Ep. 04

Che cos’è la trappola dello sviluppo?

Nell’Ue, nonostante la politica di coesione, i territori in cui la prosperità dei residenti non migliora sono molti. Ed è un problema, anche in Italia.

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Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Le basi della coesione

Capire la Politica di Coesione, e i suoi effetti sulle nostre vite di cittadine e cittadini, è cruciale ma non sempre facile. Con questa serie collettiva, proviamo a sciogliere un po’ di nodi.

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L’obiettivo dichiarato della politica di coesione dell’Unione europea, fin dal proprio nome, è promuovere sviluppo per avere maggiore coesione tra i territori dell’Ue. Sviluppo e coesione sono due dei pilastri su cui si poggia l’idea stessa di Europa, fin dai suoi primi anni di vita. 

 

Dal 1957, con l’istituzione della Comunità economica europea e del Fondo Sociale Europeo (FSE), la politica di coesione si basa su interventi speciali che puntano a uno sviluppo armonico dei territori, per promuovere il dinamismo economico delle regioni, cercando di portare quelle meno sviluppate a tassi di sviluppo e redditi alti quanto quelle più ricche. In alcuni casi riuscendoci, in altri no.

 

Promuovere lo sviluppo, ridurre le diseguaglianze e aumentare la coesione dell’intera Unione è uno scopo nobile che ha un costo importante. Per il periodo che va dal 2000 al 2027, per questo scopo, l’Unione ha stanziato oltre 1.200 miliardi di euro. Lo ha fatto attraverso quattro cicli di programmazione settennali. L’ultimo, quello in corso, va dal 2021 al 2027, la sua partenza è stata fortemente rallentata dalla pandemia e quindi ha ancora poco senso farci i conti. 

 

Ma anche al netto del settennato attuale, i dati a nostra disposizione sono tanti, da quelli praticamente completi sui primi tre cicli conclusi a quelli, ormai acquisiti, sull’andamento economico delle regioni nel primo ventennio del secolo.

 

È naturale, poi, che proprio quest’anno si tiri una riga e si tragga un bilancio di questi investimenti pluriennali, anche perchè a decidere del futuro di queste politiche ci sarà un nuovo parlamento, che verrà votato dai cittadini dell’Unione tra il 6 e il 9 giugno di quest’anno. E qualcosa, anche nei fondi di coesione, potrebbe cambiare.

Cosa ci dicono i dati?

A guardare i dati relativi alla crescita del Pil nel primo ventennio di questo secolo, emerge nettamente come l’Europa sia spaccata in due da un comportamento duplice dei suoi territori. Quello che si osserva nella mappa che registra l’andamento del Pil, lo si ritrova anche in un importante rapporto presentato alla Commissione e intitolato La trappola dello sviluppo regionale in Europa.

 

Ci si legge: «Negli ultimi decenni è diventato sempre più chiaro che […] molte regioni hanno affrontato problemi di dinamismo economico e di scarsa crescità simili a quelli descritti in alcuni paesi a reddito medio e ciò sta generando un’Europa a velocità diverse».

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Crescita del PIL pro-capite 2001-2019, variazione percentuale media rispetto all'anno precedente. Fonte: Eighth Report on Economic, Social and Territorial Cohesion

C’è una parte, nell’immagine quella in verde, rappresentata dalle regioni dell’Europa orientale, che è quella dei paesi che partivano attardati sui valori del Pil, della produzione e dell’occupazione. Questi stati anche grazie ai fondi di coesione, hanno visto una crescita tale da garantire il passaggio a un gradino superiore di prosperità (che, però, come abbiamo visto, non tocca tutta la popolazione allo stesso modo),.

 

E poi c’è l’altra parte, invece, quella rossa, che contiene quasi tutte le regioni dell’Europa meridionale e in parte di quella occidentale, regioni che quel gradino di sviluppo economico lo consideravano già acquisito e che partivano da un reddito superiore, ma che pur avendo visto il finanziamento di tantissimi progetti importanti nei territori, non sono riuscite a continuare a crescere e hanno registrato, dice il rapporto, «una stagnazione se non una contrazione della propria economia». 

 

La constatazione si trova anche nell’Ottava relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale pubblicata dalla Commissione nel febbraio del 2022. Nel testo originale, la relazione contiene un’ultima breve frase subordinata, che chiude il paragrafo, tanto gelida quanto lapidaria: «ciò significa che si trovano in una trappola dello sviluppo».

 

C’è anche un altro aspetto da tenere presente, una dinamica importante che emerge dalla relazione della Commissione: «man mano che il gruppo dei paesi a reddito medio si è ingrandito, la transizione per uscirne è diventata più rara. Solo una regione — la Slovenia Occidentale — su un totale di 53 regioni che appartenevano alla categoria media nel 2000 è riuscita a raggiungere un Pil pro capite superiore alla media nel 2019». Insomma, una trappola nella trappola.

Che cos’è questa trappola dello sviluppo?

