi di moda e bar sormontati da polverose insegne anni Settanta.

Sul muro di fronte casa di Wilhelmine c’è una lupa giallorossa accanto a cui si legge: Daje Roma.

Quando apre la porta, l’ingresso buio in legno ci accoglie in una casa ospitale in cui il tempo si è fermato. «Ho preferito rimanere qui perché tutto mi ricorda lui, e a me piace così» spiega col suo accento vagamente tedesco. Ovunque sulle pareti ci sono poster, fotografie e quadri del compagno della sua vita.

Manca solo lui.

Wilhelmine infatti è vedova. Ormai da anni ha deciso di usare un nome italiano e il cognome dell’uomo che l’ha accompagnata finché ha potuto. Oggi Wilhelmine Schett si chiama Mina Welby, e insieme a suo marito Piergiorgio è stata la pioniera della lotta per l’eutanasia in Italia.

Un artista

«Piergiorgio l’ho conosciuto a Campo de’ Fiori un giorno del 1972. Lui stava sotto la statua di Giordano Bruno e io m’ero persa. Gli ho chiesto un’indicazione per Piazza Venezia e lui mi ha mostrato la strada accompagnandomi. Fu così gentile…» ricorda Mina Welby mostrando le fotografie scattate da Piergiorgio. Accanto alle fotografie ci sono ritratti e autoritratti che dimostrano la vena artistica di Welby, che fu anche giornalista e poeta e passò l’ultimo periodo di vita inchiodato a un letto proprio in questa stanza.

I quadri di Piergiorgio Welby

«Quando lo conobbi zoppicava vistosamente, poi scoprii che aveva la distrofia muscolare. Aveva una voglia di vivere incredibile. Guarda questa foto: alla fine degli anni Sessanta si comprò questa Giardinetta insieme a degli amici e ci andarono in Olanda dopo averla dipinta. Guarda qui: Olanda o morte».

Mina Welby e le foto

La diagnosi di distrofia muscolare gli era arrivata in giovanissima età, intorno ai quindici anni, ed era stata inequivocabile . Pochi anni di vita ancora e poi la malattia gli avrebbe progressivamente bloccato anche le funzioni minime vitali. Eppure visse ben oltre le aspettative, riuscendo anche a sposare Mina. «Provava molto dolore, e per questo si avvicinò alle droghe» racconta Mina. «Per lui erano come un potente lenitivo, che però ben presto lo fecero cadere nella tossicodipendenza».

 

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Amore tossico

Tra gli anni Settanta e Ottanta Roma è invasa dalle droghe, come buona parte delle città italiane. Don Bosco è ancora periferia in quel momento, e le ampie aree verdi sono ritrovo di comitive di giovani o giovanissimi che si fanno di droghe pesanti, in primis eroina. Quasi tutti nel quartiere conoscono almeno una persona che ci è cascata dentro.

Gli stessi amici di Piergiorgio entrano nel giro. Per lui però è diverso. L’eroina è la via più breve per non sentire dolore: i farmaci non sono ancora abbastanza potenti e sono costosi e difficili da reperire. Ma il prezzo da pagare è altissimo: il mix tra eroina e distrofia lo sta mangiando vivo. Serve una disintossicazione con metadone.

«Furono anni difficili» ricorda Mina. «Vivevamo qui in questa casa, vicino ai suoi genitori. Lui aveva sviluppato un carattere sempre più difficile e io gli stavo accanto. Davo ripetizioni di lingua e aiutavo i ragazzi della zona coi compiti, ma non chiedevo quasi niente perché erano tutti di famiglie povere».

Il tabù

La prima volta che Mina e Piergiorgio parlano di eutanasia è alla fine degli anni Novanta, quando in seguito a una crisi respiratoria i medici decidono di praticargli una tracheotomia per tenerlo in vita. «Stava molto male, provava dolore e non riteneva quella condizione abbastanza dignitosa. Mi chiese di staccare la spina» ricorda Mina.

