Ep. 4

Fondi Ue per un lavoro più agile

A Torino e Venezia i fondi della politica di coesione dell’Unione Europea sono stati usati per garantire una migliore conciliazione vita – lavoro a libere professioniste, lavoratori e lavoratrici di piccole aziende ed enti del terzo settore. Categorie che, solitamente, faticano a godere dei benefici di smart working e welfare aziendale.

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Il Welfare aziendale ha un futuro?

Dopo la pandemia, conciliare vita e lavoro è diventata una priorità. Che il welfare aziendale cerca di concretizzare.

Una persona lavora a pc e prende appunti

Quel bando Alessandro Prandi se lo ricorda bene. Del resto, come dimenticarlo: «Scadeva a fine febbraio del 2020, pochi giorni prima del lockdown», ricorda oggi. «Allora», racconta, «lo smart working era poco praticato, men che meno nel Terzo Settore. Mai avremmo pensato che di lì a poco sarebbe diventato essenziale per continuare a lavorare».

Prandi è responsabile progetti e sviluppo dell’associazione Vol.To., Volontariato di Torino, risultata nel 2020 tra i beneficiari del bando “We.Ca.re – Welfare Cantiere Regionale” del Piemonte. Un’iniziativa da 4 milioni di euro dedicata alla diffusione del welfare aziendale e finanziata attraverso le risorse del Fondo sociale europeo, che per Vol.To. e le altre associazioni partner è stata salvifica. Ha infatti consentito loro di avviare la sperimentazione del lavoro agile, quello che oggi, dopo la pandemia, rappresenta a tutti gli effetti uno dei principali strumenti di conciliazione tra vita e lavoro.

«Nel nostro mondo ci sono molte dipendenti donne che hanno sempre fatto fatica a conciliare gli impegni di lavoro con i carichi familiari», spiega Prandi. «Ma senza fondi dedicati non saremmo mai riusciti ad avviare queste modalità di lavoro. I fondi ordinari che riceviamo sono di fatto vincolati a coprire i progetti di cui ci occupiamo. Diversamente da un imprenditore che con i propri ricavi può fare quello che vuole, compreso investire nel welfare aziendale, noi non abbiamo risorse riservate ai lavoratori».

"Senza fondi dedicati non saremmo mai riusciti ad avviare queste modalità di lavoro".
Alessandro Prandi

Da qui l’idea di partecipare al bando della Regione Piemonte con il progetto “Smart Working for Smart Association”, di cui Vol.To. è stata capofila di altre sette associazioni e che ha potuto contare su un importo totale di quasi 100mila euro tra contributi concessi (quasi 80mila euro) e fondi di cofinanziamento.

«Per prima cosa, abbiamo mappato le associazioni del terzo settore a livello regionale mettendo in evidenza il loro essere “datori di lavoro”», spiega Prandi. «Poi abbiamo fatto un sondaggio sui bisogni di welfare aziendale tra i lavoratori, a cui è seguito un corso di formazione sulla gestione e l’organizzazione del lavoro agile». Non solo. «Negli enti abbiamo anche avviato specifici corsi di formazione per istituire la figura del welfare manager, ovvero il soggetto che sonda i bisogni dei lavoratori e trova soluzioni».

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Da questo percorso, avviato e conclusosi tutto in piena pandemia, è rimasto un «patrimonio smart» per il mondo delle associazioni piemontesi. «Abbiamo redatto un modello finale di piano di welfare aziendale applicabile al mondo associativo», spiega Prandi. «E in più abbiamo realizzato una guida su cosa vuol dire fare il welfare aziendale nei contesti associativi».

Oggi, a progetto concluso e senza emergenza epidemiologica, il lavoro agile in Vol.To. «è rimasto una buona abitudine», dice Pandri. «Questo progetto ci ha consentito di rendere l’approccio al lavoro più flessibile, lavorando per risultati e obiettivi e riuscendo a conciliare meglio il lavoro con la vita».

Nuove figure, procedure organizzative e competenze restano quindi come patrimonio in una gestione più flessibile del lavoro. Ma il lavoro agile ha bisogno anche di investimenti tecnologici, dentro e fuori le aziende, per poter funzionare. Computer, smartphone, connessioni veloci, sicurezza informatica.

E questo è anche uno dei motivi per cui, come si legge nell’ultimo report dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il lavoro agile è ormai presente nel 91 per cento delle grandi imprese italiane, mentre nelle piccole e medie imprese la quota si è ridotta dal 53 per cento del 2021 al 48 per cento del 2022.