Prima di tutto, partiamo dal nome. L’espressione “Trappola dello sviluppo”, tra gli economisti, non è una espressione completamente nuova e non nasce nello stesso contesto in cui la stiamo usando noi, quello della politica economica dell’Unione Europea. Esiste da quasi vent’anni. 

 

Fu introdotta, nella sua versione inglese di Middle Income Trap, nel 2006 dalla Banca Mondiale, e serviva per descrivere la stagnazione cronica di paesi con redditi bassi, quelli con un Pil pro capite compreso tra i 1.000 e i 12.000 dollari americani (a tassi del 2011), e divenne un’etichetta da affibbiare alla maggior parte dei paesi dell’America Latina, per esempio, e alla loro scarsa crescita della produttività.

 

Un esempio su tutti? Il Brasile, che si trova in questa condizione dagli anni Sessanta. Nel 1950, il paese sudamericano aveva un tasso di crescita paragonabile a quello della Corea del Sud. Poi, il Brasile è rimasto fermo, in trappola, mentre la Corea del Sud è cresciuta e, dalla trappola, è riuscita a uscire. 

E in Europa che significa?

L’espressione, per come la stiamo usando noi oggi, è stata adattata allo scenario europeo giusto alcuni anni fa, nel 2020, grazie a un lavoro assegnato su bando proprio dalla Commissione, di quattro docenti della London School of Economics: Simona Iammarino, Andrés Rodríguez-Pose, Michael Storper e Andreas Diemer.

 

I quattro scrissero un report — che abbiamo citato all’inizio — che presentarono direttamente alla Commissione europea, intitolato Falling into the Middle-Income Trap? A Study on the Risks for EU Regions to be Caught in a Middle-Income Trap, consegnato nel giugno 2020. Da quello, pochi mesi dopo, nacque il paper accademico, ovvero uno articolo pubblicato sul numero 98 della rivista Economic Geography, nel luglio del 2022, dal titolo più sintetico, The Regional Development Trap in Europe.

 

In quest’ultimo paper, la trappola dello sviluppo viene presentata così: «Nel contesto europeo, definiamo la trappola dello sviluppo regionale come la condizione di una regione che è incapace di mantenere il proprio dinamismo economico in termini di reddito, di produttività e di occupazione, sottoperformando sui questi stessi parametri rispetto ai propri omologhi nazionali ed europei. 

 

In altre parole, si può dire che una regione è intrappolata nello sviluppo se la prosperità dei suoi residenti non migliora rispetto alla performance passata e alle condizioni economiche prevalenti sui mercati nazionali ed europei». 

Come si misura?

Gli indici elaborati dal team della London School of Economics sono in realtà due, il DT1 e il DT2, ma vista la stretta parentela tra i due, è il primo, quello più semplice e lineare, che viene utilizzato più spesso.

 

In sé, questo indice DT1, che misura il coefficiente di intrappolamento, è un valore che varia da 0 a 1 e che esprime in una cifra l’andamento di tre variabili: il Pil pro capite a prezzi costanti del 2005, il valore aggiunto lordo totale per lavoratore (ovvero la produttività) a prezzi costanti del 2005 e il rapporto occupazione/popolazione. Queste variabili sono contemporaneamente messe in rapporto ai dati della media europea, a quelli nazionali e a quelli storici del territorio stesso. 

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Rischio medio di rimanere intrappolati, quartili della distribuzione nel periodo 2001-2015. Immagine tratta dal rapporto La trappola dello sviluppo regionale in Europa, 2022.

«È un tasso, e come tutti i tassi deve essere preso con le pinze», ci ricorda però la stessa professoressa Simona Iammarino, coautrice del report e dell’articolo in questione, che nel frattempo, causa Brexit, dalla School of Economics di Londra si è spostata a Cagliari.

 

Queste sono le mappe dell’Europa a base regionale che esprimono la variazione dei due indici. Più l’azzurro si fa scuro, più il territorio in questione è a rischio intrappolamento. Ancora una volta, anche in questa mappa, basta un colpo d’occhio. E per l’Italia è un colpo d’occhio drammatico, visto che ritrae un paese interamente affetto da questa dinamica: le regioni ritenute ad alto rischio di intrappolamento sono tutte, con leggerissime oscillazioni in pochissimi casi.

 

È la foto di una stagnazione, di un paese che non cresce nonostante sia uno di quelli che dai fondi di coesione europei riceve più aiuti, da anni. È una foto che non fa altro che ribadire qualcosa che è già visibile dalle griglie europee che definiscono lo sviluppo regionale e che, per l’Italia, sono impietose. Per il ciclo 2021-2027, le regioni considerate meno sviluppate nel nostro paese sono Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Una lista che si ripete quasi invariata da quattro cicli di programmazione. Basterebbe questo per capire che qualcosa non sta funzionando. 