Ma nell’Italia degli anni Novanta parlare di eutanasia è ancora un tabù. Per questo Piergiorgio decide di dare risonanza alla propria storia. In breve tempo si organizza con un macchinario che gli consente di scrivere con la voce, apre uno dei primi forum online per parlare della propria condizione e di quella di persone gravemente malate e diventa componente di spicco della neonata Associazione Luca Coscioni.

La sua storia diventa pubblica, come il suo dolore.

«Ricordo che tante persone volevano parlargli: politici, giornalisti, amici vecchi e nuovi, anche le persone che incontravo per strada. Era felice di poter dar voce alle persone che si trovavano nella sua stessa condizione, ma nel frattempo perdeva sempre più la sensibilità delle mani e aveva sempre più difficoltà nel dipingere e nello scrivere. Si stava spegnendo».

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Foto – Associazione Luca Coscioni

Lo scandalo

Quand’eravamo piccoli, avremo avuto sei-sette anni, di voi due si parlava ovunque, anche a scuola le maestre ce ne parlavano. Eravate un vero scandalo!, le facciamo notare, e lei sorride.

«Sì, uno scandalo. La Chiesa non ne voleva sentir parlare, tutto il Parlamento spaccato. Mi ricordo che la gente al bar e al supermercato mi guardava in modo diverso, come fossi una star. Però devo dire che ho sempre sentito tanto sostegno intorno a noi» ci risponde sorridendo ancora.

I primi anni Duemila hanno effettivamente cambiato la storia del rapporto tra l’Italia e l’eutanasia. La storia di Piergiorgio e Mina Welby ha posto davanti agli occhi di chiunque le conseguenze nefaste della mancanza di una legge.

Ma non bastò.

La legge non si fece.

Piergiorgio morì il 20 dicembre del 2006, dopo aver preso un mix di farmaci e spento le macchine che lo tenevano in vita. «Legge o non legge, siamo stati accanto fino all’ultimo. Negli ultimi giorni non voleva più vedere nessuno, l’ultimo a visitarlo a parte me fu un ragazzino del quartiere. Niente politici, niente giornalisti, niente di niente. Il problema – conclude Mina con voce flebile – è tutto quello che è venuto dopo».

Tu sei stato felice con me?

A Welby fu negato il funerale in chiesa. I funerali pubblici si tennero nella grande piazza antistante la chiesa intitolata a Don Bosco che dà il nome al quartiere. L’anestesista che somministrò i sedativi alla presenza di Mina, di altri familiari e di alcuni esponenti dei Radicali e spense le macchine passò per le mani della Giustizia, venendo poi del tutto prosciolto nel luglio del 2007.

A quindici anni di distanza Mina Welby è ancora attiva. Raccoglie firme in favore dell’eutanasia, dà sostegno ai malati e alle famiglie, interviene pubblicamente a favore di una legge. «Se quando è morto Piergiorgio ci fosse stata una legge» spiega «la nostra sofferenza sarebbe stata alleviata e molto più breve. Avremmo evitato dolori disumani e vissuto le ultime ore con maggior dignità. E invece non solo non è successo, ma continua a non succedere, e io sono costretta a rivivere il mio dolore nel dolore delle famiglie a cui provo a dare una mano» conclude Mina.

Prima di lasciarci andare, ci tiene a farci spostare nel salone. Sembra una pinacoteca. Ci sono quadri ovunque, le pareti non hanno più spazio. Ci sono quadri sui divani, poggiati a terra, accatastati, dentro gli armadi. «Se ci fate caso lo stile cambia con l’evolversi della malattia. Guardate le date» suggerisce. Più la data si avvicina al 2006 e più lo stile si fa vago, riflessivo, immaginifico. Le riproduzioni realistiche di piante, animali e persone lasciano il posto a una pittura meno definita e che lascia campo all’interpretazione.

«Quando stava per morire un giorno mi chiese “ma tu sei stata felice con me?” e io gli risposi “Certo! E tu con me?”. Lui mi disse di sì, e io gli dissi che mi bastava questo. Mi piace tanto questo posto, ogni quadro mi ricorda un momento diverso. È tutto un esercizio di memoria che abbiamo io e Piergiorgio. Capito perché non me ne sono mai andata?»

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