«Molte aziende, senza finanziamenti, il welfare aziendale non possono farlo»
Valentina Zuin

«Molte aziende, senza finanziamenti, il welfare aziendale non possono farlo», conferma Valentina Zuin, coordinatrice dei progetti di Formaset, cooperativa di Venezia che gestisce progetti per aziende finanziati tramite i fondi europei. «Noi intercettiamo qualcosa che esiste già nella testa delle aziende come bisogno, ma che richiederebbe un investimento che non possono permettersi. È così che, grazie ai fondi Fse , abbiamo fatto sì che anche le aziende più piccole del territorio avessero attività di formazione e strumenti tecnologici necessari per lo smart working in forma gratuita».

Con il progetto “Nascere donna, rinascere impresa” del 2020, ad esempio, Formaset è riuscita a introdurre lo smart working in forma permanente anche in aziende con meno di dieci dipendenti e a proporre una formazione sul tema anche alle professioniste autonome del territorio. Il tutto grazie al POR FSE 2014-2020 della Regione Veneto, e cioè il piano operativo con cui la Regione ha deciso di usare i contributi del Fondo sociale europeo per investimenti a favore della crescita e dell’occupazione, con una particolare attenzione alle lavoratrici donne.

«Siamo partiti da una consulenza di alto livello rivolta ai manager, perché se non cambia da lì la gestione del lavoro, non si va da nessuna parte», racconta Zuin. «Poi, oltre alle attività di formazione sulle digital skill per manager e dipendenti, c’era anche una linea dei fondi Use  destinata all’acquisto di hardware».

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È così che due aziende, Bressan Legnami e Agevola, hanno ricevuto due «box station» per due dipendenti ciascuna. «Una sorta di uffici mobili con pc, stampante, cuffie, microfono e un finanziamento per la connessione Internet», racconta Zuin, «in modo che le quattro dipendenti avessero a casa tutto il necessario per poter lavorare a distanza».

Per le professioniste, invece, «è stata fornita soprattutto formazione sulle competenze digitali e l’uso delle piattaforme per attuare il lavoro agile. Parliamo di consulenti del lavoro, architette, geometri, commercialiste che così potevano anche lavorare al di fuori degli studi, conciliando meglio lavoro e famiglie». Una mossa innovativa, considerando che i lavoratori autonomi, tranne poche eccezioni di qualche studio professionale lungimirante, normalmente restano fuori dalle iniziative di welfare aziendale. Con il risultato che, come spiegal’associazione dei freelance Acta, le disuguaglianze tra lavoratori nel welfare privatosi sommano quelle già presenti nel  welfare pubblico..

Il progetto veneto si è concluso a fine 2021. Ma anche qui, come avvenuto trale associazioni del terzo settore piemontesi,il lavoro ibrido, un po’ a distanza un po’ in presenza, è ormai diventato una buona abitudine per conciliare vita e lavoro. «Anche se non ci sono più i finanziamenti, questi progetti continuano a camminare sulle loro gambe», dice Zuin.

Secondo gli ultimi dati dell’Inapp, lo smart working in Italia oggi interessa il 14,9 per cento degli occupati, che svolge parte dell’attività da remoto. Ma il bacino potenziale potrebbe essere ben più ampio, considerando che fino al 40 per cento della forza lavoro potrebbe oggi lavorare in modalità “smart”.

Cos’è che frena aziende e lavoratori? Dopo il boom vissuto nel 2020, in piena pandemia, quando l’Italia è passata dal 4,8 per cento di telelavoro dell’anno precedente al 13,7 per cento, il tasso di crescita ha subito una brusca frenata, dimostrando che l’opportunità del “lavorare ovunque” non è stata colta appieno dalle aziende. Certo, ci sono lavori che non si possono fare a distanza, ma molti altri sì. Sulla limitata diffusione dello smart working incide il differente grado di “smartabilità” del lavoro, che varia dal 25 per cento per le professioni intellettuali o esecutive al 2 per cento di quelle non qualificate. Ma la percentuale è anche legata alla differente capacità dei manager di adottare nuovi modelli organizzativi e investire in nuove tecnologie, che è più ridotta nelle piccole e medie imprese, come confermano i dati.

I fondi della politica di coesione UE , dunque, potrebbero essere un volano utile per lavorare meglio, diventando più “smart”. E i casi di Torino e Venezia lo confermano.

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