 

Il problema, però, non si limita alle soli regioni del Mezzogiorno: è tutta l’Italia che è in trappola. Il Centro Nord in una cosiddetta high income trap (trappola del reddito alto) e il Mezzogiorno in una middle income trap (trappola del reddito medio). Nel primo caso, in blu nell’immagine, le regioni il cui Pil pro capite iniziale era superiore alla media europea e che ora attraversano una fase di stagnazione e relativo declino. Nel secondo, regioni che all’inizio avevano un Pil pro capite compreso tra il 75 e il 100% della media europea, e che ora attraversano una fase di stagnazione. 

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Rischio di rimanere intrappolati nei livelli iniziali e nei primi due quartili nel periodo 2001-2015. Fonte: La trappola dello sviluppo regionale in Europa

Quali sono le cause e le conseguenze di questo intrappolamento?

Una precisazione doverosa, arrivati a questo punto: anche usando indicatori come quelli relativi all’intrappolamento, resta impossibile determinare una equazione fissa che leghi in modo diretto e inscalfibile il valore del tasso, gli effetti e soprattutto le cause. Troppi sono gli  elementi in gioco. Quello che però questo tasso ci porta a individuare sono alcuni dati costanti che ritroviamo sempre o quasi nelle regioni intrappolate: l’inefficienza del mercato del lavoro e dei sistemi di istruzione e formazione per gli adulti, gli scarsi risultati nei settori dell’innovazione, della governance pubblica o dello sviluppo delle imprese e l’accesso limitato ai servizi, per esempio. 

 

Un altra costante che il team di Iammarino ha rilevato è il legame tra crollo del settore manifatturiero o il numero esorbitante di impiegati pubblici e il rischio di intrappolamento, ma ciò non basta per arrivare a una ricetta.

 

«Quando si raggiungono livelli di Pil pro capite del 75% rispetto della media UE poi serve spostare gli investimenti dalle infrastrutture di base al finanziamento della formazione altamente qualificata, dell’innovazione, del miglioramento della qualità dei servizi e delle amministrazioni locali», riconosce la Commissione nel VIII Rapporto sulla Coesione nell’Ue e quando questo passaggio manca i territori rischiano fortemente di finire in trappola.

 

Secondo la commissaria per la coesione Elisa Ferreira, intervenuta alla conferenza stampa di presentazione del rapporto, nel febbraio del 2022, la responsabilità è della politica nazionale. «C’è la tentazione di concentrare gli investimenti nelle regioni più sviluppate», ha detto Ferreira «e si crea una migrazione interna, le persone lasciano i luoghi dove sono nate e hanno vissuto e questo uccide la dinamica dello sviluppo in certe regioni. Bisogna cercare di riequilibrare lo sviluppo nazionale».

 

Ferreira tocca un nodo importante, e non è l’unica a ribadirlo: un fattore determinante per la crescita, e quindi anche per il rischio che quella crescita non arrivi mai, è la scarsa capacità di visione della politica nazionale, che, unita alla storicamente scarsa qualità istituzionale delle amministrazioni pubbliche, difficilmente capisce che la strada è investire bene e su tutto il territorio, per attenuare le diseguaglianze interne e trasversali al paese.

 

Le conseguenze di lungo termine, oltre ovviamente agli effetti stessi della stagnazione economica, sono anche altre. Un rapporto europeo intitolato The geography of EU discontent propone un legame tra la stagnazione regionale e la percezione nei cittadini che esista un’Europa a due livelli. Anche nella percezione ritorna ciò che abbiamo visto emergere dai dati: un’Europa a due velocità. 

 

L’intrappolamento in molte regioni storicamente già sviluppate come l’Italia e la Francia, sta causando risentimento sociale e politico verso ciò che è sempre più considerato come un sistema che non aiuta le aree lasciate indietro, i cui i residenti sentono di contare sempre meno, i cui territori effettivamente arrancano, generando così l’humus perfetto perché si diffondano strane credenze che imputano all’Europa ogni male. Esattamente l’opposto di quello a cui puntava la poltiica di coesione. E se la coesione di sfalda, i partiti politici più fortemente euroscettici prendono il largo e, come diceva il rapporto europeo, «rischia ogni singolo paese, ma anche l’intera Unione Europea». 

Come se ne esce?

Non c’è una ricetta precisa. Per citare una frase che A Brave New Europe molto a cuore, detta da Fabrizio Barca, «i fondi della politica di coesione non bastano, da soli, a fermare e invertire l’aumento delle disuguaglianze territoriali. A meno che non vengano usati per cambiare il modo in cui vengono fatte le politiche ordinarie».

 

Anche il presidente del Comitato delle Regioni, Vasco Alves Cordeiro, nel contesto della 21ª Settimana Europea delle Regioni e delle Città, svoltasi nell’ottobre del 2023, ha affermato qualcosa di simile: «La politica di coesione non può sopravvivere nella sua forma attuale se rimaniamo puramente difensivi», ha detto. 

 

«È necessaria – ha aggiunto – una riforma audace per assicurarne il ruolo di politica a lungo termine, trasformativa e strutturale. […] Nei prossimi mesi sarà cruciale ottenere il sostegno dei governi nazionali per una riforma della politica di coesione».

Immagine di copertina: Saad Salim su Unsplash 

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